Nella scorsa settimana si sono succeduti una serie d'anniversari ed eventi che
meriterebbero un'attenta riflessione per l' innegabile impatto culturale delle figure ad essi collegate: l'anniversario della nascita di Baruch Spinoza e di William Blake, della morte di Freddie Mercury, i 70 anni di Jimi Hendrix, il ritorno di Gascoigne all'Olimpico ...
Avevo però già deciso di parlare dell'ultimo disco di Guccini, argomento che apparentemente potrebbe interessare solo i devoti seguaci del Maestrone (tra i quali fieramente m'iscrivo), ma che avrebbe comunque rappresentato un evento, considerando che il suo disco precedente risaliva a otto anni fa, e che stiamo parlando di una figura veneranda nel nostro panorama musicale.
Quando poi nella giornata di ieri il Guccio ha dichiarato che questo non è il suo ultimo disco in ordine cronologico, ma è proprio l'ultimo in assoluto, la scelta m'è parsa obbligatoria.
Non è una notizia che ci sconvolge a livello razionale, visto che già dai tempi di "Eskimo" (prima che io nascessi!) , aveva avvertito: "Ed io ti canterò questa canzone/ uguale a tante che già ti cantai/ ignorala come hai ignorato le altre/ che poi saran le ultime oramai".
E poi aveva ribadito, esplicitamente, il desiderio "nell'anno '99 di nostra vita", in una delle sue
vette assolute, "Addio":
Nonostante ciò, pur avendoci avvertito con 34 anni d'anticipo, e ribaditolo 13 anni fa, la notizia segna uno spartiacque improvviso nella storia della musica italiana.
Per cui dalla semplice recensione credo che il discorso possa divenire bilancio d'una intera, impareggiabile carriera, espandendo la riflessione all'intero cantautorato italiano, al suo senso, alla sua eredità.
Quindi confronteremo, per sommi i capi, i principali cantautori italiani classici (De Andrè, De Gregori e, appunto, Guccini), in relazione anche alle loro influenze ai loro maestri comuni, da Leonard Cohen ai cantautori francesi, fino, ovviamente, a Bob Dylan.
ATTENZIONE.
Mi rendo conto di aver menzionato per la prima volta in questo blog Bob Dylan.
E' necessario aprire una parentesi esplicativa.
(Dunque, l'ho aperta:
non sono per nulla una persona modesta, nel senso etimologico di moderarsi e contenersi. Preferisco essere umile, parola dall'etimo stupendo, che riporta all'humus, alla Terra che sostiene e feconda; cioè riconoscere la presenza di persone migliori di me, in vari sensi, e abbassare il mio ego dinanzi a loro.
Per cui, posso pacificamente riconoscere che ci sia chi ne sa infinitamente più di me sui fumetti; egualmente, penso che ci siano molto probabilmente persone più preparate di me sul cinema; posso senza dubbio accettare che ci sia qualcuno più esperto di me di letteratura o di filosofia, certo...
ma su Dylan NO!
In un mondo equo e giusto io sarei il detentore della cattedra di filologia dylaniana ad Harvard.
Ecco.
Volevo dirvelo.)
Mi sembra doveroso iniziare il nostro confronto proprio con Guccini.
Guccini è stato per ormai tre generazioni molto più di un cantautore.
E non parlo degli slogan roboanti di retorica: "la voce di una generazione", "il cantore della protesta"...e tutte le etichette che da 50 anni incombono come una mannaia, da Dylan in poi, su chiunque abbia preso una chitarra e provato a dire qualcosa di sensato.
Parlo di qualcosa di molto più prezioso, intimo, eppure concretissimo e presente
per chiunque lo abbia ascoltato a fondo.
Guccini è stato la porta verso la ricerca, l'esempio nel pensiero, l'alchimista delle emozioni.
Il maestro della parola nel momento in cui dichiara l'inesprimibilità del vero, l'umile artigiano che testimonia lo splendore dell'arte, l'amico che ti fa gioire d'ogni momento dell'esistenza mentre ne proclama l'incomprensibile vanità, l'agnostico irriverente in grado d'esplorare le profondità dello spirito.
