lunedì 22 dicembre 2014

Il miracolo di Mabel Morri - un anticlericale sul pulpito



Una battaglia iniziata nell'infanzia

A 10 anni rifiutai fieramente di fare la comunione.
Non per incipiente ateismo, attenzione, ma per l'intuizione infantile della ricerca spirituale che presto avrebbe ispirato il mio percorso intellettuale.
Preferivo di gran lunga rimanere a casa ad ascoltare, all'epoca, Prince o i Kool & the Gang piuttosto che appassire di noia al morto odore delle candele, ascoltando le tediose, vuote prediche a cui eravamo sottoposti.
Ricordo che un pomeriggio ero particolarmente contrariato, avevo già saltato numerose "lezioni", mi recai quasi di scatto alla parrocchia, con piglio risolutore.
Non per caso, il teatro fu la Basilica di Paolo, il Grande Deformatore.
(Curioso come il karma ci spedisca a combattere a testa alta nel cuore della roccaforte nemica).
Ascoltai nervoso il grandioso racconto gnostico della Genesi distorto e ridotto a storiella innocua e, una volta giunti alla maledizione di Caino, alzai la mano e chiesi alla, pur gentile, catechista:
"Mi scusi, il racconto inizia dicendo che Dio ha creato Adamo ed Eva. Dopo la cacciata dal Paradiso, essi mettono al mondo Caino ed Abele. Caino uccide Abele e viene maledetto.
Dunque, egli fugge a Nord e fonda una città.
Con chi? Chi erano le altre persone? Se erano stati creati solo Adamo ed Eva e loro erano gli unici figli, come è possibile?"*.
La catechista, indubbiamente spiazzata, farfugliò una classica risposta sull'autorità indiscutibile del testo rivelato, al che sbottai: "Non siete in grado di rispondere a una domanda di un bambino di dieci anni. Non avete nulla da insegnarmi".
E me ne andai, chiudendo per sempre il mio rapporto con il Cattolicesimo, e destando non poco clamore in una famiglia il cui nonno paterno era cresciuto a Borgo Pio, il rione costruito attorno alla Basilica di S.Pietro (e sventrato dall'idiozia del Duce).
Si, lo so cosa state pensando: già a quell'età eri un bel rompiscatole.

Rashi di Troyes, il più celebre esegeta biblico in ambito ebraico

Solo anni dopo consultati l'esegesi di Rashi di Troyes che giustifica l'incesto dei due fratelli con le gemelle rispettive per far proseguire la specie e, soprattutto, l'interpretazione cabalistica del termine Adam come "genere umano" (da cui la figura straordinaria dell'Adam Qadmon, l'uomo primordiale allegoria dell'Albero della Vita... nome sacro appioppato ora alle pagliacciate complottiste sui canali di regime).

Uno schema cabalistico dell'Adam Qadmon

Perché, vi chiederete, questa premessa biografica?
Per raccontarvi, in armonia col periodo natalizio, un miracolo avvenuto in una chiesa.




Un invito inatteso

Alcuni mesi fa sono stato contattato da Mabel Morri per invitarmi a presentare la più imprevedibile delle presentazioni: l'inaugurazione ufficiale della Chiesa di S.Martino in Riparotta, a Rimini, integralmente illustrata da lei a fumetti.
Un onore, non solo per la stima gentilmente espressami  da Mabel, ma anche per la eccezionalità dell'evento.
                       

                     
Come si è pervenuti a questa collaborazione culturale ce lo racconta lei QUI.
In occasione della presentazione realizzammo  QUESTA intervista in cui spiega bene tutta l'evoluzione cronologica del progetto (in seguito ci farà entrare nel suo studio, finora unico caso su Fumettologica, con un'intervista disegnata che trovate QUI).
Dunque, non mi addentro ora nell'analisi della rilettura della tradizine che Mabel ha avverato, con rispetto ma anche con libertà creativa: spiega tutto molto bene lei nella nostra conversazione.
Preferisco raccontarvi cosa mi ha atteso a Rimini, oltre a una indimenticabile piadina ed alla cortesia di Mabel.


Una sinfonia di coincidenze **

Una serie di illuminanti sincronicità mi ha accolto maternamente, facendomi subito sentire a casa.
i versi sublimi che aprono il 33° canto del Paradiso, la sublime preghiera che Dante fa recitare da Bernardo di Chiaravalle alla Vergine, campeggiano nel loro intatto splendore sull'altare (unico caso credo al mondo):

Vergine madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d'etterno consiglio...




E poi, la più illuminante delle coincidenze...
                                       
Carl Jung avrebbe sogghignato

Mi ha sempre dato fastidio la visione del crocifisso.
No, non sono posseduto dal Demonio (almeno credo).
E non è nemmeno una forma di sdegnosa fierezza come il gesto finale di Giordano Bruno sul luogo del suo martirio laico.



È proprio per rispetto del valore universale della figura cristica che non ne sopporto la visione.
Perché celebrare un dio risorto immortalandolo nel momento di massima sofferenza e umiliazione?
Perché enfatizzare il momento, transitorio e subordinato, della morte e non quello, trionfale e definitivo, della Resurrezione? Perché non sottolineare la sua specificità divina nel superare i limiti della materia, invece di congelarlo nella sofferenza comune a tanti uomini?
Certo, il motivo è chiaro: costruire un impero sul senso di colpa.
Chi scrive preferisce la rappresentazione michelangiolesca de il "Cristo la Tigre" di T.S. Eliot (o il Leone risorto di C.S.Lewis). glorificato in tutta la sua Potenza, a quella lacrimevole o morbosa di derivazione grunewaldiana (il cui apice intollerabile è stato messo in scena dalle ossessioni di Mel Gibson).


Non crediamo che Il Cristo, se tornasse sulla terra, apprezzerebbe.
Ne dà splendida rappresentazione, pur con un linguaggio ben poco solenne, il geniale Bill Hicks in questa gag:

                                       

Ebbene, per un contrattempo tecnico, quella sera alla Chiesa di S.Martino la croce di legno non è pervenuta.
Rendiamoci conto: in una chiesa, appena inaugurata, non è arrivato il crocifisso di legno.
Dunque, il corpo del Cristo appariva libero,  rapito, sospeso nella sua ascensione celeste.
Libero dal peso di duemila anni di menzogne.

                                     
Gnosi e Resurrezione in Caravaggio
Un paradossale onore

Aver avuto la possibilità di fare queste riflessioni ad alta voce, dal pulpito di una chiesa, è stato davvero un'esperienza culturalmente straordinaria.
Il livello degli interventi è stato molto alto.
Ho apprezzato in particolare l'intervento dello storico dell'arte Alessandro Giovanardi, che ha illustrato con grande competenza il valore allegorico ed esoterico dell'arte.
Un plauso va anche all'ingegnere Pino Ferri, di fatto lui "scopritore" di Mabel come potenziale illustratrice della chiesa.
                               
S.Martino visto da Mabel Morri

Un doveroso ringraziamento

A questo punto, da fiero anticlericale che ha tra i suoi auctores campioni del cattolicesimo quali Chesterton  e T.S.Eliot, devo porre i miei omaggi a un esponente, uno finalmente degno, della "squadra avversaria".

