domenica 20 gennaio 2013

Il non-senso di colpa

Tra i manzoniani venticinque lettori di questo blog si annoverano senza dubbio alcune tra le "menti migliori della mia generazione" (per citare, come amo definirlo, un noto ciccione invertito).
E' per me un onore ricevere attenzione e consigli da persone verso le quali nutro, al di là della divergenza d'opinioni anche su temi centrali, da anni profonda stima intellettuale.
E' il caso di Emanuele Sabetta.
Col suo gentile permesso, riporto integralmente un suo lungo e interessante commento su Facebook relativo al mio articolo su "Trama" di Ratigher che trovate qui
Per onestà devo ricordare ai lettori che trattasi di un intervento su un social network,  quindi la forma e l'organicità dello scritto non sono quelle che Emanuele avrebbe conferito se avesse pensato di pubblicarlo su un blog. 
Concludo questa doverosa introduzione riferendovi un suo cortese auspicio: "Spero che le mie stupide farneticazioni possano risultare noiose il meno possibile per il tuo pregevole pubblico."
Onestamente credo che solo uno stupido farneticante potrebbe trovarle noiose.

Per questa volta preferisco dare spazio nel post principale al contributo di Emanuele (titolo del post e i grassetti sono miei, quest'ultimi per facilitare la lettura), la mia risposta la trovate in calce. Buona Lettura

COMMENTO DI EMANUELE SABETTA

Finalmente ho avuto tempo di leggerla anche io. La recensione di Adriano è gustosissima. Anche se non ai livelli di quella stellare e perfetta dedicata a “Gli scarabocchi di maicol&mirco”, devo dire che le vertigini da piani alti della giostra intellettuale dell'universo del Conte ci sono anche qui. Lo scandagliare non pedissequo dell'opera è interrotto da suggestivi riferimenti alla letteratura del '900 e ad alcuni memi cult della cultura pop, pur senza appesantire l'analisi, che si legge d'un fiato. 

Adriano mi ha chiesto di essere sincero e di dire anche quello che non mi ha convinto. Un invito che raramente rifiuto, in quanto la ricerca delle critiche è indice di grande onestà intellettuale. Come diceva Nietzsche: "Si corrompe di sicuro un giovane, se gli si insegna a stimare chi la pensa come lui di più di chi la pensa diversamente." Ecco le poche cose che mi hanno lasciato perplesso:

1) L'assenza di riferimenti al film "Cane di Paglia" di Peckinpah, la cui storia e' quasi un "Trama" ante-litteram. Da vedere secondo me se è piaciuto Trama.

2) Trovo poco evidenziato il tema a mio parere tra i più importanti dell'opera, lo stesso tra l'altro del film di Peckinpah, ovvero che ogni uomo nasconde a se stesso il suo lato oscuro, il suo essere accomunato a tutti gli esseri umani da una natura che è null'altro che un mostro irrazionale e violento, un mostro che se messo all'angolo, in una condizione di crisi da cui non può uscire razionalmente, assiste al crollare del castello di carte delle finzioni morali e sociali che lo maschera disvelando il suo vero volto. In Trama questo si spinge anche più in là che nel film con Dustin Hoffman, suggerendo allo spettatore che l'irriducibile follia umana, al pari della morte, e' la "livella" con cui tutti, senza distinzioni, debbono confrontarsi, e che una volta "toccata con mano", confuta l'ingenuo snobismo delle classi agiate nei confronti di coloro che percepiscono meno "sani" (in senso pitagorico) e che emarginano dal loro mondo sperando di dimenticare ed esorcizzare il fango da cui tutti proveniamo e a cui tutti ritorneremo.