Un cicerone paterno e divertito che ha ci ha accompagnato nella percezione dei sentimenti ineffabili, un professore logorroico ma amabile che ci ha iniziato ai capolavori della letteratura d'ogni tempo e luogo, l'intuizione che ha schiuso le porte di infiniti collegamenti culturali, una matrice inesauribile di stimoli intellettuali e interiori.
Un punto di riferimento certo proprio nel ricordarci il segno costante dell'incertezza, uno sherpa affidabilissimo nel disseminare il suo, e nostro, percorso di dubbi e interrogativi.
Più di tutto, una guida onesta e sommamente discreta nel difficile cammino di conoscere noi stessi.
E tutto questo senza boria alcuna, al contrario con l'ironia e l'umiltà di chi si sente perennemente a disagio, imbarazzato non dico dallo stare sotto i riflettori, ma dalla stessa presunzione d'affermare alcunché.
Nell'Italia di Rita Pavone e Caterina Caselli (a cui comunque dobbiamo dire grazie per averlo lanciato), lui scriveva canzoni ispirate a Salinger, citava T.S.Eliot e omaggiava Gozzano.
Eppure, se chiediamo al pubblico medio, Guccini, come Dylan, è considerato ancora il cantautore impegnato, di sinistra, un pò depressone, pesante etc...
Un pregiudizio che resiste quasi 40 anni dopo "L'avvelenata", celeberrima canzone in cui si smarcava con orgoglio e coraggio (usando il turpiloquio quando era ancora proibito) dalle etichette, dai luoghi comuni, dai paraocchi ideologici.
Uno sfogo, come si sa, scatenato da una recensione "leninista" di Riccardo Bertoncelli: "Voi critici, voi personaggi austeri, militanti severi, chiedo scusa a vossìa/però non ho mai detto che a canzoni si fan rivoluzioni, si possa far poesia;/io canto quando posso, come posso, quando ne ho voglia senza applausi o fischi:/vendere o no non passa fra i miei rischi, non comprate i miei dischi e sputatemi addosso..."
A risentirla ieri"L'avvelenata", la canzone oltraggiosa, divertente, liberatoria, beh veniva quasi da piangere...riascoltando i versi finali "ho tante cose ancora da raccontare per chi vuole ascoltare" nel giorno in cui il Guccio appende definitivamente la chitarra al chiodo perchè, dice, "manca la voglia e l'entusiasmo" di scrivere canzoni.
Una canzone da qui però deriva la percentuale residua di luogo comune su Guccini: il casinista ubriacone, il poeta attaccato al fiasco, santo patrono delle osterie e dei canti notturni avvinazzati. Non a caso il Guccio negli ultimi concerti metteva in palio 500 euro a chi avesse abbattuto istantaneamente chi ne richiedeva a voce alta l'esecuzione.
Ora, che il vino abbia tanto spazio nell'ispirazione, e nella vita privata, di Guccini è innegabile. Ma apprezzare le sue canzoni perché era un bevitore, sarebbe come apprezzare "I fiori del Male" perché Baudelaire era un puttaniere.
In questo ossessivo e disperato tentativo di scrollarsi di dosso etichette e miti, non possiamo non vedere la prima grande analogia con Dylan.
Se noi chiediamo a chiunque chi sia Bob Dylan, la prima risposta sarà molto probabilmente: "un cantante di protesta".
Si, il cantante di protesta, che cantava con Joan Baez contro il Vietnam.
I più informati parleranno della svolta elettrica, qualcuno addirittura si spingerà all'incidente in motocicletta. Incidente avvenuto nel 1966.
Al di là delle esagerazioni, nella mente d'ognuno (filologi pazzi come me esclusi,ovviamente) c'è il Dylan protestatario, ribelle, dallo sguardo torvo e dalla voce nasale che campeggia indignato sulla copertina di "The times they are a-changin'", il menestrello profeta di "Mr. Tambourine man", o al massimo il Dylan elettrico e mercuriale di "Like a rolling stone" e "Just like a woman", posseduto da un ispirazione nervosa e visionaria, quello per intenderci
interpretato da Cate Blanchett in "I'm not there" (un vero prodigio come una delle donne più affascinanti del pianeta sia stata in grado di incarnare credibilmente un nano rachitico!).
