giovedì 27 dicembre 2018

Jazz e altre visioni - in memoria di Gianni Amico



Oggi sarebbe stato l'ottantacinquesimo compleanno di Gianni Amico, il grande agitatore culturale scomparso (proprio nel giorno dedicato ai morti, come Pier Paolo Pasolini) nel 1990.

Gianni Amico è una figura a cui ispirarsi.

Protagonista della esaltante stagione culturale degli anni'60 e '70 (fino ai primi '80, prima che la cultura popolare venisse dominata dall'ossessione commerciale), Amico è stato amico (un bisticcio costante nelle sue biografie, mantrico e rivelatore della sua profonda empatia) ispiratore e collaboratore di alcune delle più grandi menti cinematografiche del Dopoguerra: Bernardo Bertolucci (col quale scrisse Prima della la Rivoluzione e Partner), Jean-Luc Godard (del quale fu aiuto regista in Vento dell'Est e che gli dedicherà il capitolo italiano di Histoire(s) du cinéma), Glauber Rocha (uno dei pochi registi stimati da Carmelo Bene, col quale il Nostro ha scritto Il leone a sette teste).
 
                                                 

                                                     
Basti pensare che nel 1960 con il padre gesuita Angelo Arpa ha ideato e organizzato la Rassegna Internazionale del Cinema Latinoamericano di Santa Margherita Ligure.
Parteciparono i più grandi registi sudamericani emergenti dell'epoca: Glauber Rocha, Fernando Birri, Nelson Pereira dos Santos, Tomás Gutiérrez Alea.
Per comunicarvi l'importanza dell'evento, fu la prima volta che si ruppe l'isolamento diplomatico di Cuba, grazie al suo invito in Italia delle autorità cubane.
                                             
Amico è stato determinante per portare in Italia alcuni dei pilastri dell'immaginario collettivo: la novelle vague (le collaborazioni con Godard non sono casuali, il suo stile documentaristico era perfettamente in linea con la rivoluzione dei francesi), il jazz (il suo Appunti per un film sul Jazz è un gioiello pionieristico sul Festival di Bologna del 1965 con esibizioni di Gato Barbieri, Steve Lacy, Don Cherry e Mal Waldron) e la musica brasiliana (organizzò nel 1983 a Roma il grande evento musicale Bahia de todos os sambas, allestito al Circo Massimo nell'ambito delle iniziative dell'Estate Romana, con nomi quali Gilberto Gil, Caetano Veloso, Gal Costa, Naná Vasconcelos e João Gilberto).


                                   
Importanti anche i suoi documentari e film tv per la Rai verso la fine degli anni'70, in cui emerge tutta la sua grande passione politica (Lo specchio rovesciato. Un'esperienza di autogestione operaia, Your love is like the sea, L'inchiesta, Ritorno, Le cinque stagioni, Le affinità elettive, Giovani, donne, fabbrica), testimonianze esemplari di come uno sguardo artistico potesse essere messo al servizio di una ricerca sociologica e di una esplorazione approfondita del reale.
Lo sguardo di Amico è anche presente nel documentario collettivo L'addio a Enrico Berlinguer del 1984.


                           

Per sottolineare l'importanza del regista genovese basterebbe dire che Gato Barbieri a Bertolucci lo presentò lui: senza di lui non avremmo avuto una delle colonne sonore più belle della storia (per quello che mi riguarda, l'unica cosa che amo di Ultimo tango a Parigi).
Ricordiamo anche che il suo Tropici fu il primo lungometraggio prodotto dalla Rai.


                                     


Ecco qui un video che testimonia un incontro del 2015 al Cinema Trevi, appunto intitolato Un uomo chiamato Amico (Gianni),moderato da Bruno Torri con Olmo Amico, Francesca Archibugi, Nino Castelnuovo, Enrico Ghezzi, Marco Giusti, Germano Maccioni, Elio Rumma, che ben riassume il valore dell'opera di Gianni Amico.


                                             

L'incontro era l'occasione per presentare il bel dvd Jazz e altre visioni, raccolta di tre brevi folgoranti film di Amico che offrono un ritratto necessariamente parziale ma comunque esauriente dello straordinario eclettismo dell'autore:
Noi insistiamo! Suite per la libertà subito, del 1964, è fin dal titolo ispirato da We insist! Freedom Now Suite di Max Roach, storico disco manifesto del Free Jazz e del nascente Movimento per i Diritti Civili. Amico impone in maniera spietata allo spettatore lo spettacolo brutale della barbarie razzista.
Andrebbe proiettato in tutte le scuole, al giorno d'oggi.