3) Mi ha stupito trovare citata la vecchia tesi del senso di colpa come originatosi culturalmente dalla propaganda cristiana. E' una posizione a mio parere oggi poco difendibile. Il senso di colpa e' una emozione biologicamente primitiva che si e' dimostrata esistere anche nei primati oltre che nell'uomo (il famoso esperimento della raccolta della banana che causa la scossa all'altro scimpanze', facendo sentire in colpa lo scimpanze' che l'ha raccolta e inibendone l'azione di raccogliere la banana in futuro), ed e' un effetto secondario dell'istinto di altruismo reciproco scoperto da Trivers (1971). Tre decenni fa Trivers intui' che la capacità di provare senso di colpa doveva essersi evoluta per aiutare le persone nel mantenere buona la loro reputazione, senza la quale sarebbero espulsi dal branco riducendo le loro probabilità di sopravvivenza. In seguito l'economista Robert Frank (1988) spiegò perché il senso di colpa non poteva essere solo finto dall'individuo ma doveva essere reale: se non fosse stato costly-to-fake nessuno gli avrebbe creduto (la stessa ragione per cui ci si fa del male piangendo, ovvero stringendo le palpebre al punto da causare irritazione e arrossamento degli occhi, in modo da mandare un segnale onesto di sofferenza con un costo così alto che solo in casi di vero bisogno ha senso usare). La conferma sperimentale giunse con due studi che avevano per soggetto giochi di accordi sociali ripetuti, compiuti da Ketelaar & Au (2003), e che inoltre effettuando una serie ripetuta di sedute del Dilemma del Prigionero su un gruppo di soggetti ignari, misurarono che la propensione a cooperare dei soggetti che erano stato sottoposti ad una esperienza che induceva senso di colpa era molto maggiore (53% di risposte cooperative) rispetto a quella dei soggetti di controllo che non lo erano stati (solo 39% di risposte cooperative). Inoltre i soggetti che avevano scelto in precedenza di non cooperare, si mostrarono quelli che in seguito erano più motivati a cooperare, mostrando come il senso di colpa si sia evoluto anche con la funzione di spingere gli esseri umani a compensare le perdite di reputazione precedenti. L'universalita' dell'emozione del senso di colpa nelle varie culture umane, indipendentemente da religione e linguaggio, e' stata dimostrata in uno studio su oltre 50 culture diverse in tutto il mondo da Paul Ekman (1999), quindi non darei molto peso all'aneddoto indiano. Successivi studi nel campo della neurologia hanno individuato nella regione della corteccia orbitofontale il gruppo di neuroni specializzati nella attivazione del senso di colpa. Pazienti con danni a quella regione del cervello non riuscivano piu' a provare rimorso e senso di colpa nel violare norme sociali (Damasio, 2003). La modellazione matematica (Lindbeck et al. 1999; Mengel 2008) ha mostrato come fosse vantaggioso per un individuo sociale (come noi primati) evolvere un meccanismo che non solo gli facesse provare rimorso dopo la violazione di una norma morale, ma che tale rimorso dovesse diminuire se altri del suo gruppo compissero la medesima violazione in quanto le sanzioni da parte del gruppo diventerebbero meno severe in quanto ogni individuo del gruppo avrebbe una maggiore probabilita' di avere nel proprio network di amici qualcuno che ha violato la norma. Questo trovo' corrispondenza nei test su soggetti reali, che infatti si sentivano meno in colpa di violare una norma quando vedevano altri fare lo stesso (Traxler C, Winter J, 2009).
4) Non e' corretto a mio modesto parere neanche dire che il senso di colpa si sia originato culturalmente con il cristianesimo. Gia' Platone nel quinto secolo prima di cristo fondava la validita' della sua etica sull'esistenza del rimorso di coscienza. Nel 2° libro della "La Repubblica" Platone narra il mito dell'anello di Gige, il famoso anello capace di dare l'invisibilità e quindi l'impunità totale a chi lo indossa. Per dimostrare che un uomo non dovrebbe compiere una ingiustizia a proprio vantaggio anche se indossa tale anello, Platone sostiene l'esistenza di un senso di giustizia dimenticato, che se recuperato liberandosi dall'ignoranza, porterebbe gli uomini ad avere coscienza che invece l'agire in quel modo non porta alcun vantaggio, in quanto danneggiando la comunità si danneggerebbe indirettamente anche se stessi (tale tesi di Platone lascia molto a desiderare, lo so, ma ancora oggi gode di grande popolarità). Per Platone gli uomini con tale coscienza sarebbero quindi tutti gli uomini, e quelli apparentemente privi di tale coscienza in realtà non ne sarebbero privi ma non sentirebbero il rimorso di coscienza solo perché avrebbero dimenticato (per colpa del solito fiume Lete) l'idea di Giustizia al momento di nascere. Le fantasiose speculazioni dei Platonici erano comunque perlomeno più vicine al vero di quelle degli esistenzialisti, che invece o portavano il senso di colpa all'estremizzazione quasi messianica (come Dostoevski), o, Camus su tutti, si produssero in speculazioni dell'assurdo mostrando l'uomo come capace di essere privo del tutto di rimorso, indifferente all'ingiustizia come lo è l'universo (come il personaggio Meursault ne "Lo Straniero", 1942) o il senso di colpa come la causa stessa dell'ingiustizia (come il personaggio Clamence ne "La Caduta", 1956). Nietzsche, che viene spesso impropriamente liquidato come esistenzialista (cosa falsissima), aveva visto come al solito lungo, e aveva colto in pieno il problema affermando che i filosofi avevano per troppo tempo scambiato la psicologia e gli umori del corpo per principi di verità purtroppo poi rivelatisi "umani, troppo umani". Non posso non citare a riguardo il brano "Dei Pregiudizi dei Filosofi" (Al di Là del Bene e del Male, 1886) del supremo martellatore tedesco, dove Egli indica con intelligenza profetica l'evoluzione degli istinti per la conservazione della specie come fonte occulta delle suggestioni della metafisica dei filosofi di ogni tempo:

"[...] Dopo avere, abbastanza a lungo, letto i filosofi tra le righe e riveduto loro le bucce, misono detto: occorre ancora considerare la maggior parte del pensiero cosciente tra le attività dell'istinto, e anche laddove si tratta del pensiero filosofico; occorre, a questo punto, trasformare il proprio modo di vedere, come si è fatto per quanto riguarda l'ereditarietà e l'«innatismo». Come l'atto della nascita non può essere preso in
considerazione nel processo e nel progresso dell'ereditarietà, così l'«esser cosciente» non può essere "contrapposto", in una qualche maniera decisiva, all'istintivo, - il pensiero cosciente di un filosofo è per lo più segretamente diretto dai suoi istinti e costretto in determinati binari. Anche dietro ogni logica e la sua apparente sovranità di movimento stanno apprezzamenti di valore, o per esprimermi più chiaramente, esigenze
fisiologiche di una determinata specie di vita. Per esempio, che il determinato abbia più valore dell'indeterminato, che l'apparenza sia meno valida della «verità»: simili apprezzamenti, con tutta la loro importanza regolativa per "noi", potrebbero, pur tuttavia, essere soltanto apprezzamenti pregiudiziali, una determinata specie di "niaiserie", come può essere appunto necessaria per la conservazione di esseri quali noi siamo. [...] Quel che ci stimola a guardare, con aria tra diffidente e sarcastica, tutti i filosofi, non consiste nel fatto che si scopre continuamente quanto essi siano ingenui - quanto spesso e con quanta facilità si ingannino e si smarriscano, insomma nella loro puerilità e nel loro candore - bensì nel fatto che non c'è in loro sufficiente onestà: pur levando, tutti quanti sono, un grande e virtuoso strepito, non appena, anche soltanto da lontano, viene sfiorato il problema della veracità. Fanno tutti le viste d'aver scoperto e raggiunto le loro proprie opinioni attraverso l'autonomo sviluppo di una dialettica fredda, pura, divinamente imperturbabile (per differenziarsi dai mistici di ogni grado, che sono più onesti di loro e più babbei giacché parlano d'«ispirazione»): mentre invece, in fondo, una tesi pregiudizialmente adottata, un'idea improvvisa, una «suggestione», per lo più un desiderio interiore reso astratto e filtrato al setaccio vengono sostenuti da costoro con ragioni posteriormente cercate - sono tutti quanti degli avvocati che non vogliono farsi chiamare tali e in realtà, il più delle volte, persino scaltriti patrocinatori dei loro stessi pregiudizi, cui dànno il battesimo di «verità» [...] è tempo, infine, di sostituire la domanda kantiana, «come sono possibili giudizi sintetici "a priori"?», con un'altra domanda: «Perché è "necessaria" la fede in siffatti giudizi?» - cioè è tempo di renderci conto che tali giudizi devono essere "creduti" come veri al fine della conservazione di esseri della nostra specie; ragion per cui, naturalmente, potrebbero anche essere giudizi "falsi"! Ovvero, per parlare più chiaro, rudemente e radicalmente: giudizi sintetici "a priori" non dovrebbero affatto «essere possibili»: non abbiamo alcun diritto a essi, nella nostra bocca sono giudizi falsi e nulla più. Salvo il fatto che è indubbiamente necessaria la credenza nella loro verità, in quanto credenza pregiudiziale e immediata evidenza che rientra nell'ottica prospettica della vita.[...]".

E ancora più direttamente, nella seconda introduzione a "La Gaia Scienza" scriveva:

"[...] L'inconscio travestimento di necessità fisiologiche sotto la maschera dell'oggettività, dell'idealità, della spiritualità pura si spinge sino a limiti orripilanti, e spesso mi sono domandato se, detto grossolanamente, la filosofia fino ad ora non sia stata altro che un'interpretazione del corpo e un fraintendimento del corpo. Dietro i più alti giudizi di valore dai quali fino ad ora è stata guidata la storia del pensiero sono nascosti fraintendimenti della costituzione fisica, sia del singolo, sia dei ceti o addirittura delle razze. Tutte le ardite follie della metafisica, in particolare le sue risposte alla domanda sul valore dell'esistenza, si possono sempre considerare sintomi di determinati corpi; e se globalmente a tali affermazioni o negazioni del corpo non si può attribuire nemmeno un briciolo di significato, esse pur tuttavia forniscono allo storico e allo psicologo tanti preziosi suggerimenti in quanto sono, come abbiamo detto, sintomi del corpo, del suo riuscire e fallire, della sua pienezza, potenza, autodominio nella storia, ma anche dei suoi impedimenti, stanchezze, impoverimenti, del suo presentimento della fine, della sua volontà di finire. Io continuo ad aspettarmi che un medico filosofico nel senso non comune del termine — ovvero che si dedichi al problema della salute globale di popolo, tempo, razza, umanità — abbia finalmente il coraggio di portare alle sue estreme conseguenze il mio dubbio e di osare questa affermazione: fino ad oggi, tutto il filosofare non è stato «verità», ma qualcos'altro, diciamo salute, futuro, crescita, potenza, vita [...]" 
o e del corpo, i cui scopi sono da ricercarsi non certo nell'idea di Giustizia platonica, bensì nell'aver un tempo conferito un vantaggio selettivo durante l'evoluzione dell'homo sapiens, ed è quindi in questo molto meno affidabile di quanto lo si voglia dipingere, presentandosi in certe circostanze e non in altre, per il solo tornaconto dei geni che ne codificano l'espressione e a discapito di tutti gli altri. Ben lontano quindi dall'ideale che Platone sognava quando scriveva la sua politeia. Anzi, come diceva il (sempre) giustamente citato carmelo Bene, l'Etica non ha senso di colpa, in quanto l'Etica ideale (diversa da quella reale con la e minuscola, quella che è estetica travestita) è scevra da influenze fisiologiche.