E' interessante notare che se Guccini scrive "L'avvelenata" nel 1976, Dylan qualche anno prima scrisse "My back pages", uno dei suoi capolavori assoluti, in cui prendeva le distanze dal falso mito di sè stesso nel ritornello immortale:"Ah, but I was so much older then / I'm younger than that now".
Era il 1964. 48, quasi 49, anni fa.
Ora è vero che nel caso di Dylan (ed è valido anche per Guccini), il potere di questi luoghi comuni immarcescibili deriva anche dalla dirompente forza e bellezza dei suoi esordi.
Dylan (come il Welles di "Citizen Kane") è stato condannato dalla benedizione di aver raggiunto l'eccellenza assoluta subito.
Avendo goduto di una connessione Fastweb con l'Inconscio Collettivo per i primi anni della sua carriera (in pochi mesi tra il '63 e il '64 ha sfornato un numero di capolavori tali da riempire 7 carriere gloriose), egli ha passato gli ultimi 45 anni della sua carriera a sfuggire la condanna di divenire il poeta alessandrino di sè stesso.
Un'intera carriera passata a sputare sul proprio mito, a resistere alle sirene che lo volevano imbrigliare nelle definizioni di icona generazionale.
Definizioni da lui divertitamente elencate nello stupendo primo capitolo del suo vero ultimo capolavoro, la sua autobiografia "Chronicles": "Leggenda, Icona, Enigma (Buddha vestito alla Europea era il mio favorito), Profeta, Messia, Redentore".
Un grido collettivo magnificamente espresso da Bowie in "Song for Bob Dylan", (tratta da "Hunky Dory",il disco di "Changes" e "Life on Mars?" per intenderci): "Give us back our unity/Give us back our family/ You're every nation's refugee/ Don't leave us with their sanity".
Un gemma di Bowie incastonata fra gli omaggi mimetici ai suoi altri due grandi ispiratori, Andy Warhol (nell'omonima canzone, a quanto pare odiata dal destinatario), e Lou Reed (in "Queen Bitch", probabilmente la canzone più cool della storia, in cui l'ammirazione da fan si trasforma in rivalità fra checche imperiali ).
E' interessante notare come solo dopo aver pacificato i fantasmi dei suoi idoli con aperti tributi, Bowie saprà liberarsi dalla loro ombra ingombrante, e manifestarsi finalmente nel doppio leggendario di Ziggy Stardust.
Dylan per sfuggire a questa prigione concettuale farà veramente di tutto: inscenare la famosa svolta elettrica di Newport, tempio del folk di cui era l'eroe e il dio, del'65 (gesto più punk della storia, perchè sputo rivolto non alla autorità di altri, ma alla propria); pubblicare appositamente un disco bruttissimo per allontanare i fan da sè, l'infausto"Self-portrait" (celebre il commento di Greil Marcus: "What is this shit?"); concedere l'autorizzazione a una banca per usare in uno spot l'inno profetico "The times they are a-changin'" (beffa suprema, cantato da Richie Havens, il cantante simbolo di Woodstock che su quel palco improvvisò "Freedom"); apparire in una reclame di Victoria's secret; guidare trasmissioni radiofoniche su tutta la musica antecedente agli anni'60, cioè al proprio avvento artistico, cancellando di fatto la sua rivoluzione etc...
Sul gesto più clamoroso (molti di voi avranno già capito) vale la pena sottolineare una coincidenza illuminante: tutti conosciamo "Fear and Loathing in Las Vegas" il romanzo di H.T.Thompson (da cui è tratto l'omonimo film-culto con Johnny Depp e Benicio del Toro) .
Libro, tra l'altro, dedicato proprio a Dylan, per aver scritto "Mr.Tambourine Man".
A un certo punto, per commentate sarcasticamente la devozione dei Beatles per quello che si sarebbe rivelato un falso guru, Thompson chiosa con una battuta:
"Era come se Dylan fosse andato in Vaticano a baciare l'anello del Papa."