                                        

-  Considerando che l'opera precedente di Mabel era Cinquecento milioni di stelle, una sentita celebrazione dell'amore lesbico e in generale del diritto ad amare chi si desidera, al di là delle convenzioni sociali;

                                      

- Aggiungendo che la volta della chiesa è stata commissionata a Eron, il noto street artist, eccellenza riminese ma non certo un chierichetto modello;
                                     
La volta di Eron

-  Testimoniando, in conclusione, come nella presentazione si sia liberamente parlato di Gnosi, meditazione e ricerca spirituale esterna alla Chiesa ...
Beh,  indubbiamente, invito  tutti a levarsi il cappello davanti all'apertura mentale di Don Danilo Manduchi. Per una serata, ha reso vivi i versi (idealmente sublimi ma grottescamente smentiti dalla realtà) de I Cori da "La Rocca" di  T.S.Eliot:

Deserto e vuoto. Deserto e vuoto. E tenebre sopra la faccia dell'abisso.
È la Chiesa che ha abbandonato l'umanità, o è l'umanità che ha abbandonato la Chiesa?
Quando la Chiesa non è più considerata e neanche contrastata, e gli uomini hanno dimenticato
Tutti gli dei, salvo l'Usura, la Lussuria e il Potere.

                                       
Il grande T.S. Eliot

Soprattutto, il vero miracolo è stato ridare alla parola "chiesa"(divenuta sinonimo da secoli di un'istituzione marcia, distante fino ad essere contrapposta al messaggio originale del Cristo) il suo stupendo significato etimologico (affine a quello di sinagoga, religione, Yoga): ἐκκλησία, ekklēsía, ovvero "assemblea del popolo".
Un autentico dono essere stato l'anfitrione culturale di un tale evento.
Grazie Mabel.

* ho recentemente scoperto, con mio sommo onore, che la stessa obiezione venne posta dal giovanissimo Baruch Spinoza durante le lezioni di Torah.
                       


(Bonus track)**

Un incontro illuminante

Questo paragrafo sarà volontariamente frammentario, lasciando tutto per implicito.

Nel seguire il percorso le mie riflessioni a voce alta, dal pulpito, dicendo cose che qualche decennio fa mi avrebbero guadagnato un processo per blasfemia, ho menzionato come riferimento assoluto nella mia ricerca Shri Mataji Nirmala Devi.

A fine serata, Luca Genovese mi parla di una sua storia a fumetti di 10 anni fa, Sahasrara.

L'articolo di Mabel, in cui racconta la storia del progetto, è del 5 maggio.

Unite i puntini.



venerdì 12 dicembre 2014

DIMENTICA IL MIO NOME - la prova di maturità di Zerocalcare



Oggi è il compleanno di Michele Rech. 
Un ragazzo che ho avuto il piacere di conoscere in alcune occasioni, in cui si è sempre rivelato di una gentilezza disarmante, di una disponibilità quasi imbarazzante, tale da collocarlo indiscutibilmente nell'ambito della santità laica.
Un ragazzo onesto, molto serio, ispirato da ideali alti e difficili da rispettare nella società contemporanea, che lui (tra mille paranoie e paletti morali in granito) fa di tutto per onorare.
Ah, tra l'altro, è il fenomeno editoriale italiano degli ultimi tre anni.
Tutti lo conoscono come Zerocalcare.

Circa un anno fa (per la precisione 51 settimane) Andrea Coccia e il sottoscritto ci incontrammo sul ring de Linkiesta per dibattere insieme sul "fenomeno" Zerocalcare.
Io, per modo di dire, "pro", Andrea, per modo di dire, "contro".
Andrea rifletteva seriamente sulle possibili ripercussioni negative del successo travolgente e della iper-produttività (quattro libri in un anno) dell'autore sul mercato (e sull'autore stesso); io, nei panni a me inusuali dell'avvocato della tesi più popolare, mi spericolavo in una complessa indagine sulle radici nobili della comicità irresistibile di Zero.
In realtà al di là del format accattivante, entrambi di fondo concordavamo: dietro ai nostri articoli contrapposti ci univa la stima, direi anche l'affetto, per l'autore e l'apprezzamento per i suoi libri (la nostra giocosa sfida la trovate QUI).
L'occasione del dibattito era la pubblicazione di Dodici.
In realtà, Zerocalcare, nella nostra amabile conversazione a casa sua pubblicata su FUMETTOLOGICA (QUI) aveva già chiarito come il libro fosse una sorta di prova generale per il successivo: " sto lavorando a lungo termine su un progetto solo (...)  il progetto principale, al quale sto lavorando da quasi un anno e che adesso pare finalmente arrivato alla fase di disegno, è questo: una storia lunga che riguarda un pezzo importante della mia storia familiare, nell'arco di tre generazioni, mia nonna, mia madre e me. Una storia in parte vera, in parte romanzata, che riguarda delle storie che mi sono state raccontate quattro anni fa da mia madre (...) una storia con una gestazione super-lunga, poiché è stato complicato innanzitutto comprendere cosa poteva essere raccontato e cosa no. (...)  Sia “Dodici” che, in parte, “Un polpo alla gola” sono stati pensati come banchi di prova per questa storia. Esperienze che mi sono servite molto. Ad esempio, con “Dodici” ho capito quali sono i miei limiti. Ho compreso che la narrazione lunga, con un continuo temporale, senza spezzettamenti narrativi…mi annoia! E quando mi annoio a fare una cosa in qualche modo restituisco questa impressione al lettore. Probabilmente, quindi, questa nuova storia, pur essendo lunga, procederà per moduli narrativi più brevi".

La copertina variant del libro, realizzata assieme a Gipi, del quale anche oggi ricorre il compleanno 

Parlava, ovviamente, di Dimentica il mio nome, due giorni fa dichiarato dagli ascoltatori di Fahreneit  "libro dell'anno".
Un anno dopo, il libro ha conquistato proprio Andrea Coccia, rispondendo in un certo senso sul campo alle precedenti legittime osservazioni di quest'ultimo.
Crediamo che Andrea sia stato il primo ad essere felice nel riconoscere le doti del libro, esattamente quelli che nell'articolo indica come i "fattori incatenati" che definiscono la vera arte: "onestà, fedeltà (o schiavitù?) ai propri demoni, ossessione per il tempo perduto, per il passato".
Ciò che Coccia ha apprezzato del nuovo libro è soprattutto il coraggio di affrontare la propria storia privata, i recessi intimi del proprio passato: "Con Dimentica il mio nome, infatti, Zero — per quanto mi riguarda finalmente — prende in mano frammenti del suo vissuto famigliare, li mischia con una sana (e potente, e funzionale, e ben gestita) dose di reinvenzione fantastica, affrontando — anche qui, per quanto mi riguarda, finalmente — le proprie ossessioni faccia a faccia, andando a inseguire i vuoti della memoria, riempiendoli con il proprio immaginario, risolvendo narrativamente i conti con un passato, quello famigliare, mai affrontato" (ecco QUI  l'articolo integrale).
Ovviamente, Zerocalcare, col suo puntuale senso comico, ha colto subito il paradosso potenziale del rovesciamento di opinioni.