5) Ultima ma non meno importante: non ho trovato alcun riferimento nella recensione del Conte agli spunti iniziatici che pure costellano l'opera di Ratigher. Sono troppi per citarli, ma sicuramente i meno abilmente celati sono l'edificio a sette gradini e con sette porte del non-filosofo-anti-star, chiaro riferimento alla scala dei sette cieli interiori che deve attraversare l'iniziato, la caduta dalla scala associata subito all'atto sessuale come simbolo della conoscenza proibita raggiunta, la discesa nelle viscere della terra per il completamento dell'opera al nero (V.I.T.R.I.O.L.) seguendo la barca di bimbo-fango-fama nel ruolo di psicopompo, ruolo che mercurialmente gioca fin dall'inizio per condurre i due (che sono in realtà uno, le due parti maschile e femminile dell'anima platonica) alla "via del sol" iniziatica che costituisce in ultima analisi la vera matrice di Trama, il cui scopo finale è emblematicamente rappresentato dal prendere nelle proprie mani la testa mozzata, il godhead, il caput corvi, la testa perduta di Orione il folle, di Ganesha signore dell'AUM, il sole dell'ora e dell'adesso, così come Esau tagliò la testa a Nimrod ed Erode al Battista

Non vedo l'ora di leggere prossime recensioni, di certo altrettanto stimolanti intellettualmente (cosa rara di questi tempi), e appena ho un poco di tempo lo farò con piacere. Grazie tantissimo. 

RISPOSTA DEL CONTE

Carissimo Emanuele, 
è già per me un onore e una vittoria aver destato una discussione di livello simile con un mio articolo.
Prima di risponderti, voglio dirti che sinceramente (sai quanto io non sia affatto una persona modesta) mi inchino alla tua erudizione e alla solidità delle tua argomentazioni. L'unica altra persona verso la cui sapienza provo simile ammirazione è il nostro comune amico Daniele Capuano (che spero un giorno fregi il blog dei suoi preziosissimi contributi).
Volevo risponderti di getto, ma gli impegni mondani che tutti ci attanagliano, più improvvisi ostacoli tecnologici, hanno cospirato per farmi elaborare una più meditata risposta. 
Eccoci dunque:
1) Grazie per aver mantenuto la promessa, onorando il monito del nostro amato Federico. 
Certo, "Cane di paglia" è pertinente, un film importante quanto forte. Non so quanto sia un'ispirazione consapevole, dovrebbe illuminarci l'autore. Credo, come ho scritto, che la sua sia stata un'operazione indipendente da un preciso riferimento, l'impressione è che abbia preso una "trama", appunto, vista infinite volte in film, libri e fumetti noir/horror e l'abbia innervata delle tematiche camusiane che tutti abbiamo riconosciuto. Ma per l'appunto, solo il nostro amico Ratigher può illuminarci.

2) Sono d'accordo con la tua analisi. Credevo d'aver toccato l'argomento attraverso la citazione di Fitzgerald, in particolare del racconto che menziono fin dal titolo del post, dove appunto il rapporto tra morte e ricchezza, e la illusoria follia di "controllare" la vita e la morte da parte delle classi agiate viene esposta e scandagliata fino al delirio finale. Comprendo comunque il rilievo sulla necessità di una maggiore esplicitazione.

3-4) Qui ci divertiamo. E'il nodo secondo me sia del mio articolo che del tuo commento, perché credo sia evidentemente quello dell'opera in questione. E' un tema assai delicato, è facile che le parole assumano un'ambiguità ingannevole. Chiariamo un equivoco subito: quando parlo di senso di colpa non parlo del naturale, "giusto" (qui Federico avrebbe da ridire) rimorso conseguente ad un'azione gratuitamente malvagia, o che comunque crea dolore e sofferenza ad altri. Parlo di un'attitudine generale, di una oppressione interiore, di una sovrastruttura "a priori", che secondo me è specificamente stata creata a tavolino nella cultura paolina. 
Mi spiego: nel Platone che tu citi il Male è problema centrale. Nel X libro della "Repubblica" troviamo il famoso mito di Er, in cui troviamo la giustificazione metafisica dell'esistenza del Male. Ora, in Platone come già in maniera differente nei tragici, il Male assume un carattere non lontano da Ananke, cioè di necessaria presenza connaturata alla riottosità della materia "non ordinata", che nemmeno il Demiurgo riesce ad informare di purezza ideale.
Come già accennato, il senso di colpa in un certo senso permea tutta la tragedia greca, ma ravviso una radicale diversità rispetto a ciò che intendo. Il concetto di Hybris (il superamento di quelle che nella cultura indiana vengono chiamate maryadas, i limiti del giusto comportamento, le barriere del Dharma) e quindi di necessaria Nemesis, al netto delle esaltazioni romantiche della figura prometeica o dell'Ulisse dantesco, ha un suo preciso senso di giustizia divina. Hai superato i limiti, vieni punito (sto parlando concettualmente, al di là del fatto che questi limiti siano giusti o meno, siano legge divina o sovrastruttura ideologica di una casta sacerdotale).
Non è il peccato originale, connaturato ontologicamente come marchio metafisico alla condizione umana. Nella visione cristiana c'è per me un surplus di "colpa" rispetto alla visione platonica della necessaria (quindi paradossalmente innocente!) mescolanza di caos congenita alla materia. Il Nostro amato Nietzsche, se è vero che nella sua genealogia della morale (intendo non il libro ma la sua ricostruzione della storia della filosofia morale) attacca sia Socrate (dunque Platone che lo filtra) che Gesù (o meglio  Paolo, il gran deformatore, vero fondatore del Cristianesimo storico), nella "Genealogia della morale" (il libro stavolta!) contrappone se non erro la morale giudaico-cristiana a quella greco-romana, vedendo nella prima la vittoria della "morale del gregge" contro la "morale dei signori".
Ancora di più nella metafisica indiana, trovo sublime che quello che spesso viene grossolanamente associato al concetto di peccato cristiano, in realtà sia ignoranza (papam). Quando il sublime Shankara chiede perdono alla Devi per la sua indegnità, ripete "non so, non so". In India (parlo dei mistici non della devozione popolare) non c'è quel rapporto "debitore-creditore" che Nietzsche imputa al Cristianesimo (o meglio di cui il Cristianesimo ha amplificato i termini in misura incolmabile rispetto alla precedente venerazione per gli antenati).