Come dire, la cosa più assurda del mondo.
Sappiamo tutti che ciò è successo, nel '97 (io c'ero, per Dylan ovviamente, fui visto da molti in televisione mentre facevo gestacci tra le mandrie inneggianti di Papa Boys).
Molti potranno commentare la cosa come il compimento spettacolare di un tradimento, la consacrazione che Dylan si è "venduto".
Per me, invece, si è trattato della massima manifestazione della natura, come già detto, mercuriale di Dylan.
L'intuizione del film "I'm not there" (per quanto progetto dichiaratamente incompiuto e non riuscito) di rappresentare il cantautore americano con sei personaggi differenti, in quanto personalità troppo molteplice e sfuggente per essere inscatolata in una figura unica, è brillantemente corretta.
Dylan è il Bagatto dei Tarocchi.
Ed è un emblematico, incorreggibile Gemelli.
Proprio come Guccini.
FINE DELLA PRIMA PARTE.
ATTENZIONE.
Mi rendo conto di aver menzionato per la prima volta in questo blog Bob Dylan.
E' necessario aprire una parentesi esplicativa.
(Dunque, l'ho aperta:
non sono per nulla una persona modesta, nel senso etimologico di moderarsi e contenersi. Preferisco essere umile, parola dall'etimo stupendo, che riporta all'humus, alla Terra che sostiene e feconda; cioè riconoscere la presenza di persone migliori di me, in vari sensi, e abbassare il mio ego dinanzi a loro.
Per cui, posso pacificamente riconoscere che ci sia chi ne sa infinitamente più di me sui fumetti; egualmente, penso che ci siano molto probabilmente persone più preparate di me sul cinema; posso senza dubbio accettare che ci sia qualcuno più esperto di me di letteratura o di filosofia, certo...
ma su Dylan NO!
In un mondo equo e giusto io sarei il detentore della cattedra di filologia dylaniana ad Harvard.
Ecco.
Volevo dirvelo.)
Mi sembra doveroso iniziare il nostro confronto proprio con Guccini.
Guccini è stato per ormai tre generazioni molto più di un cantautore.
E non parlo degli slogan roboanti di retorica: "la voce di una generazione", "il cantore della protesta"...e tutte le etichette che da 50 anni incombono come una mannaia, da Dylan in poi, su chiunque abbia preso una chitarra e provato a dire qualcosa di sensato.
Parlo di qualcosa di molto più prezioso, intimo, eppure concretissimo e presente
per chiunque lo abbia ascoltato a fondo.
Guccini è stato la porta verso la ricerca, l'esempio nel pensiero, l'alchimista delle emozioni.
Il maestro della parola nel momento in cui dichiara l'inesprimibilità del vero, l'umile artigiano che testimonia lo splendore dell'arte, l'amico che ti fa gioire d'ogni momento dell'esistenza mentre ne proclama l'incomprensibile vanità, l'agnostico irriverente in grado d'esplorare le profondità dello spirito.
Un cicerone paterno e divertito che ha ci ha accompagnato nella percezione dei sentimenti ineffabili, un professore logorroico ma amabile che ci ha iniziato ai capolavori della letteratura d'ogni tempo e luogo, l'intuizione che ha schiuso le porte di infiniti collegamenti culturali, una matrice inesauribile di stimoli intellettuali e interiori.
Un punto di riferimento certo proprio nel ricordarci il segno costante dell'incertezza, uno sherpa affidabilissimo nel disseminare il suo, e nostro, percorso di dubbi e interrogativi.
Più di tutto, una guida onesta e sommamente discreta nel difficile cammino di conoscere noi stessi.
E tutto questo senza boria alcuna, al contrario con l'ironia e l'umiltà di chi si sente perennemente a disagio, imbarazzato non dico dallo stare sotto i riflettori, ma dalla stessa presunzione d'affermare alcunché.