Dunque, mi è piaciuto?

In realtà, quello che penso, gliel'ho già detto di persona durante la nostra ultima conversazione a Più Libri, Più Liberi (la trovate QUI).
Il libro oggettivamente è il crocevia della carriera di Zerocalcare.
In un certo senso, ha vuotato il sacco completamente sulla sua adolescenza, o quantomeno sull'approccio adolescenziale, su quell'immaginario, comune a molti (compreso il sottoscritto), in cui si è riconosciuta, emotivamente, un'intera generazione.
Infatti, nell'intervista conferma: "il libro rappresenta a pieno quello che volevo fare. Sento anche che in qualche modo rappresenta la fine di un ciclo. Per la prima volta, se penso a cosa devo fare in futuro, ho il vuoto cosmico."
Non a caso, quando gli pongo la domanda di rito sui progetti per il futuro, se la cava con una dedica da incorniciare in oro bianco:



(chi conosce le modalità del mio matrimonio sa che compongono una storia a metà tra Amici Miei e Un treno per Darjeeling,).

Analizziamo ora, brevemente, il libro.
Il primo dato è che, indubbiamente, tutto appare più serio.
Non serioso, ma consapevole, maturo, meditato.
Non mancano, ovviamente, i classici luoghi di riconoscimento grafico-narrativi adorati dai fan (l'Armadillo, i personaggi dei cartoni animati come maschere della nostra interiorità, Rebibbia e The Clash etc.). Ma sono inseriti in un contesto più ampio, più profondo, immersi in un chiaroscuro interiore che li rende gradevoli punti di riferimento, non protagonisti nell'economia narrativa.
L'autore insegue meno la risata, ma quando la trova la fa esplodere ancora più potente.
Zero ci regala alcune perle aforistiche degne di essere mandate istantaneamente a memoria ("La morte è la prima causa di accolli in Occidente", "Nella scala dell'abbrutimento umano,  Downtown Abbey si situa tra la masturbazione ore pasti e l'eroina", "Dice che il dolore fortifica. Ti fa le ossa, dice. Diventi uomo. Dice."), ma è chiaro che qui l'umorismo è un mezzo per traghettarci nell'inquieto fiume dell'introspezione.
Se l'accusa, spesso rivolta (a volte snobisticamente ma altre no) ai libri di Zero era quella di essere sempre, si, gradevoli, divertenti, ma limitati alla superficie della quotidianità, stavolta ci si addentra nelle pieghe oscure della propria memoria negata, del passato occulto, rimosso, alla ricerca delle proprie radici.
L'umorismo è benedetto, perché salva dal precipizio scivoloso della retorica, mantenendo l'autore sul filo di una narrazione sostanzialmente equilibrata.
Certo, a volte si concede un po' troppo la risata nei momenti topici, come si volesse esorcizzare la tensione degli snodi narrativi più intensi (la gag della carpa fellatrice fa esplodere il riso ma sgonfia la massima tensione costruita per tutto il libro), quasi si volesse rimanere con un piede nello sguardo adolescenziale (quando il tema del libro è proprio l'uscita forzata dalla spensieratezza, l'ingresso traumatico nella consapevolezza adulta).
Chiaramente, (è ovvio per me, ma per molti pare di no): non è Pazienza, non è Gipi (a proposito: auguri, Gianni!).
Non vi vedo nulla di strano: è Zerocalcare.
Il dado, comunque, è tratto.
La propria vita privata, almeno dal punta di vista post-adolescenziale, è stata scandagliata, canzonata, trasfigurata, resa luogo comune (in senso buono) generazionale, per alcuni aspetti esaurita come fonte d'ispirazione.
Più che un libro riuscito, a mio modesto giudizio è un libro importante.
Zero si è liberato dei fantasmi, si è scrollato di dosso le risate facili  e le pacche sulle spalle.
Ora, davvero, egli può (con tutta la calma del mondo) cominciare a diventare un grande narratore contemporaneo.
Il prossimo passo (non per il recente viaggio a Kobane, ma per una militanza ormai ventennale) potrebbe essere affrontare direttamente tematiche sociali?
 Si, lo so, è una mia ossessione (eppure ho sempre preferito Artaud a Brecht, Elémire Zolla a Umberto Eco).
Anche qui Zero, nell'ultima intervista, mi ha risposto con onestà e coerenza: "le opere di natura politica secondo me devono essere affrontate e raccontate collettivamente, devono essere il prodotto di una collettività. Io non penso che un singolo si possa svegliare la mattina e farsi portavoce del popolo.".
Ineccepibile.
Dunque, a questo punto un giornalista esperto lancerebbe il titolo per accalappiare i lettori: "Dove sta andando Zerocalcare?"
Francamente, spero ad una splendida serata con i suoi amici, per celebrare il suo trentunesimo compleanno.
Lasciamolo in pace. il ragazzo sa quello che fa.

giovedì 11 dicembre 2014

66 Demonietti - di Michele Hiki Falcone


Il Demone del Nulla
Ora che l'ultima illustrazione è stata pubblicata, che l'ultima pietra della cattedrale è stata posta, posso finalmente parlarvene.
Poche cose, negli ultimi tempi, mi hanno colpito come la serie di illustrazioni di Michele Hiki Falcone intitolata 66 demonietti.
Per chi, come me, è allergico a qualsiasi compiacimento satanico d'accatto, e usa i testi e le immagini del pagliaccio Crowley come emetico, tema e referenze numerologiche non erano il più seducente dei biglietti da visita.
Eppure, al primo sguardo, ho visto pulsare, tra le pieghe del segno di Hiki, il battito della ricerca, ho udito, osservando in tralìce, l'urlo strozzato di una tensione gnostica.
Ho compreso subito che non si trattava di un manualetto per imbecilli in vena di facile blasfemie.
Ho sentito che dietro l'elencazione dettagliata dei diversi volti del Maligno non c'era la sciocca celebrazione del negativo, bensì l'urgenza di dare forma ai propri demoni, per esorcizzarli tramite il controllo artistico.
Ho visto la sua visione, ho percepito la sua sofferenza, ho scrutato le sue piaghe interiori, le ferite della sua anima, il cui balsamo inebriante è il succo vitale di una ricerca inquieta.
Ho capito insomma che la sua testimonianza alzava al cielo lo scettro della vera arte: era autentica.

Il Demone del Tradimento

Hiki ha guardato in faccia ognuno di questi demoni da vicino.

Il Demone della Violenza
Giocando con le dotte parole di derivazione greca, dalla catabasi è giunto alla catarsi,
La fascinazione maggiore è stata rappresentata, come sempre, da un paradosso: come all'interno immagini a prima vista minuscole si possa celare l'abisso di una riflessione esistenziale, l'oceano di esperienza che tempra l'uomo alla fiamma della sofferenza per restituire alchemicamente ad ognuno il proprio dolore sotto forma di sapienza.