In india non avrebbero mai potuto scrivere un libro come il "Secretum" di Petrarca, in cui c'è credo la rappresentazione migliore di quello che io chiamo "senso di colpa": il "vorrei ma non posso", che si bea della  condizione di peccatore per non risolvere i nodi interiori.
L'anticamera della nevrosi moderna. Se ci fosse stato Shankara, o un qualsiasi autentico maestro orientale, e non il cervellotico Agostino, si sarebbe fatto beffe delle giustificazioni di Francesco, inchiodandolo al suo "dover divenire" specchio della Bellezza dello Spirito.
Io chiamo "senso di colpa" una lacerazione tra mente e cuore, tra consapevolezza e volontà, una comoda "tasca" di giustificazioni che ci consente di reiterare ciò che già coscientemente abbiamo riconosciuto come "errore", 
Il sacramento della confessione ne è la criminale celebrazione, in cui il peccatore si confina nella propria condizione di indegnità, mettendosi a posto la coscienza con una delega spirituale,  moralmente inconsistente, a un intermediario artificiale.
Il senso di colpa previene l'introspezione, delegandola a un interlocutore esterno, minando ogni possibilità di evoluzione interiore. Ci impedisce di ergerci nella nostra dignità di essere liberi.
E' un cortocircuito mente-volontà, un vuoto interiore su cui l'Impero della Chiesa ha speculato con diabolica abilità psicologica. E' tecnicamente un non-senso, da cui il titolo del post.
Al di la di speculazioni, rimane per me l'evidenza che leggendo la "Bhagavad Gita" o l'"Asthavakra Samhita"Shankara o KabirLao Tze  Confucio (ma anche Socrate, secondo me, se si discerne il filtro platonico) non si avverte il peso  oppressivo dell'ossessione del peccato, l'epilessia totalizzante di un Paolo o la morsa irrazionale di un Tertulliano.
Si dissolve il pensiero in una pace sapienziale, si innalza lo spirito in un orizzonte di liberazione che può essere accettabile e di razionale conforto anche per un ateo.
Invece delle smorfie di dolore, del compiacimento morboso della sofferenza che inquina tanti Padri della Chiesa (non tutti, non il grande S.Juan della Cruz, ad esempio), affiora il sorriso distaccato del Buddha, la danza innocente di Ganesha, il gioco divino di Krishna, la gioia cosmica di Shiva.
  Apollo e Dioniso ancora riconciliati prima della divisione platonica.


5) Credo tu sappia quanto la mia formazione, e la mia prosa, siano intrise di riferimenti al simbolismo iniziatico, la mia frequentazione degli archetipi che tu hai correttamente elencato esubera dal mero studio intellettuale per diventare (da anni) faro simbolico di un percorso spirituale. Avendo avuto la grazia di studiare col prof. Giovanni Casoli (di cui i nostri stimatissimi amici Lorenzo Ceccotti e Daniele Capuano ti avranno certamente parlato), sono innamorato della ricchezza etimologica della parola "simbolo" (dal greco sumbolon, derivato dal verbo sumballo, “mettere insieme, far coincidere”), non identica ma affine a quella della parole "religione" (latino re-ligare, tenere insieme), "sinagoga" (dal greco sunagoge, assemblea)e "yoga" (unione, dal sancrito Yuj, aggiogare, legare) etc..
Io credo nei simboli. In questo sono molto medievale, "per visibilia ad invisibilia", sottoscriverei col sangue le parole di Pavel Florenskij che definisce le icone "porte regali" verso l'Assoluto. Nella mia analisi di "Trama" non ho voluto "vedere" in un certo senso quello che tu brillantemente esponi, per limitare la riflessione a quello che credo sia la "fase cosciente" dell'ispirazione di Ratigher. Ciò non toglie che magari mi sono sbagliato, che dietro ci sia uno studio attento della simbologia tradizionale (anche qui solo l'Autore può dirimere la rispettosissima contesa), o che magari mi sono sbagliato comunque, perché non far affiorare in un'analisi elementi che magari solo inconsciamente un artista riversa nella sua opera?
Chapeu, comunque, Emanuele, spero che le mie modeste risposte possano essere soddisfacenti, e che tu possa continuare ad impreziosire questo blog con i tuoi contributi.
E grazie ovviamente a Ratigher, la cui opera ha ispirato una discussione così interessante, almeno per il sottoscritto.
Adriano

venerdì 18 gennaio 2013

Where are we now?

