I venticinque lettori manzoniani di queste pagine si affrettino a cogliere una straordinaria occasione per spezzare le manette delle loro menti.
Un nuovo parametro stilistico, una linea di confine gettata spudoratamente oltre il limite usuale s'impone alla loro attenzione, con tutta l'abbagliante impertinenza di un autore sfrontatamente sicuro di sé.
Chi considerasse le costruzioni sintattiche che regolarmente vi infliggo come prolisse, eccessivamente barocche o tortuose, beh, ora avrà da inviarmi una lettera ufficiale di scuse formali, con l'imprimatur dell'Accademia della Crusca.
Rispetto alle pagine del libro che sto per introdurvi, il più cervellotico dei miei costrutti apparirebbe un passo di Tacito sintetizzato per essere inviato per telegramma.
Quando a metà degli anni '90 Carmelo Bene tornò a calcare le scene, chi scrive non perse l'occasione di contemplare il miracolo più volte, al cospetto di quella sfinge scostante e fascinosa, incarnazione di un'idea, eterna e per questo inattuale, del Teatro. Eppure già allora, con dolore, s'intravedevano i sintomi della grande piaga a venire: pletore di proto-emo, masse di diversi (tutti uguali), dai profili ostentatamente dark, goffi proseliti che accostavo più al pagliaccio Marilyn Manson che ai dandy baudelariani che intendevano scimmiottare, prendevano d'assalto i teatri, come fossero al concerto di una rockstar alternativa.
La responsabilità, che schiaccia come un macigno la mia coscienza culturale, è anche del sottoscritto, il quale, quindicenne folgorato dalla visione televisiva in diretta della ormai celebre puntata del Maurizio Costanzo Show del '94 (in cui CB appare al sommo della brillantezza dialettica, annichilendo la platea di zombie, come successivamente li appellerà), ebbene si, proprio il sottoscritto, preso da giovanile entusiasmo, diffuse l'incomprensibile Verbo a tutti i suoi conoscenti.
Ecco, dunque, d'improvviso per la Capitale disseminarsi impacciati cloni, cantilenando in una improbabile imitazione citazioni da Laforgue, Derrida, Deleuze, emulando tristemente pose e smorfie dell'incompreso Maestro. Sedotti dalla superficie (l'oltraggio antiborghese nella grande eleganza formale), incantati da alcuni vezzi estetizzanti, gli sfuggiva la sostanza ardente del de-pensiero beniano: il superamento dell'io, la ricerca quasi mistica dell'attimo svanente che conducesse al di là dei limiti del pensiero, dell'illusorio concetto di identità.
Dunque, che conducesse ben oltre anche lo stereotipo ottocentesco, fascinoso ma comunque limitato, dell'artista tutto genio e sregolatezza: un equivoco che egli intendeva obliterare nella macchina attoriale. E col quale veniva scioccamente identificato da questi maldestri, improvvisi, e improvvisati, devoti.
Solo due benedizioni consentono di accostarsi al gigante beniano senza esserne fagocitati fino a diventarne uno sgraziato simulacro: una forte indipendenza intellettuale e una profonda cultura classica.
Andrea Foschini è stato graziato da entrambe.
Questa prolusione iniziale credo sia dovuta, poiché leggendo le incendiarie pagine del suo Caracalla o il mito di Alessandro, non mi è potuto non venire in mente questo frammento delirante tratto dal film Claro di Glauber Rocha
in cui Bene appare al culmine della sua follìa estetica: ebbro, vestito da signora, mentre esalta, appunto, la decadenza sadiana dei pretoriani ("la decadenza è bella"), ritmando, con tempi comici impeccabili, le alte riflessioni con triviali commenti sul gelato che sta gustando.
Pur avendo lo stesso gotha di riferimenti obbligati d'ogni adepto beniano (Francis Bacon, Pierre Klossowski, Van Gogh via Artuad), ribadisco che la grande cultura di Foschini, e una intelligenza indubbiamente feconda, gli consentono d'affrancarsi da qualsiasi rischio derivativo, delineando una fortissima personalità autoriale.
Il grande precedente dell'opera è, indubbiamente, l'Eliogabalo di Antonin Artaud, il libro forse dall'incipit più memorabile a nostra memoria: "Se intorno al cadavere di Eliogabalo, morto senza tomba, e sgozzato dalla sua polizia nelle latrine del proprio palazzo, vi è un'intensa circolazione di sangue e di escrementi, intorno alla sua culla vi è un'intensa circolazione di sperma. Eliogabalo è nato in un'epoca in cui tutti fornicavano con tutti; È né si saprà mai dove e da chi fu realmente fecondata sua madre. Per un principe siriano, quale egli fu, la filiazione avviene attraverso le madri ; – e, in fatto di madri, vi è intorno a questo figlio di cocchiere, appena nato, una pleiade di Giulie; – e ch'esse influiscano o no su un trono, tutte queste Giulie sono delle fiere puttane."