Il Demone della Depressione
Dunque, tale è il potere contagioso dell'arte, mi ha spontaneamente mosso a commentare ognuna di queste immagini. La sua introspezione grafica mi ha imposto una mia pubblica introspezione letteraria.
Primo immediato, supremo riferimento sono state per me Le lettere di Berlicche di C.S.Lewis, uno dei libri più geniali del Novecento. Un paradossale resoconto immaginario dell'apprendistato di un giovane demonietto: una sorta di vademecum della possessione, in cui un demone adulto, veterano, dispensa i suoi consigli al giovane collega su come tentare le sue vittime, rivelando in questo modo una introspezione feroce e severissima, pur sfumata dal dono di un umorismo sapienziale.
Dunque (ecco il mio delirio), partendo da una citazione, colta o ironica, di un autore famoso (dalla filosofia al cinema alla musica) sulla qualità demoniaca illustrata, avrei potuto offrire una meditazione intellettuale a corredo dell'immagine.
Sono mesi che vi penso, che nelle pause tra i rocamboleschi spostamenti quotidiani, sulle rive dei mille rivoli della mia creatività, al termine di un articolo o nel mezzo di una meditazione, m'assediano intuizioni, giochi di parole, riferimenti, calembour o confessioni, ispirate dalle illustrazioni, insieme scarne e barocche, di Hiki.
Ora basta.
È tempo di iniziare l'opera.

Michele Hiki Falcone, al termine dell'opera



giovedì 4 dicembre 2014

20.000 Days on Earth - La trasfigurante confessione di Nick Cave





La prima riflessione che ispira la visione di 20.000 Days on Earth è che Nick Cave sia, in primo luogo, un magnifico scrittore.
Non una grande rivelazione, si obietterà, considerato che il magistero letterario del Nostro erompe in canzoni, poesie, romanzi, perfino un delirante fumetto, da più di 30 anni, temprando alla fiamma dello stile alto le intemperanze esplosive degli anni giovanili.
Amplieremo dunque la riflessione: la testimonianza, fondamentale, del film è quella di un artista autentico. L'indagine dell'ispirazione artistica, la ricerca disperante della fonte della creatività, di quell'oceano tempestoso, capricciosamente crudele e sovranamente misericordioso nel concedere i suoi doni divini, ecco: è questo l'argomento del documento ardente che abbiamo davanti agli occhi.
Non la vita dell'uomo, non la celebrazione dell'artista Nick Cave.
Il racconto dell'uomo e artista nudo davanti allo specchio, come nelle scene iniziali, pronto ad affrontare l'ennesima spietata introspezione, ad affondare lo sguardo nel proprio fango interiore, per poi estrarne l'oro incandescente della poesia.
E rimanere, come nei versi celebri del suo amato maestro Leonard Cohen, "al cospetto del Signore del Canto con nulla sulla lingua se non: Alleluja!".

Complice dell'incanto è certo la voce di Cave, così profonda, arroventata da mille folli esperienze da rendersi una fornace di sapienza pessimista: una voce che renderebbe tragica e intensa perfino la lettura delle istruzioni di un lassativo.


Chi cercherà in questo docudrama il racconto biografico, cronologico dell'idolo punk divenuto uno dei più raffinati cantautori contemporanei, rimarrà deluso.
Il film è una fotografia lucida del "qui ed ora".
Il fauno che si aggirava spiritato sul set del video Nick the Stripper con una bestemmia (in italiano!) vergata come uno sfregio sul petto, ora è un distinto, serissimo signore australiano, la cui eleganza costante a volte tradisce dei vezzi pacchiani da mafioso anni'30. Vive con l'adorata moglie e i figlioli in un angolo sereno di una città industriale inglese, lontano dal clamore londinese, dalla frenesia di Liverpool o dal vortice di nuove tendenze di Manchester.
Porge lo spettacolo dei suoi incubi con un eloquio forbito, un lessico impeccabile e prezioso, solo di rado screziato dall'accento australiano, quando, con tempi comici scientifici, spezza la melodia del monologo poetico con scintille di turpiloquio.


Non mi soffermerò sui pregi registici del film, evidenti alla visione, sulla fotografia in grado di trasfigurare, proprio come nei versi di Cave, il monotono cielo grigio di Brighton e farlo diventare visione apocalittica.
Ecco, dunque, il cuore della narrazione.
La trasfigurazione e la memoria, spesso fusi in reciproca simbiosi (trasfigurazione della memoria e memoria delle passate trasfigurazioni), sono questi i poli ossessivi della confessione di Cave.



Ripetiamo, non è un documentario su "Nick Cave", sulla sua carriera, sulla sua storia: non troverete filmati d'epoca dei Birthday Party; la travolgente passione con P.J. Harvey (nata proprio durante le riprese del conturbante video di Henry Lee); l'incontro quasi mistico a Glanstonbury con l'idolo Bob Dylan, che attraversò l'acqua che circonda la zona in zattera scendendo indistinto nella nebbia solo per dirgli "mi piace quello che fai"; l'emozione di cantare Suzanne di Cohen dal vivo, dopo aver ricevuto i complimenti di Cohen per l'indemoniata versione di Avalanche; non troverete nemmeno il formidabile trio improvvisato con Henry Rollins e Jello Biafra che cantano Deanna senza sapere le parole.




Tutto questo, Nick Cave ce lo ha già raccontato. Per essere precisi, come ogni vero artista, Cave non fa altro che raccontarsi.
Il suo inferno interiore lo ha scandagliato già in quasi venti dischi, quattro romanzi, tre sceneggiature: una costante eruzione autobiografica.
Ora ci mostra dove è giunto dopo tutto quel tremendo, documentatissimo, cammino infernale.
Siamo di fronte alla testimonianza di un autore davanti all'abisso della pagina bianca.
Il processo creativo (memoria e trasfigurazione) ci viene restituito in tutta la sua primordiale innocenza. Cave ci descrive, sfiorando l'ineffabile, il momento inafferrabile in cui la canzone, prima di essere addomesticata nella forma convenzionale, "è lei a comandare", selvaggia, sorgiva, purissima nella sua informe manifestazione dalle lande dell'inconscio.
Ne è splendido esempio la versione di Higg's Boson Blues, in studio, improvvisata, in un fecondo e commovente in fieri;  forse l'ultimo grande capolavoro della narrazione di Cave: una cavalcata delirante di immagini discordanti, lacerata tra lo scetticismo caustico e la perenne, insoddisfatta ricerca di Dio.