                                         

Il secondo film è appunto Appunti per un film sul Jazz (1965): meraviglioso nel suo cogliere l'atmosfera straordinaria del fermento musicale di quegli anni. Amico mostra i jazzisti non solo sul palco, ma li segue nei loro incontri dietro le quinte, nelle improvvisazioni concordate con pochi cenni, nel miracolo del duende che li possiede nei momenti più felici.
Bellissime le parole raccolte dalla viva voce di Don Cherry: "La musica non appartiene a nessuno, non ha prezzo. Lo scopo di tutta la musica...È come ai vecchi tempi, quando la gente lottava per il cibo.La gente lottava per il cibo, ma si riuniva per cantare, per cantare e suonare. Secondo me questo è il vero scopo della musica. Ma gli esseri umani spesso vogliono possedere la musica. Però gli uccelli avevano la musica prima di noi. Quindi non appartiene a noi. Io penso che la musica sia l'unica vera prova che dimostra l'esistenza dello spirito, perché è una cosa che non puoi vedere, né toccare".
La potenza e la semplicità di un testo sacro indiano.


                                         

L'ultimo contributo è Il cinema della realtà (1969), interessantissimo approfondimento sul neorealismo, con interviste a nomi quali Rossellini, De Sica, Zavattini, Antonioni, Pasolini e Bernardo Bertolucci.
Come descritto nel video precedente, Amico era davvero in grado "di unire Gramsci a John Coltrane, Socrates a Jung, Godard a Glauber Rocha", "un visionario affascinato dal potere rivoluzionario degli choc culturali".
Il dvd si conclude con il contenuto extra L'uomo Amico, documentario di Germano Maccioni, da un'idea di Olmo Amico, con interviste inedite a Bernardo Bertolucci, Tatti Sanguineti e Stefano Zenni.

QUI dal minuto 20 (dopo una rara e potente intervista a Carmelo Bene) ci sono bellissime testimonianze di Gilberto Gil, Caetano Veloso e Bernardo Bertolucci.

                                                 


 Potremmo concludere con un ricordo Roberto Benigni (quando era ancora un adorabile fool shakespeariano e non una suora progressista), ma scegliamo questo splendido omaggio di Glauber Rocha al cinema (e a Gianni Amico):

L'innocenza di Lumière
La scenografia di Méliès
La grandezza di Griffith
La dialettica di Ėjzenštejn
La poesia di Renoir
La forza di Welles
L'invenzione di Godard
L'irriverenza di Buñuel (più il romanticismo)
Il sentimento di Visconti, di Bernardo l'amore
L'intuizione di Rossellini, di Gianni il rigore...

domenica 16 dicembre 2018

Marco Cavalcoli: essere Paolo Poli, David Bowie e Djagilev


Marco Cavalcoli nei panni di Sergej Djagilev


Uno degli spettacoli più particolari a cui abbiamo assistito nel 2018 è Santa Rita & The Spiders from Mars: il doppio omaggio a David Bowie e Paolo Poli (in occasione della bella mostra al Teatro Valle dedicata a quest'ultimo), di cui abbiamo diffusamente parlato nel mese di Ottobre QUI e QUI.



Lo spettacolo è tornato in scena, sempre a Roma, al Brancaccio e vi rimarrà fino al 23 Dicembre.

Nel frattempo, abbiamo potuto vedere il protagonista Marco Cavalcoli in scena, in un altro spettacolo, completamente diverso per spirito, struttura e approccio (anche se condivide l'idea di omaggiare una grande icona della cultura).

                                             

Stiamo parlando di Serge, tributo alla parabola straordinaria del geniale impresario Sergei Djagilev  andato in scena il 20 e 21 Novembre alla Sala Petrassi dell'Auditorium Parco della Musica di Roma all'interno dell'interessante rassegna Romaeuropa.
L'importanza di Djagilev nella musica del Novecento è determinante: in un certo senso, egli è l'inventore dei Balletti Russi, ha lanciato leggende della danza come Anna Pavlova e Vaclav Nijinskij, ha collaborato con Picasso, ha commissionato opere a  DebussyRavelSatieProkofievDe FallaRespighiPoulenc; soprattutto, è stato l'impresario e il committente delle opere più famose di Igor Stravinskij.