L'8 gennaio è stato il sessantaseiesimo compleanno di David Bowie.
La tentazione di tributare un omaggio era francamente irresistibile. Anzi, talmente forte da tramutarsi nel suo opposto: obbligo morale.
Se però il cuore traboccava di ghirlande filologiche e turiboli critici con cui accostarsi all'altare in madreperla dell'intatto idolo, la mente frenava il devoto palpito sulla soglia del tempio, obliterando la cerimonia con l'arida innegabilità del calcolo razionale.
All'entrata del Sancta Sanctorum su ogni critico incombe la mannaia del rischio più minaccioso: la noia del catalogo museale.

Avevo, dunque, già con tormento riposto i paramenti liturgici quando...
Hallelujah!
Con un colpo di teatro all'altezza del suo leggendario carisma, Godot è apparso, in tutto il suo stordente splendore, pubblicando a sorpresa un nuovo brano, "Where are we now", che addirittura preannuncia l'uscito di un nuovo disco, "The next day", per il prossimo marzo.
Nel 2003 intervistato dal suo grande fan Jonathan Ross, che notava sorpreso come il suo nuovo disco ("Reality") sorprendentemente seguisse il precedente ("Heathen") appena dopo un anno, Bowie, nel suo amabile humour, rispose: "Si, il prossimo uscirà fra 5 settimane...". Sono passati 10 anni.

Un nuovo disco dopo 10 anni di silenzio praticamente assoluto.
Questo di per sé è un evento.

Come avrebbe detto il buon vecchio Gianni Brera: in alto i canti e le bandiere per il Duca Bianco.
Ma c'è già chi non vuole festeggiare.
Non mi riferisco alle lamentazioni geriatriche di Mario Luzzato Fegiz sul "Corriere della Sera" (peraltro perfettamente coetaneo di Bowie, c'è di che riflettere)...del resto, in prima fila a guidare le celebrazioni c'è Lady Gaga...meglio stare con l'arcigno critico moraleggiante
Parlo della reazione fredda o delusa di alcuni fan sui social network.

Ho deciso di pubblicare con una settimana abbondante di ritardo, per evitare giudizi dettati da reazioni emotive.


Diciamolo subito: al primo ascolto mi sono emozionato.
 Non certo per l'ingenua acriticità del fan assetato da dieci anni di siccità, il quale, ormai rassegnato a trascinare nel deserto le reliquie di glorie passate, si ritrova a danzare ebbro di gioia alle prime gocce che cadono dal cielo avaro, purché siano appena potabili.
Non sono fatto così.
Come tutti i sacerdoti d'un culto, la mia priorità è difendere l'ortodossia.
 Le precedenti uscite di Bowie avevano destato certo interesse, stimoli, suggestioni, ma anche molte perplessità.
Non molte emozioni.
Stavolta è diverso. Ancora al ventiquattresimo ascolto (svanito ormai l'effetto sorpresa) l'emozione rimane. Potente e autentica.
E non è certo la voce impostata sul rimpianto straziante, o il tono minore degli accordi a generare commozione. In pochi versi, Bowie, come poche volte prima, espone l'anima nuda nello smarrimento esistenziale, senza maschere, senza travestimenti, senza il conforto del grande gesto estetico a velare le ferite interiori. Ed è ovviamente toccante intuizione, oltre che prodigio d'introspezione, il richiamo a Berlino, a quella Berlino, capitale magica per ogni fan di Bowie, culla creativa della rinascita straordinaria di fine anni '70.