Nell'Italia di Rita Pavone e Caterina Caselli (a cui comunque dobbiamo dire grazie per averlo lanciato), lui scriveva canzoni ispirate a Salinger, citava T.S.Eliot e omaggiava Gozzano.
Eppure, se chiediamo al pubblico medio, Guccini, come Dylan, è considerato ancora il cantautore impegnato, di sinistra, un pò depressone, pesante etc...
Un pregiudizio che resiste quasi 40 anni dopo "L'avvelenata", celeberrima canzone in cui si smarcava con orgoglio e coraggio (usando il turpiloquio quando era ancora proibito) dalle etichette, dai luoghi comuni, dai paraocchi ideologici.
Uno sfogo, come si sa, scatenato da una recensione "leninista" di Riccardo Bertoncelli: "Voi critici, voi personaggi austeri, militanti severi, chiedo scusa a vossìa/però non ho mai detto che a canzoni si fan rivoluzioni, si possa far poesia;/io canto quando posso, come posso, quando ne ho voglia senza applausi o fischi:/vendere o no non passa fra i miei rischi, non comprate i miei dischi e sputatemi addosso..."
A risentirla ieri"L'avvelenata", la canzone oltraggiosa, divertente, liberatoria, beh veniva quasi da piangere...riascoltando i versi finali "ho tante cose ancora da raccontare per chi vuole ascoltare" nel giorno in cui il Guccio appende definitivamente la chitarra al chiodo perchè, dice, "manca la voglia e l'entusiasmo" di scrivere canzoni.
Una canzone da qui però deriva la percentuale residua di luogo comune su Guccini: il casinista ubriacone, il poeta attaccato al fiasco, santo patrono delle osterie e dei canti notturni avvinazzati. Non a caso il Guccio negli ultimi concerti metteva in palio 500 euro a chi avesse abbattuto istantaneamente chi ne richiedeva a voce alta l'esecuzione.
Ora, che il vino abbia tanto spazio nell'ispirazione, e nella vita privata, di Guccini è innegabile. Ma apprezzare le sue canzoni perché era un bevitore, sarebbe come apprezzare "I fiori del Male" perché Baudelaire era un puttaniere.
In questo ossessivo e disperato tentativo di scrollarsi di dosso etichette e miti, non possiamo non vedere la prima grande analogia con Dylan.
Se noi chiediamo a chiunque chi sia Bob Dylan, la prima risposta sarà molto probabilmente: "un cantante di protesta".
Si, il cantante di protesta, che cantava con Joan Baez contro il Vietnam.
I più informati parleranno della svolta elettrica, qualcuno addirittura si spingerà all'incidente in motocicletta. Incidente avvenuto nel 1966.
Al di là delle esagerazioni, nella mente d'ognuno (filologi pazzi come me esclusi,ovviamente) c'è il Dylan protestatario, ribelle, dallo sguardo torvo e dalla voce nasale che campeggia indignato sulla copertina di "The times they are a-changin'", il menestrello profeta di "Mr. Tambourine man", o al massimo il Dylan elettrico e mercuriale di "Like a rolling stone" e "Just like a woman", posseduto da un ispirazione nervosa e visionaria, quello per intenderci
interpretato da Cate Blanchett in "I'm not there" (un vero prodigio come una delle donne più affascinanti del pianeta sia stata in grado di incarnare credibilmente un nano rachitico!).
E' interessante notare che se Guccini scrive "L'avvelenata" nel 1976, Dylan qualche anno prima scrisse "My back pages", uno dei suoi capolavori assoluti, in cui prendeva le distanze dal falso mito di sè stesso nel ritornello immortale:"Ah, but I was so much older then / I'm younger than that now".
Era il 1964. 48, quasi 49, anni fa.
Ora è vero che nel caso di Dylan (ed è valido anche per Guccini), il potere di questi luoghi comuni immarcescibili deriva anche dalla dirompente forza e bellezza dei suoi esordi.
Dylan (come il Welles di "Citizen Kane") è stato condannato dalla benedizione di aver raggiunto l'eccellenza assoluta subito.