Djagilev fu una figura dal carisma straordinario, un dandy luciferino dal fascino arcano e dall'invincibile potere di seduzione.
Balletti Russi furono una ventata sconvolgente di grazia e provocazione, bellezza e sensualità, trasgressione ed eleganza.
Djagilev divenne un'icona di stile.
Basti pensare ad una semplice nota di costume: le spese delle sue esequie veneziane (Djagilev riposa nel cimitero monumentale dell'Isola di San Michele, accanto al suo sodale Stravinskij, a Josif Brodskij e a Ezra Pound) furono interamente sostenute da Coco Chanel.



Veniamo allo spettacolo.
Lo spettacolo è esaltante. E terribile.
 È uno degli spettacoli più strabilianti che abbia visto in vita mia. Non è per niente riuscito.
Ci sono momenti di pura estasi estetica. Ci sono momenti in cui volevo salire sul palco e fermare tutto.
È un'opera di straordinaria cura filologica. È un'opera incomprensibile per la maggior parte del pubblico.
Cavalcoli in scena è perfetto. È sprecato per una parte così.
Lo vorrei rivedere più volte. Più volte durante la visione volevo alzarmi e andarmene.

Sono preda di un improvviso disturbo bipolare?
No, no, sono lucidissimo. E posso spiegare tutto.



Lo spettacolo è così de-strutturato: Cavalcoli entra in scena nei panni di Djagilev, in divisa da dandy, frac e cappello a tuba.
 Sulla scena solo un pianoforte, e alcuni strumenti di orchestra appesi per aria; inizia una fase surreale intollerabilmente lunga in cui Cavalcoli accorda il pianoforte (l'attore ha preso appositamente lezioni di accordatura!), creando un'atmosfera straniante grazie agli effetti di risonanza amplificati dal sound designer Hubert Westkemper.
Entrano progressivamente in scena, evocati dalle accordature di Cavalcoli, sette musicisti, sette incarnazioni spettrali in kimono (omaggio a Nijinskij) sui quali discendono dall'alto gli strumenti: 2 violini, 2 viole, 2 violoncelli e un contrabbasso.
Inizia lo "spettacolo" vero e proprio: il tappeto musicale è composto (idea geniale quanto al limite dell'inaccettabilità per gli appassionati ortodossi) da L'après-midi d'un faune di Debussy, strecciato elettronicamente per 72 minuti.


Su questa base irreale come un sogno inquietante, agiscono i sette musicisti più Cavalcoli che rimane come una muta marionetta, apparendo a un certo punto col volto deformato da un enorme lente, a metà tra una visione di Magritte e un incubo di David Lynch.
La parola chiave è caleidoscopio: visivo, sonoro, concettuale.
Non a caso l'ensemble musicale in scena si chiama Solistenensemble Kaleidoskop, composto da Paul Valikoski (violino), Mari Sawada (violino), Ildiko Ludwig (viola), Yodfat Miron (viola), Michael Rauter (violoncello), Ulrike Ruf (violoncello), Clara Gervais (contrabbasso).
Ora, perdonate il mio entusiasmo da profano (che è causa della reazione uguale e contraria ispiratami dallo spettacolo) ma mi è apparsa semplicemente memorabile la performance della piccola orchestra: per 80 minuti suonano, danzano, si incrociano, saltellano, alludono, ammiccano, compiono assoli deliranti e fenomenali giochi di interazione sonora.
Il tutto proponendo una partitura di Michael Rauter (in scena, come detto, al violoncello), che è una stratificata commistione di citazioni dalle opere che hanno ritmato trionfalmente la carriera di Djagilev: echi di Parade di SatieDaphnis et Chloé di Ravel e ovviamente Le Sacre du Printemps di Stravinskij, decostruite e rimontate follemente in un apparente delirio faunesco.
Interessantissima la modalità coreografica: "Accade qualcosa che non sarebbe stato possibile se non inserendo l’invenzione primaria di Fanny&Alexander (NdC: la compagnia teatrale): l’etero-direzione. Ciascun performer sul palco indossa un auricolare. In regia, otto “manovratori” inviano agli interpreti in un timpano la traccia musicale da eseguire in tempo reale, nell’altro indicazioni sulla postura da assumere, sui salti da compiere, sulle diagonali da attraversare, sulle espressioni facciali da consegnare al pubblico. Cavalcoli si aggira tra i musicisti come un gaio fantasma alla ricerca dei propri migliori ricordi. Li osserva, li commenta con quella straordinaria capacità mimica che lo contraddistingue. E finirà per interagire con loro. Ciò che accade agli spettatori, che attraversano anche – non senza fatica – certi momenti di programmatica oscillazione del ritmo scenico, è un processo che solo l’etero-direzione può creare. La sensazione è che esista un piano di comunicazione ulteriore e invisibile che insiste sulla distribuzione dell’attenzione. Comprendiamo di star assistendo a un dialogo complesso, parte del quale si rende disponibile nell’evidenza radicale della sua invisibilità. Qui gli strumentisti sfuggono alla prigionia di una posizione fissa, abitano la scena, sono chiamati dalle indicazioni a saltare sul posto, a raggiungere un punto preciso – marcato da segni verdi o rossi che si vedono solo avvicinandosi al palco con le luci di sala accese; ad abbandonare arco e legno per andare a sussurrare chissà cosa all’orecchio del collega di sezione; a rompere il volto in espressioni ora disgustate, ora divertite, ora preoccupate. Sentiamo la loro voce mentre, sopra al flusso delle note, si spezza in un pianto e poi risorge in una risata, consegnando il buio di fine spettacolo".
Bello, no?
Sì.
Il problema è che per saperlo (e comprenderlo e apprezzarlo), mi sono dovuto documentare dopo lo spettacolo (nella fattispecie ho citato questa recensione di Sergio Lo Gatto su Teatro e Critica QUI).