Il gioco, appunto, trasfigurativo, da sempre è giocato su antinomie che dilaniano l'interiorità.
Come nel folle passato alternava il consumo di droghe alla messa quotidiana, per cercare un "folle equilibrio", così la concordia oppositorum è cercata, inseguita, corteggiata in ogni manifestazione dell'autore: il culto del proprio ego (fiamma necessaria ad alimentare l'incendio della rockstar) è bilanciato dal terrore dello smarrimento della propria identità; l'evidente autocompiacimento è sfumato da una costante autoironia; gli eccessi osceni sul palco sono il rovescio di una silenziosa introversione.
Illuminante il paradosso di Cave che legge auto-ironicamente il proprio testamento, redatto da giovane non ancora famoso, in cui dispone di lasciare tutto al Nick Cave Memorial Museum, e irride  quella sua egoica fantasia giovanile...ma lo fa all'interno del proprio archivio ufficiale: ancora una volta la trasfigurazione della memoria, come realizzazione nel presente.
Cave è diventato quello che ha sempre voluto essere: qualcun altro.
Proprio in questo, ha manifestato pienamente la propria personalità.
Diventa, dunque, se stesso proprio attraverso la trasfigurazione.
Pur dichiarando l'importanza esistenziale, quasi ontologica della memoria ("la memoria è ciò che siamo", dice, la sua più grande paura è smarrirla), pur essendo la narrazione fondata sul rapporto col passato, in realtà il racconto affronta il vivo divenire attuale.
Il film testimonia il presente dell'autore, la difficile maturità infestata da demoni antichi, il precario equilibrio inseguito nel "qui e ora", dopo i vent'anni di delirio infernale che ha riversato in una discografia straordinaria.


La perenne lotta tra Bene e Male (come nelle rappresentazione medievali) è in ogni accenno, parola, ricordo: la grazia narrativa con cui Cave ci affabula redime ogni sconcezza, come nel delizioso aneddoto punk dell'orinatore sul palco, o nel racconto degli anni schizofrenici di Berlino.
Come Chris, il vicino di casa  berlinese che aveva costruito la sua camera a guisa di un tempio natalizio, ma che luci spente diveniva un santuario d' immagini pornografiche d'antan, in maniera inversamente proporzionale Cave ci mostra il risvolto positivo della sua vita, il rovescio dell'altarino satanico eretto per vent'anni con la sua arte.



Per chi conosce i testi, con rigore filologico, appare ancora più evidente, esposto, il gioco di contrasti, composto da nunerose allusioni, richiami interni, autocitazioni e autoparodie.
Le immagini, paradossalmente sconvolgenti, di Cave che mangia la pizza guardando la tv con i figli sono accostate all'esecuzione dal vivo di Stagger Lee, forse il brano più violento e osceno del cantautore, circondato da groupies in adorazione.
Ma, per quel che ci riguarda, non  c'è contraddizione, né agiografia auto-assolutoria (come il nostro stimato amico Mauro Uzzeo, col quale condividemmo l'esperienza del grandioso concerto romano, ha lamentato): è appunto la trasfigurazione il gioco proposto. Ma, attenzione, non è banale: Cave si trasfigura in un demone, in uno stupratore, in un emissario di Satana (come disse scherzando ripensando ai Birthday Party) per poi ri-trasfigurarsi nel benevolo padre di famiglia, e così via in un circolo psichicamente vizioso e artisticamente virtuoso fino alla santità.
Un circolo di menzogne? L'autenticità è proprio nel mostrarlo.
Lo dice benissimo Blixa Bargeld, figura geniale, nella sua breve apparizione (i pensieri e i ricordi di Cave si materializzano come dialoghi con gli effettivi compagni di viaggio del passato).

Cave, come tutti i personaggi delle sue canzoni, è intimamente dostoevskijano: esplora il Male fino alla bestemmia per poi trovarci squarci accecanti di luce, che diventano commosse, impossibili preghiere atee (Into my arms, Oh Lord, As i sat sadly by her Side).



Sommamente dostoevskijano è il protagonista di Jubilee Street: la trasfigurazione, ancora, trionfale è quella dell'assassino vigliacco che uccide la prostituta perché scopre che il suo nome era nel diario della ragazza. Un Raskolnikov senza redenzione, che s'illude di averla scampata.
Da qui, la quasi demente ebbrezza che Cave simula sul palco.




Qui, ad esempio la scelta di non sottotitolare anche i testi delle canzoni fa smarrire un inside joke che pochi hanno colto: l'esibizione del brano è introdotta da uno splendido monologo che inizia "la canzone è eroica perché affronta la morte, è immortale...", e termina dicendo che un giorno la canzone, spera, gli insegnerà a "uccidere il dragone".
Bene, l'esibizione è registrata all'Opera House di Sydney.
Ora, non solo le celebri vele danno all'edificio la forma di un dragone, come a volte viene indicato dai locali. Ma per Nick Cave, osteggiato e ignorato nella sua patria per anni (l'ultimo album è stato il primo a divenire n.1 dopo una carriera di successi internazionali), nemico della sua patria fino ad essere fiero di essere definito "Australia's Nightmare" (nel senso di incubo per l'Australia), quel luogo, simbolo architettonico del suo Paese, è il dragone da uccidere.
Il tempio da profanare.
La trasfigurazione è completa: il cantante che urla "Look at me now!", celebrando la salvezza di un assassino con un coro di bambini e l'orchestra classica in uno dei luoghi simbolo della musica colta nel mondo, non sta solo rivendicando il proprio successo al pubblico di casa, una volta ostile.
Sta esponendo la propria possessione, il proprio dolore, da figliol prodigo, non pentito ma fiero di aver abbracciato la sua Ombra.
Guardatemi ora, sono una delle rockstar più  famose del mondo, sono un assassino libero,sono un uomo che soffre, sono un poeta, verrebbe da aggiungere evocando i celebri versi baudelariani, "ipocrita lettore - mio simile - fratello!".



In calce al film potrebbe esserci il più famoso dei Proverbi Infernali del nostro amato William Blake: "La Via dell' Eccesso conduce al Palazzo della Saggezza".
Un aforisma splendente, e frainteso, tratto tra il Matrimonio di Cielo e Inferno. 
Del quale matrimonio Nick Cave è il meraviglioso figlio bastardo.


                                          


Non a caso, il monologo finale (che invero può apparire artefatto se non si coglie il senso del gioco trasfigurativo) svela  le carte: il cantore dello stupro e della necrofilia, il demone incarnato, colui che è riuscito a portare su Top of the Pops un brano che aveva come messaggio "Tutta la Bellezza deve morire", si rivela portatore di una saggezza eterna, che dalla Bhagavad Gita passa per il III canto dell'Inferno di Dante (quello degli ignavi).
E come in un meraviglioso racconto di I.B. Singer, come nelle pagine più luminose di Blake, C.S. Lewis o Chesterton, l'ultima parola, che chiude la testimonianza sulla lotta interiore dell'artista con i suoi demoni, è il senso della vita: gioia.









lunedì 1 dicembre 2014

TUTTI GLI ARTICOLI DI NOVEMBRE



Novembre, la "Norvegia dell'anno" secondo la sublime Emily Dickinson, ci ha donato una messe ricca e varia.
Crediamo davvero di non avervi annoiato, ma per i lettori distratti ecco le prove di questa affermazione apparentemente così presuntuosa.
Forse, la nascita in questo mese di William Blake, il santo protettore del blog, ha propiziato tale gioiosa produttività.