Avendo goduto di una connessione Fastweb con l'Inconscio Collettivo per i primi anni della sua carriera (in pochi mesi tra il '63 e il '64 ha sfornato un numero di capolavori tali da riempire 7 carriere gloriose), egli ha passato gli ultimi 45 anni della sua carriera a sfuggire la condanna di divenire il poeta alessandrino di sè stesso.
Un'intera carriera passata a sputare sul proprio mito, a resistere alle sirene che lo volevano imbrigliare nelle definizioni di icona generazionale.
Definizioni da lui divertitamente elencate nello stupendo primo capitolo del suo vero ultimo capolavoro, la sua autobiografia "Chronicles": "Leggenda, Icona, Enigma (Buddha vestito alla Europea era il mio favorito), Profeta, Messia, Redentore".
Un grido collettivo magnificamente espresso da Bowie in "Song for Bob Dylan", (tratta da "Hunky Dory",il disco di "Changes" e "Life on Mars?" per intenderci): "Give us back our unity/Give us back our family/ You're every nation's refugee/ Don't leave us with their sanity".
Un gemma di Bowie incastonata fra gli omaggi mimetici ai suoi altri due grandi ispiratori, Andy Warhol (nell'omonima canzone, a quanto pare odiata dal destinatario), e Lou Reed (in "Queen Bitch", probabilmente la canzone più cool della storia, in cui l'ammirazione da fan si trasforma in rivalità fra checche imperiali ).
E' interessante notare come solo dopo aver pacificato i fantasmi dei suoi idoli con aperti tributi, Bowie saprà liberarsi dalla loro ombra ingombrante, e manifestarsi finalmente nel doppio leggendario di Ziggy Stardust.
Dylan per sfuggire a questa prigione concettuale farà veramente di tutto: inscenare la famosa svolta elettrica di Newport, tempio del folk di cui era l'eroe e il dio, del'65 (gesto più punk della storia, perchè sputo rivolto non alla autorità di altri, ma alla propria); pubblicare appositamente un disco bruttissimo per allontanare i fan da sè, l'infausto"Self-portrait" (celebre il commento di Greil Marcus: "What is this shit?"); concedere l'autorizzazione a una banca per usare in uno spot l'inno profetico "The times they are a-changin'" (beffa suprema, cantato da Richie Havens, il cantante simbolo di Woodstock che su quel palco improvvisò "Freedom"); apparire in una reclame di Victoria's secret; guidare trasmissioni radiofoniche su tutta la musica antecedente agli anni'60, cioè al proprio avvento artistico, cancellando di fatto la sua rivoluzione etc...
Sul gesto più clamoroso (molti di voi avranno già capito) vale la pena sottolineare una coincidenza illuminante: tutti conosciamo "Fear and Loathing in Las Vegas" il romanzo di H.T.Thompson (da cui è tratto l'omonimo film-culto con Johnny Depp e Benicio del Toro) .
Libro, tra l'altro, dedicato proprio a Dylan, per aver scritto "Mr.Tambourine Man".
A un certo punto, per commentate sarcasticamente la devozione dei Beatles per quello che si sarebbe rivelato un falso guru, Thompson chiosa con una battuta:
"Era come se Dylan fosse andato in Vaticano a baciare l'anello del Papa."
Come dire, la cosa più assurda del mondo.
Sappiamo tutti che ciò è successo, nel '97 (io c'ero, per Dylan ovviamente, fui visto da molti in televisione mentre facevo gestacci tra le mandrie inneggianti di Papa Boys).
Molti potranno commentare la cosa come il compimento spettacolare di un tradimento, la consacrazione che Dylan si è "venduto".
Per me, invece, si è trattato della massima manifestazione della natura, come già detto, mercuriale di Dylan.
L'intuizione del film "I'm not there" (per quanto progetto dichiaratamente incompiuto e non riuscito) di rappresentare il cantautore americano con sei personaggi differenti, in quanto personalità troppo molteplice e sfuggente per essere inscatolata in una figura unica, è brillantemente corretta.
Dylan è il Bagatto dei Tarocchi.
Ed è un emblematico, incorreggibile Gemelli.
Proprio come Guccini.
FINE DELLA PRIMA PARTE.