C'è chi potrebbe accusare il ritornello di essere oggettivamente debole, con le sue ripetizioni facili facili ("The moment you know, you know you know")
Ma in realtà è proprio nei suoi capolavori minimali della trilogia berlinese, che Bowie giunse al culmine del suo percorso alchemico sulla forma canzone pop: nell'apice della ricerca sperimentale ha trovato la chiave del segreto per la conquista trionfale del mainstream, pochi anni dopo.
Mi spiego meglio.
E' anche giocando su le ripetizione di "You" e "I" che si è raggiunta l'epica essenzialità di "Heroes".
Gli anni di Berlino sono, come tutti sanno, non sono solo quelli della magnifica trilogia
( "Low", "Heroes" e "Lodger") ma sono anche quelli della resurrezione di Iggy Pop, di cui il Nostro co-scrive e produce le due gemme di delirio, "The Idiot" e "Lust for life", i cui bagliori luciferini ancora illuminano le performance dell'Iguana come vette intramontabili.
Ora, non tutti ricorderanno che il repertorio del Bowie inizi anni'80, del Bowie idolo romantico delle folle, che si contendeva con Lady Diana le prime pagine dei giornali, che duettava in giacca e cravatta con Tina Turner...ebbene quel repertorio proveniva dalle oscurità subconscie del garage ermetico berlinese.
Gli stessi versi sussurati dal Bowie compassato che scalava le classifiche, erano quelli pochi anni prima urlati come un animale torturato dall'Iggy post-rehab.
L'oltraggio della controcultura diventa ritornello canticchiato da tutti sotto la doccia.
Questo è genio (torniamo a Baudelaire, "creare luogo comune è genio").
 Una delle chiavi del genio bowieano è proprio nel estendere all'infinito la tensione romantica (attraverso una teatralità eccessiva, quasi dannunziana) per poi discioglierla con sofisticata ironia in una imponderabile ambiguità.
Una sorta di versione pop della "sospensione del tragico" di Carmelo Bene.
Ad esempio, qui lo troviamo come un attore alla Bogart ("and i felt like an actor", potrebbe essere messo in calce ad ogni sua esibizione dal vivo), in un vertice di commozione romantica pura (1.22), che si svela "parodia della vita interiore" (come appunto si disse di "Nostra Signora dei Turchi"), spazzata via dalla folle ironia di "TAKE ME TO THE DOCTOR!"






Stavolta, invece, niente giochi, niente infingimenti.
Un cosmo di riferimenti, di autocitazioni, di gloriose memorie, dissolto in un purissimo dolore esistenziale.
  E' per questo motivo che "Where are we now" è un brano insieme intelligentissimo, elaboratissimo e commovente, pur essendo all'apparenza banale.



Ora, non intendo fare l'avvocato di uno degli artisti più venerati del pianeta.
Preferisco invece approfondire una questione estetica che riaffiora ogni qual volta una vetusta autorità (non solo nel rock) scende dal pantheon per rigettarsi nella polvere bruciante dell'agone artistico.
Come già ho fatto nel breve passato di questo blog, porrò come pietra di paragone per guidare la riflessione, l'icona più enigmatica, prima dello stesso Bowie, della cultura pop contemporanea: Bob Dylan.

Chiarisco, non lo faccio perché Dylan è per me il più grande artista popolare del Novecento.
Lo faccio, perché egli E' (è stato e sarà) la pietra di paragone, l'esempio, l'antesignano, il modello, il padre da uccidere, la vetta da raggiungere e, se possibile, da superare, per tutti i grandi mostri sacri, Bowie incluso.
Egli è letteralmente il mito dei miti, la leggenda delle leggende, l'idolo degli idoli (e lui che ama così tanto il Vecchio Testamento e, in esso, il Cantico dei Cantici riconoscerebbe l'eco cabalistica di tali iperboli).
Non lo dico io, lo dicono, o lo hanno detto, loro:  Lennon ("Dylan mostra la strada"), Mc Cartney e tutti i  Beatles, gli Stones con i loro ripetuti omaggi fin dalle copertine dei loro dischi storici, Hendrix con la sua venerazione espressa in numerose cover (non solo "All along the Watchtower"),  Springsteen che in questo discorso gli elenca tutti meglio di me, facendo risparmiare a me e a voi un sacco di tempo prezioso...
Ed è per questo che per me è il più grande artista popolare del Novecento.

Dylan é l'archetipo della rockstar, semplicemente perché é stata la prima, almeno in senso moderno.
 Il primo a essere protagonista di un documentario, il primo a essere oggetto di una attenzione maniacale dei fan e ossessiva dei media (non parlo delle fan starnazzanti per i Fab Four, parlo di Alan Weberman che con lui inaugura il costume apice del voyeurismo da fandom, rovistare nella spazzatura dei divi), il primo ad avere la libertà artistica di fare un disco doppio, con una traccia che copriva un'intera facciata...il primo a divenire non solo un idolo pop (come Elvis),  o un fenomeno di costume (come i Beatles) ma un simbolo culturale, a dare alta dignità artistica e intellettuale a quelle che erano considerate canzonette...a portare la "poesia nei juke-box", secondo la celebre definizione di Allen Ginsberg.


Il rapporto tra Bowie e Dylan è complesso e fecondo, come il dialogo tra due enormi personalità artistiche logicamente prevederebbe. E non parlo del famoso primo incontro (che smentì il verso "Though i don't suppose we meet" nel brano di "Hunky Dory") riportato nell'infausta intervista del 1976, in cui l'ipertrofia cocainomane di Bowie si scontrava col silenzio della Sfinge dylaniana.
Sono gli artisti che (assieme al loro amico comune, per uno maestro per l'altro allievo, Lou Reed) hanno incarnato enigmaticamente la trasformazione alchemica, l'incessante divenire artistico, la lotta del genio contro la mediocrità.
Bowie nel clamore quasi programmatico ("Ch-ch-ch changes!") dei capovolgimenti di stile, del gioco delle identità, insieme Fregoli e Amleto dei generi e non solo dei travestimenti.  
Dylan, meno spettacolarmente, ma piu' interiormente, cantore costantemente in cammino, arso nella ricerca, perennemente al bivio di ogni percorso mistico, viandante e bagatto, toccato dalla grazia del volo poetico e al contempo incatenato al peso della sua stessa dolente sapienza. Entrambi albatri baudeleriani, le cui ali da gigante hanno divelto le reti della ciurma giornalistica a colpi di capolavori e provocazioni.
Entrambi hanno sofferto nelle loro carni il loro ineluttabile e irreparabile divenire icona.