Su Fumettologica, complice la frenetica tre giorni di Lucca Comics & Games, è stato un mese straordinario:

- Iniziamo con una delle interviste più interessanti e prestigiose della nostra breve e rocambolesca carriera: quella a Brian K.Vaughan, autore di alcune delle puntate migliori delle stagioni più riuscite di Lost. Per noi, dunque, quasi un eroe omerico. La conversazione, centrata sulla potente trilogia Saga disegnata da Fiona Staples,  l'abbiamo condivisa con Evil Monkey,  critico attento e arguto, e la trovate QUI



- La seconda intervista è un ibrido trionfante tra la chiacchierata fra due amici e la celebrazione di una vittoria: le riflessioni, a freddo, di Tuono Pettinato, la persona probabilmente più gentile dei tre lokas, sulla sua ultra-stra-mega -oltremeritata vittoria del Gran Guinigi come Autore Unico QUI



- La terza è la materializzazione di un sogno: quando nell'adolescenza mi dilettavo con le avventure dei Freak Brothers, mentre i vetusti mangianastri (eh, si, siamo invero adulti) amplificavano i blues disperati di Janis Joplin o le cattedrali psichedeliche dei versi dylaniani...beh, non mi sarei mai aspettato di raccogliere aneddoti su di loro proprio dall'autore di quelle dilettevoli avventure: Gilbert Shelton! Ecco QUI



- Siamo entrati nello studio di Toni Alfano, autore di Pompei, uno dei libri più interessanti usciti nell'anno. La visione della sua libreria mi ha svelato il perché della fascinazione che l'autore esercita sul sottoscritto: la compresenza di miei auctores (quali Céline), pensatori di riferimento assoluto (Jung in primis), testi per me letteralmente sacri (come l'immortale compendio di saggezza noto come Tao Te Ching) accanto a miei dichiarati "nemici" spirituali: il cialtrone affascinante Jodorowsky (ne parlammo qui) e uno criminale che nemmeno voglio nominare su queste colonne consacrate a Blake. Questa compresenza di profonde connessioni e divergenze della ricerca è certo un grande magnete intellettuale. Ecco QUI


- Una conversazione profonda su temi cruciali con Paco Roca, su I solchi del Destino, che come ha scritto Alessio Spataro, è "inaccettabile che non sia libro di testo scolastico". Uno sguardo colto e appassionato sulla stagione straordinaria e tragica della guerra civile di Spagna del '36. Soprattutto, sulle sue devastanti conseguenze QUI



 - Una delle interviste indubbiamente più prestigiose che abbia mai avuto il piacere di ottenere: Jutta Bauer, un premio Andersen, praticamente un Premio Nobel per la Letteratura per ragazzi. Una conversazione breve ma colma di saggezza: splendide le sue riflessioni sul potere dell'innocenza e sulla pura creatività dei bambini, QUI



- Proseguiamo con Enrique Fernandez e il suo I Racconti dell'Era del Cobra: ben più di un raffinato pastiche  una narrazione rocambolesca, pregna di citazioni e capovolgimenti di scena. Esploratela QUI




- La chiacchierata divertita e colta con Squaz, in cui menzioniamo l'amico Don Pasta (QUI) e svisceriamo i tanti spunti del suo ultimo, adorabile volume L'Eredità QUI




Sul blog che state leggendo è iniziata l'annunciata svolta, che ci condurrà a virare sempre più sui temi prediletti della ricerca filosofica e della letteratura, pur contaminata con altre forme artistiche quali il cinema, la musica o il fumetto.

- Abbiamo iniziato col riassunto del mese precedente QUI (non perdetevi il racconto del concerto romano di Morrissey QUI)

- Vi abbiamo raccontato le nostre impressioni su  La Cura Schopenhauer di Irvin Yalom QUI



- Abbiamo speso meritate lodi per Alessandro Ponticelli e il suo irrespirabile Blatta QUI



- Abbiamo detto la nostra su Il Giovane Favoloso di Mario Martone, omaggio necessariamente impossibile al nostro ammirato Leopardi QUI



Per Dicembre c'è già tanto materiale pronto a uscire dall'impalpabile limbo delle potenzialità.
Speriamo di elargirvi degne strenne
Buona Lettura!


lunedì 24 novembre 2014

Il Giovane Favoloso di Mario Martone - una sfida impossibile



Anche per un regista serio e preparato come Mario Martone, realizzare un film biografico su Giacomo Leopardi (la più alta voce poetica italiana di tutti i tempi dopo Dante Alighieri, oltre che forse il nostro più grande filosofo moderno) rappresenta di fatto una sfida impossibile.
Troppi, mastodontici, insormontabili sono gli ostacoli che occludono un itinerario sereno e diretto, una visione limpida e illuminata dell'essenza esistenziale dell'immenso autore, tuttora ignorato, nella sua oceanica profondità, dai più. Brevemente, osserviamo i più evidenti: da un lato restituire cinematograficamente la complessità biografica di una vita che solo uno sguardo superficiale potrebbe additare come monotona, mentre al contrario fu rocambolescamente nomade; e non ci riferiamo solo alle abissali esplorazioni interiori del poeta, ma proprio alla serie fortunosa, improvvisata, quasi picaresca di spostamenti, traslochi, peregrinazioni, sostenuti in condizioni fisiche sempre più cagionevoli e in quasi completa indigenza.
Ancora, ben più arduo cimento, è affrontare il gigante Leopardi dovendo scrostare due secoli di luoghi comuni scolastici beceri e triviali, di etichette orrendamente superficiali e, proprio per questo, di immediata presa sulle menti comuni.


 Soprattutto, accostarsi a Leopardi (non all'autore, proprio alla persona) significa dover trattare la materia più delicata e preziosa che esista: la sensibilità, sublime e fragilissima, di un poeta siderale e tremendo, che ha accolto nella sua carne le sofferenze ontologiche dell'intera umanità.
Un tentativo non molto distante dal mostrare un diamante rarissimo camminando su un filo a cento metri d'altezza: le possibilità di mandare in frantumi il prodigio di bellezza sono talmente elevate da indurre al tentativo solo un incosciente. Oppure un invasato d'amore, talmente folgorato dallo splendore del prodigio,  da esser disposto a rischiare la rovina, propria e dell'oggetto, pur di mostrarlo alla massima altezza, per consentirne la  migliore visione a tutti.
Leopardi è, assieme a Baudelaire, la voce poetica più alta e universale dell'Ottocento europeo (per tacere di William Blake, che collochiamo fra i profeti mistici).
Soprattutto, è un pensatore dalla lucidità spietata e inesorabile, una mente sconfinata, in grado di vedere profeticamente la china irrimediabile della decadenza moderna: "Di questa età superba,/ Che di vote speranze si nutrica,/ Vaga di ciance, e di virtù nemica;/ Stolta, che l'util chiede,/E inutile la vita/ Quindi più sempre divenir non vede".
Impossibile accostarsi alla fiamma del suo genio senza bruciarsi.


Chiariamo subito: il film merita onore per i molti, rari pregi del cinema martoniano, applicati col massimo della cura alla materia trattata. Il film è rigorosissimo, filologicamente maniacale, molto accurato nelle ricostruzioni storiche, facendo trapelare un rispetto quasi sacrale della figura leopardiana.
E di questo siamo grati.