Sulle orme di Artaud, Foschini mette la sua grande competenza storica al servizio di una immensa decostruzione del concetto stesso di Storia. Tutto il racconto della vita di Caracalla, come sospeso in un estenuato delirio onirico, è la testimonianza colossale di un fallimento, di una sfida impossibile destinata alla catastrofe: re-incarnare la grandezza leggendaria di Alessandro, essere colui che non si è, differire la propria disprezzata identità nella proiezione mitica di un Altro, divinizzato, smarrito in un Altrove irrecuperabile del labirinto di illusioni che chiamiamo Storia.
Lo stile di Foschini, complesso, barocco, sovraccarico fino a divenire irrespirabile, è il significante perfetto per rendere, in uno sfibrante crescendo musicale, il disperato anelito all'Impossibile dell'Imperatore tocco e sanguinario.
L'autore sottopone il lettore ad un allucinante tour de force: frasi lunghe come pagine, costruite nel testardo ignorare l'utilizzo della virgola (per Cortàzar, "la porta girevole del pensiero"), nella sistematica moltiplicazione di subordinate e frasi oggettive, in una mostruosa, dissennata costruzione ipotattica che dura per tutto il testo.
Eppure, in questa ostentata farneticazione sintattica, egli è in grado di restituire, non solo, il lucido delirio delle capricciose stragi di massa imperiali, ma anche lo splendore rovinoso, l'orgia autodistruttiva della decadenza romana.
L'apice della gloria nel suo spettacolare disfarsi nel fango.
Un nihil majakovskijano sulla Storia, alla ricerca del sublime attimo, l'Aion degli Stoici, opposto ai vincoli opprimenti di Kronos.
Anche dalle interviste di Foschini, trapela una esaltazione intellettuale, una visione antistorica da pagano postmoderno (per quanto queste etichette siano contraddette dall'antistoricità stessa della visione, ma il linguaggio, si sa, è limitata convenzione), una proiezione ideale che non ci sentiamo di sposare del tutto
Ma, tornando a una delle frasi meno ricordate di quella memorabile puntata di CB da Costanzo, se è vero che "c'è bisogno davvero di miti, c'è bisogno davvero dell'impossibile quello che noi siamo, la vita è impossibile la vita è invivibile e così anche che l'arte sia davvero irrespirabile", Caracalla o il mito di Alessandro è un'opera d'arte assoluta.
Un nuovo parametro stilistico, una linea di confine gettata spudoratamente oltre il limite usuale s'impone alla loro attenzione, con tutta l'abbagliante impertinenza di un autore sfrontatamente sicuro di sé.
Chi considerasse le costruzioni sintattiche che regolarmente vi infliggo come prolisse, eccessivamente barocche o tortuose, beh, ora avrà da inviarmi una lettera ufficiale di scuse formali, con l'imprimatur dell'Accademia della Crusca.
Rispetto alle pagine del libro che sto per introdurvi, il più cervellotico dei miei costrutti apparirebbe un passo di Tacito sintetizzato per essere inviato per telegramma.
Quando a metà degli anni '90 Carmelo Bene tornò a calcare le scene, chi scrive non perse l'occasione di contemplare il miracolo più volte, al cospetto di quella sfinge scostante e fascinosa, incarnazione di un'idea, eterna e per questo inattuale, del Teatro. Eppure già allora, con dolore, s'intravedevano i sintomi della grande piaga a venire: pletore di proto-emo, masse di diversi (tutti uguali), dai profili ostentatamente dark, goffi proseliti che accostavo più al pagliaccio Marilyn Manson che ai dandy baudelariani che intendevano scimmiottare, prendevano d'assalto i teatri, come fossero al concerto di una rockstar alternativa.
La responsabilità, che schiaccia come un macigno la mia coscienza culturale, è anche del sottoscritto, il quale, quindicenne folgorato dalla visione televisiva in diretta della ormai celebre puntata del Maurizio Costanzo Show del '94 (in cui CB appare al sommo della brillantezza dialettica, annichilendo la platea di zombie, come successivamente li appellerà), ebbene si, proprio il sottoscritto, preso da giovanile entusiasmo, diffuse l'incomprensibile Verbo a tutti i suoi conoscenti.
Ecco, dunque, d'improvviso per la Capitale disseminarsi impacciati cloni, cantilenando in una improbabile imitazione citazioni da Laforgue, Derrida, Deleuze, emulando tristemente pose e smorfie dell'incompreso Maestro. Sedotti dalla superficie (l'oltraggio antiborghese nella grande eleganza formale), incantati da alcuni vezzi estetizzanti, gli sfuggiva la sostanza ardente del de-pensiero beniano: il superamento dell'io, la ricerca quasi mistica dell'attimo svanente che conducesse al di là dei limiti del pensiero, dell'illusorio concetto di identità.