E' interessante notare, in due personalità così grandi e così diverse, praticamente la stessa reazione, uguale e contraria, alle invariabili etichettature mediatiche che negli anni li hanno claustrofobicamente accerchiati: qui Bowie (4.22), qui Dylan.

In entrambi agisce (come ebbe a dire Battiato parlando di Dylan) una potenza mantrica.
Non solo nei confronti dei loro ascoltatori (sempre citando Bowie nell'omaggio a Dylan: "His words of truthful vengeance/They could pin us to the floor" e ancora "And you sat behind a million pair of eyes
And told them how they saw") ma anche e soprattutto nei confronti di sè stessi.
E' come se il potere evocatore del genio poetico chiedesse, nelle carni stesse dell'artista, il dazio per aver estratto oro dal fango del caos interiore.
Bowie, che si faceva ritrarre mentre scimmiottava quel pericoloso cialtrone di Crowley, comprenderebbe bene quello che sto tentando di dire.
Con suprema e spiazzante ironia esistenziale (sigillo dell'attenzione degli Dèi),  il karma inchiodò il Duca Bianco, ben prima del suo battesimo da novello alter-ego, alla mostruosa incontrollabilità del proprio mito.
Si ritrovò a fare i conti con platee oceaniche che gli rinfacciavano beffarde lo stesso interrogativo da lui posto a Dylan nel suo inno da fan tradito: "Now hear this Mr.Bowie...ask your good friend Ziggy/ If he'd gaze a while/ Down the old street". Ma ben altro inquietante prodigio avvenne.
Il  Bowie scheletrico, solo e tremante nella lussuosissima casa di Los Angeles, posseduto dalla cocaina e dalla paranoia per la magia nera (custodiva la pipì nel frigo perchè temeva che Jimmy Page, un altro che pagò caro la seduzione crowleyana, la usasse per rubargli l'anima in riti di magia nera),  quel Bowie carnefice di sè stesso, alienato più che alieno, travolto dalla sua fama, divenne l'incarnazione spettrale, l'incubo realizzato dell'epitaffio di Ziggy Stardust: "Making love with his ego, Ziggy sucked up into his mind".
Come già detto di F.Scott Fitzgerald, Bowie divenne posseduto dagli incubi che egli stesso aveva liberato.
E fu solo Berlino porta di salvezza, rivelandosi  un mastodontico forno alchemico a cielo aperto, dove rinascere nel miracolo dell'ennesima trasformazione.

Concludendo il discorso da dove avevamo iniziato, non possiamo pretendere che il "nuovo" pezzo di artisti così irriducibilmente iconici, possa avere la freschezza, l'impatto e la potenza rivoluzionaria dei loro capolavori di 40 o 50 anni fa.
Non si può ri-ottenere l'effetto devastante di "Like a rolling stone" o di "Ziggy Stardust", dopo averle scritte.
Non per mancanza d'ispirazione. Dico sempre che dal sottovalutatissimo Dylan "in crisi" degli anni '80 si potrebbe estrarre un greatest hit da far invidia a tanti cantautori lodati a sproposito.
Il motivo è semplice: non si può non fare i conti con la propria grandezza.
Avendo creato, di fatto, una nuova epoca, un nuovo linguaggio, Bowie e Dylan, mutatis mutandi, diventano i T.S.Eliot di sè stessi, cercando nella "Terra Desolata" della loro anima e della loro opera i frammenti con cui puntellare le proprie rovine.
L'aveva già capito Bowie estraendo dieci anni dopo un nuovo classico, "Ashes to Ashes", dallo spin-off  del suo battesimo incandescente, "Space Oddity".
Ha poi alluso al gioco costantemente, fino ad esplicitarlo in "The pretty things are going to hell".
La gioventù fiera e oltraggiosa che doveva annunciare il Superuomo nietzscheano ormai se n'è andata all'inferno.
E così Dylan, lontano dalle smancerie borghesi e furbastre di Mc Cartney che porta il cane a fare la pipì sulle strisce pedonali di "Abbey Road" (per i complottisti  confessione in codice della sua morte), ha lottato con genio per non diventare il poeta alessandrino di sè stesso.
Ha così rovesciato nel disincanto e nell'amara ironia gli inni immortali, per scardinare la prigione in cui il suo stesso altare si era trasformato: dal furore profetico di "The times they are a-changin'" si passa al sarcastico cinismo di "Things have changed", dal canto abusatissimo di "Knockin' on Heaven's door" al passo trascinato dello stanco vagabondo spirituale in "Tryin' to get to Heaven".

Ci aspettiamo molto da "The next day".
Speriamo che il Duca sia di parola, come lo è stato il Maestro con l'ultimo album "Tempest".
Di questo e di altro, parleremo prossimamente.