Luigi De Angelis
Certo, nell'intervista distribuita all'entrata ad ogni spettatore, il regista Luigi De Angelis (fondatore di Fanny & Alexander con Chiara Lagani, due volte Premio Speciale Ubu) spiega il concetto di etero-direzione e spiega di aver condotto uno studio sull'annotazione originale (la 'labanotion'), basandosi"sulle coreografie d'epoca" e riferendosi anche "ad interpretazioni più recenti", come Le Sacre du Printemps di Pina Bausch: "Abbiamo così creato un grane lemmario, un vocabolo di gesti comuni traslati dalle coreografie, che sono stati poi reinterpretati dai musicisti stessi".



Lo spettacolo si conclude con un'esecuzione integrale, "normale", del Prélude à l'après-midi d'un faune di Debussy.
I sette musicisti prima si struggono in un crescendo di tristezza fino al pianto dirotto e poi esplodono in una risata fragorosa, irritante, beffarda.
E lo spettacolo finisce.

Tutto chiaro: l'evocazione sognante della propria carriera, il fumo dei Tabarin, i trionfi in scena, il dionisiaco, lo spirito panico, la visione, la simulazione delle emozioni, l'effettiva realtà delle stesse, la beffa e lo scandalo, la sensualità e la poesia, l'oltraggio e l'omaggio, la destrutturazione e la fedeltà accademica, l'improvvisazione come disciplina rigorosa, solve et coagula....
Ora, tutto bello, interessante, stimolante, a tratti cruciale: ma il pubblico non lo sa.

Il problema è che il pubblico, si sa, purtroppo, è distratto, pigro, disinformato, spesso va a teatro pescando dal mucchio quello che viene offerto.
Certo, non è colpa del regista: ma perfino il sommo disprezzatore Carmelo Bene si premuniva di diffondere note di regia o proclami programmatici per (anche se non lo avrebbe mai accettato) "spiegare" o comunque dare chiavi di lettura ulteriore.

Lo spettacolo è occasione per riflettere sul limite dell'approccio di molta arte contemporanea, della musica colta e in generale di gran parte della produzione artistica.

In questo caso abbiamo: un attore bravissimo (solo Cavalcoli in scena può tenere il pubblico per lunghi minuti in silenzio senza creare isterismi, proprio lui capace di sdoppiarsi da perfetto imitatore in due lingue di Poli e Bowie si è messo a studiare gli studi sulla mimica dello psicologo Paul Ekman); sette musicisti eccezionali; un lavoro tecnico e registico di alta qualità; una passione filologica notevole unita a una profonda conoscenza culturale; un materiale originale che si annovera tra le vette estetiche del Novecento.

Eppure....eppure il pubblico esce affaticato, annoiato, scandalizzato.
Oppure, certo, in alcuni casi deliziato e esaltato.
Ma siamo stati in pochi: coloro che GIÀ conoscevano e amano Stravinskij, Nijinskij, Djagilev, Satie e Pina Bausch.