Dunque, che conducesse ben oltre anche lo stereotipo ottocentesco, fascinoso ma comunque limitato, dell'artista tutto genio e sregolatezza: un equivoco che egli intendeva obliterare nella macchina attoriale. E col quale veniva scioccamente identificato da questi maldestri, improvvisi, e improvvisati, devoti.
Solo due benedizioni consentono di accostarsi al gigante beniano senza esserne fagocitati fino a diventarne uno sgraziato simulacro: una forte indipendenza intellettuale e una profonda cultura classica.
Andrea Foschini è stato graziato da entrambe.
Questa prolusione iniziale credo sia dovuta, poiché leggendo le incendiarie pagine del suo Caracalla o il mito di Alessandro, non mi è potuto non venire in mente questo frammento delirante tratto dal film Claro di Glauber Rocha
in cui Bene appare al culmine della sua follìa estetica: ebbro, vestito da signora, mentre esalta, appunto, la decadenza sadiana dei pretoriani ("la decadenza è bella"), ritmando, con tempi comici impeccabili, le alte riflessioni con triviali commenti sul gelato che sta gustando.
Pur avendo lo stesso gotha di riferimenti obbligati d'ogni adepto beniano (Francis Bacon, Pierre Klossowski, Van Gogh via Artuad), ribadisco che la grande cultura di Foschini, e una intelligenza indubbiamente feconda, gli consentono d'affrancarsi da qualsiasi rischio derivativo, delineando una fortissima personalità autoriale.
Il grande precedente dell'opera è, indubbiamente, l'Eliogabalo di Antonin Artaud, il libro forse dall'incipit più memorabile a nostra memoria: "Se intorno al cadavere di Eliogabalo, morto senza tomba, e sgozzato dalla sua polizia nelle latrine del proprio palazzo, vi è un'intensa circolazione di sangue e di escrementi, intorno alla sua culla vi è un'intensa circolazione di sperma. Eliogabalo è nato in un'epoca in cui tutti fornicavano con tutti; È né si saprà mai dove e da chi fu realmente fecondata sua madre. Per un principe siriano, quale egli fu, la filiazione avviene attraverso le madri ; – e, in fatto di madri, vi è intorno a questo figlio di cocchiere, appena nato, una pleiade di Giulie; – e ch'esse influiscano o no su un trono, tutte queste Giulie sono delle fiere puttane."
Sulle orme di Artaud, Foschini mette la sua grande competenza storica al servizio di una immensa decostruzione del concetto stesso di Storia. Tutto il racconto della vita di Caracalla, come sospeso in un estenuato delirio onirico, è la testimonianza colossale di un fallimento, di una sfida impossibile destinata alla catastrofe: re-incarnare la grandezza leggendaria di Alessandro, essere colui che non si è, differire la propria disprezzata identità nella proiezione mitica di un Altro, divinizzato, smarrito in un Altrove irrecuperabile del labirinto di illusioni che chiamiamo Storia.
Lo stile di Foschini, complesso, barocco, sovraccarico fino a divenire irrespirabile, è il significante perfetto per rendere, in uno sfibrante crescendo musicale, il disperato anelito all'Impossibile dell'Imperatore tocco e sanguinario.
L'autore sottopone il lettore ad un allucinante tour de force: frasi lunghe come pagine, costruite nel testardo ignorare l'utilizzo della virgola (per Cortàzar, "la porta girevole del pensiero"), nella sistematica moltiplicazione di subordinate e frasi oggettive, in una mostruosa, dissennata costruzione ipotattica che dura per tutto il testo.
Eppure, in questa ostentata farneticazione sintattica, egli è in grado di restituire, non solo, il lucido delirio delle capricciose stragi di massa imperiali, ma anche lo splendore rovinoso, l'orgia autodistruttiva della decadenza romana.
L'apice della gloria nel suo spettacolare disfarsi nel fango.
Un nihil majakovskijano sulla Storia, alla ricerca del sublime attimo, l'Aion degli Stoici, opposto ai vincoli opprimenti di Kronos.
Anche dalle interviste di Foschini, trapela una esaltazione intellettuale, una visione antistorica da pagano postmoderno (per quanto queste etichette siano contraddette dall'antistoricità stessa della visione, ma il linguaggio, si sa, è limitata convenzione), una proiezione ideale che non ci sentiamo di sposare del tutto
Ma, tornando a una delle frasi meno ricordate di quella memorabile puntata di CB da Costanzo, se è vero che "c'è bisogno davvero di miti, c'è bisogno davvero dell'impossibile quello che noi siamo, la vita è impossibile la vita è invivibile e così anche che l'arte sia davvero irrespirabile", Caracalla o il mito di Alessandro è un'opera d'arte assoluta.
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