La selezione degli attori (si, quella che con pigra arrendevolezza linguistica chiamiamo spesso casting) è a tratti definitiva: folgorante Silvia (Gloria Ghergo, nel suo innocente splendore, sembra l'incarnazione dei versi "beltà splendea/ negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi"), impeccabile il da noi sempre apprezzato Sandro Lombardi nei panni di Don Vincenzo, fredda e tremenda la madre interpretata da Raffaella Giordano, convincente il Pietro Giordani reso da Valerio Binasco, potente Paolo Graziosi come lo zio oppressivo, fedele e credibile la Fanny Targioni Tozzetti di Anna Mouglalis.

Gloria Ghergo nei panni di Teresa Fattorini, la Silvia leopardiana
Cenno a parte meritano i veri coprotagonisti: nella prima parte, notevole Massimo Popolizio nel restituire il complesso rapporto della figura paterna col figlio geniale (da un lato grande onore e affetto, dall'altro ossessiva brama di controllo); nella seconda, Michele Riondino ci presenta un Antonio Ranieri forse troppo "bello e tenebroso", ma crediamo che, in un'opera così ragionata, l'antinomia fraterna col poeta sia stata indicata dal regista, non sia frutto capriccioso dell'attore.
E il protagonista? Ci leviamo il cappello (intendiamo una tuba di quelle lunghissime) davanti ad Elio Germano, la sua interpretazione è prodezza di pudore e sensibilità. Ogni movimento potrebbe diventare macchietta, stereotipo, sfregio; ogni verso, celeberrimo, recitato una profanazione, uno stupro culturale, un marchio vergognoso. E invece, supremo è l'equilibrio, tra commozione e profondità, tra adesione mimetica e invenzione attoriale.
Una prova che definitivamente sancisce l'ingresso di Germano tra i grandissimi attori.



Affrontiamo ora, però, gli ostacoli di cui prima abbiamo accennato.
Come qualsiasi tentativo biografico, l'autore è costretto a tagliare, a scegliere, ad enfatizzare un aspetto e a trascurare altri.
Parlando di un autore dalla produzione sterminata, e tutta fondamentale, ogni scelta, direbbe Kierkegaard, porta angoscia.
Chi scrive ha tributato subito il suo dazio di lacrime al primo verso de La sera del dì di festa, "Dolce e chiara è la notte e senza vento...", sfogando emotivamente la profonda empatia con uno dei suoi prediletti auctores, potendo così poi osservare con maggiore distacco critico l'opera.



Incomprensibile, come da molti segnalato, l'utilizzo di una colonna sonora moderna (del dj berlinese Sacha Ring, pur premiato a Venezia) per sottolineare i versi sublimi ed eterni de L'Infinito. Stridente, in particolare, nella scena in cui il poeta scopre il rifiuto ipocrita della Tozzetti, fugge in lacrime, inciampa e singhiozza disperato. Scena straziante, resa magistralmente da Germano, amplificata da un intelligente movimento di camera.  Grande intuizione, il poeta dilaniato dalle sofferenze, accanto alla Natura indifferente, il silenzio l'avrebbe resa indimenticabile. Perché aggiungervi un moderno lamento soul? Perché non Chopin o, ripeto, i "sovrumani silenzi" cantati dal poeta? Straniamento brechtiano? Forse, i limiti dell'impostazione "civile" di Martone, che gli conferiscono il grande dono del rigore, in questi casi affiorano nel loro tentativo di cercare il "contatto" col pubblico.


A questo riguardo, è encomiabile invece come il regista si sia svincolato dai gangli della critica marxista, per darci una visione filosoficamente più complessa  del poeta. Se parte della visione eroica e protestataria del giovane Leopardi è certo figlia del famoso saggio di Cesare Luporini (Leopardi progressivo), Martone non lesina il sarcasmo dell'autore verso i progressisti liberali, sbeffeggiati nel testamento poetico dai versi stentorei ispirati dal panorama desertico del Vesuvio: "Dipinte in queste rive/ Son dell'umana gente/ Le magnifiche sorti e progressive".
Due volte Martone fa ribadire a Leopardi la sua comunanza con la visione degli orientali, distintamente gli indiani. Impossibile non pensare alla clamorosa coincidenza di date e idee con Schopenhauer (a cui abbiamo dedicato QUI alcune considerazioni), ma ancor più difficile appare negare il valore de L'Infinito come specchio perfetto di una meditazione sul non-dualismo.



Comprensibile, invece, la scelta, comunque coraggiosa, di affrontare subito il totem della "siepe", di far recitare, nell'ispirazione a voce alta, le tre poesie forse più celebri, o di menzionare le più note tra le lettere e le Operette Morali. Certo, vedere il Canto notturno di un pastore errante nell'Asia (forse la vetta poetica della letteratura italiana moderna) ridotto ad esser citato in un dialogo su un ponte fiorentino con Giordani ci ha stretto il cuore. Ma comprendiamo la necessità di scegliere un itinerario narrativo, necessariamente manchevole e arbitrario in un'opera non seriale.
Veniamo, dunque, alle scene più controverse e coraggiose del film.


In primo luogo, sontuosa è la citazione del Dialogo della Natura e di un Islandese: per quanto ci discostiamo dalla facile lettura freudiana che identifica la madre del poeta con la Madre Natura, la resa è maestosa. Non solo, la scelta restituisce piena giustizia alla posizione filosofica di Leopardi che (come ha spiegato in un saggio fondamentale, Dio in Leopardi il grande intellettuale contemporaneo Giovanni Casoli) non si limita al freddo ateismo dei philosophes illuministi, ma diventa una titanica rivolta antiteistica, come il grandioso, e poco conosciuto, Inno ad Arimane testimonia.



Molto si è discusso, invece, sulla veridicità dell'episodio, umiliante e beffardo, con l'ermafrodito nei bassi napoletani: Martone si esalta nella rappresentazione della sua Napoli, vitale, carnascialesca, ribollente Suburra di vizio e umanità. Lo sguardo, che qui si fa quasi pasoliniano, redime ogni volgarità: è vero che gli scugnizzi bersagliavano di crudeli lazzi il povero poeta, è comunque di grande pudore, nel grottesco, l'approccio tragico del poeta al peccato misterioso della lussuria.

                                      

Alto compendio della vicenda esistenziale leopardiana è il finale, affidato ai versi sublimi de La Ginestra. Mentre il poeta enuncia le sue terribili eterne verità, lo sguardo di Martone esplora le desolazioni desertiche del Vesuvio, la pietrificata morte di Pompei, fino a condurci nel mistero annichilente del silenzio cosmico.
Una scena a livello di un finale di Tarkovskij.
Elio Germano si fa maschera tragica, visione stentorea dello sguardo poetico sull'abisso.
Ricorda il volto indimenticabile e quasi intollerabile dell'ultimo Nietzsche.


Una vetta attoriale che, crediamo, non sarebbe stata sgradita a Carmelo Bene (non a caso unica voce dei Canti nella nostra nota).
Dunque: la sfida impossibile è inevitabilmente persa. Ma, proprio come insegnano i versi leopardiani, già il tentativo, disperato, eroico, necessariamente fallimentare, merita ben più degli onori veneziani, il Leone d'Oro a Martone e il Premio Pasinetti a Elio Germano.
Merita rispetto e gratitudine.
Il tributo degno dei veri artisti.


venerdì 21 novembre 2014

BLATTA di Alberto Ponticelli - l'inferno come destino sociale


Tutta, o quasi, l'arte del Kali Yuga è arte della nigredo.
Se dovessimo chiarire il concetto  a lettori non avvezzi al linguaggio esoterico, tradurremmo: tutta, o quasi, l'arte dell'ultimo secolo (periodo di grande confusione morale e progressivo smarrimento ideologico) è arte del dissidio, dell'esilio, della lacerazione, della disarmonia.
Tutti, o quasi, i grandi geni del Novecento, in ogni ambito artistico, sono stati in primo luogo testimoni del Nulla, cantori del fallimento, profeti della Morte, ossessivi talmudisti della mancanza di senso. Con accenti, toni e ispirazioni diverse, tutti maestosi monumenti al pessimismo più fosco.
 In letteratura, da Joyce a Beckett, da Céline a Fitzgerald a Kafka, in primo luogo: una magistrale esplorazione dello smarrimento di sé. Nel cinema, da Hitchcock a Kubrick, da Lynch a Polanski a Lars Von Trier: geni differenti, che condividono però uno sguardo spietato, crudele, implacabile sull'abisso di nequizie dell'animo umano. L'arte figurativa e la musica classica , con l'avvento di per sé destinato all'anacronismo delle avanguardie, hanno spalancato la porta dell'inferno, o meglio del subconscio, delle dissonanze, dell'impossibilità di visione (da Munch a Bacon, da Schöenberg a Luciano Berio). Nell'ambito della musica popolare, l'atmosfera è talmente intrisa di negatività, di compiacimento satanico e celebrazione del Male, da far proporre più volte addirittura la candidatura al Premio Nobel per uno dei pochi cantori universali, affrancati dal morbo collettivo di negazione esistenziale. Ci riferiamo ovviamente a Bob Dylan, che della presenza del Male fa spunto di ricerca gnostica (come dice il suo ammiratore Guccini: "la giostra dei miei simboli fluisce uguale per trarre anche dal male qualche compenso"). In filosofia tutto ciò è stato sistematizzato fin troppo: da Sartre a Ciorian, fino alle derive post-strutturaliste, registrando tardivamente ciò che l'arte aveva già intuito e manifestato (come dice il mio non amato Hegel in un'affermazione invero illuminante: "la filosofia arriva sempre troppo tardi...la nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo").
Restringendo il discorso al perimetro del fumetto italiano attuale, questa visione allucinata del reale, questo iperrealismo tetro e delirante, eppure tragicamente rivelatore, ha i suoi moderni maestri: Akab ne è il più potente creatore di icone, Maicol il più geniale aforista, Ratigher il narratore più efficace.
In questo indirizzo, con autonoma personalità autoriale, si iscrive pienamente Alberto Ponticelli con Blatta (ristampato recentemente da RW Linea Chiara).



Raramente atmosfere simili, di orrore distopico, ci colpiscono o attraggono*.
Ma il libro di Ponticelli ha il carisma nero di un monolite visivo, piantato come una tomba su ogni possibile speranza nell'umanità.
Saranno state forse le circostanze della prima lettura ad amplificare l'impatto devastante dell'opera sulla mia sensibilità. Ultimo giorno del Comicon, città di Napoli paralizzata dai festeggiamenti per la Coppa Italia: dopo esservi giunto a piedi, dribblando bombe artigianali e  prostitute nigeriane coi volti dipinti d'azzurro (somma tristezza, tingere di festa altrui la propria schiavitù), mi sono barricato nella Stazione Centrale, divorando il libro mentre centinaia di tifosi impazziti provavano a buttare giù a calci le vetrate, armati di mazze a volto coperto.
Circostanze indubbiamente peculiari, quasi un corollario vivente dell'assunto dichiarato in quarta copertina: "l'uomo non è in grado di gestire la propria libertà".
A una attenta rilettura, avvenuta dopo mesi in un ambiente sicuramente meno singolare, Blatta non cede nulla in potenza d'urto interiore.


Il libro è l'epitaffio su ogni delirio laicista riguardo le "magnifiche sorti e progressive" della tecnocrazia: l'immortalità ("per un laico la massima espressione dell'affermazione della vita"  fa dire Corrado Guzzanti a Padre Pizarro, in una delle sue più geniali invenzioni satiriche) diventa un sempiterno inferno. Senza rivelare nulla al lettore interessato, Ponticelli ci cala in una distopia, più che orwelliana, ultra-huxleyana, in cui la condizione umana è ridotta al nulla automatico, ben oltre qualsiasi incubo kafkiano o beckettiano. Qualsiasi possibile rivolta è stroncata in una reincarnazione coatta, qualsiasi impeto della volontà annullato in un impermeabile esistenza meccanica.
L'anomalia del Sistema (rappresentata, appunto da una blatta, l'insetto più ripugnante diventa simbolo e porta di un'impossibile libertà) conduce a un ulteriore straniamento, a una ancor più annichilente consapevolezza.
Ponticelli implacabilmente inchioda l'uomo alla sua nuda miseria animale, qualsiasi tentativo di ricostruzione sociale, di ritorno a una purezza edenica è travolto dal male divenuto Macchina, Sistema, Espropriazione dell'Identità.
Il condominio di Polanski de L'Inquilino del Terzo Piano, che congiura contro l'identità dell'individuo fino a condurlo allo smemoramento schizofrenico di sé, è divenuto l'intera umanità.
Il finale, sospeso, tra fuga e dissoluzione, abbandona il lettore alla più desolata contemplazione del nihil ontologico.
Per chi, come chi scrive, abitualmente si nutre della luminosa saggezza di Chesterton, delle illuminazioni di Tolstoj e delle visioni mistiche di Blake, riconoscere il valore di un'opera simile credo equivalga a conferire una medaglia artistica.




*Consentitemi una brevissima digressione: ho letto Debbi la strana di Paolo Di Orazio .
È un libro estremo, tremendo, a tratti intollerabile. Ogni pagina vomita incubi tragicamente plausibili, che invadono il subconscio del lettore come barbari infoiati assalirebbero un monastero. Tutto il Male del Mondo trasuda dalle righe acide e assordanti che compongono il racconto, ossessive e sfregianti come un rosario blasfemo.
Io che non sopporto lo splatter, e disprezzo il porno, non mi sento di consigliarlo a nessuno a cui voglia bene. Per i miei parametri, la censura scatterebbe alla seconda pagina.
Ma voi, e so che siete tanti, che amate questi generi, che siete cresciuti con Stephen King e Clive Barker, che adorate Lovecraft e vi nutrite di sguardi sulla negatività, non avete alternative: incoronate Paolo come Re d'Italia.
Per stile, profondità e spietatezza, non ha eguali...