Un così imponente impianto artistico non può essere sprecato per épater le bourgeois nel 2018.
Capisco la fierezza esoterica, ma un minimo di sforzo, non dico didascalico, almeno di contestualizzazione critica prima dello spettacolo è obbligatorio, se si vuole rendere questo spettacolo un'occasione di meraviglia per tutti, invece che un gioco compiaciuto per pochi e una tortura per molti.

Per cui, al termine dello spettacolo mi sono ritrovato profondamente contrariato, mentre applaudivo ammirato.



martedì 11 dicembre 2018

10 libri scoperti a Più Libri, Più Liberi


Hogwarts e i suoi evolutissimi sistemi di consultazione

Come ogni anno mi sono recato alla fiera Più Libri, Più liberi.
Come ogni anno ho avuto difficoltà a recarmi a ogni appuntamento, inciampando tra mille amici, conoscenti, caffè offerti e restituiti, libri che ti catturano al primo sguardo, altri che ripugnano, altri che ti conquistano solo al terzo sguardo concesso in tralìce, nel convulso labirinto di stand e sale incontri.
Nonostante qualche, consueta, falla nella organizzazione (l'abituale consapevolezza socratica di non sapere nulla, che a quanto pare è condizione necessaria per essere ingaggiati come membri dello staff, ha raggiunto il livello di koan zen involontario quando un addetto davanti la sala conferenze della Nuvola non sapeva dove fosse la sala incontri della Nuvola....esperimento riuscito!), è stata comunque una bella sensazione vedere file di persone innamorate della lettura, soprattutto nel pomeriggio di ieri, mentre a 10 chilometri il peggio del Paese si radunava attorno a un feticcio cialtrone.
Una resistenza spontanea che (come sottolineato in una conversazione che leggerete presto da Maura Gancitano e Andrea Colamedici) deve diventare avanguardia.
Altrimenti sarà destinata alla sconfitta.

Come in ciascuna di queste occasioni, piuttosto che celebrare libri e autori già noti, preferisco indicare testi che rischiano di rimanere seppelliti sotto il clamore dei grandi nomi, oppure classici riproposti da case editrici piccole ma il cui catalogo offre queste ed altre interessanti opere non banali.

1) La casa del dolore altruiJulián Herbert, Gran Via 



Tradotto da Francesco Fava (garanzia di qualità), questo libro affronta temi di inquietante attualità: la rimozione della memoria, l'oblìo dei massacri della storia recente, la dialettica atroce tra consapevolezza tragica e liberazione dal passato.
Ancora un testo degno di attenzione da parte di Gran Via.


2) Vulcano nascosto, Salvatore Fosci, Stamperia del Valentino





Il Bosco Sacro di Bomarzo, lungi dall'essere un parco giochi horror, è un labirinto iniziatico, disseminato di archetipi e illuminazioni occulte.
Salvatore Fosci, figura dal fascino peculiare, offre un'interpretazione ardita ma plausibile, mostrando un sentiero simbolico che rappresenterebbe l'intero giardino come un'allegoria di Marte e Venere.
Da meditare in loco.

3) La differenziazione dell'umido, Giovanni Nucci, Italo Svevo





Un libro di rara intelligenza, a tratti formidabile.
Il titolo è fuorviante: si tratta di una brillante dissertazione sull'attualità del Giulio Cesare shakespeariano, inteso come cruciale chiave di lettura della disperante contemporaneità politica.
Il tutto incastonato in una elegante cornice di finzione borgesiana.

4) Liturgia familiare, Emma DanteGlifo Edizioni 



Emma Dante è una regista sempre degna di nota per il notevole lavoro sul corpo e sulla disciplina imposta agli attori. Talvolta, per ciò che ci riguarda, tratta narrazioni classiche con una disinvoltura eccessiva, talvolta l'attenzione sulla carnalità oscura lo sguardo sul sacro. Ma non si può negare il valore della sua incessante fucina teatrale. Qui, oltre al testo dello spettacolo in oggetto, apprezziamo la presenza di intelligenti note critiche, a firma di Renato Palazzi, Roberto Giambrone e Giorgio Vasta.


5) Paleolitico, Stefania Nicolai, Espera





Confesso di non aver letto ancora le 564 pagine di questo romanzo, che fin dalla mole è coerente con l'evocazione dei mammut presente nel titolo. Eppure, fra le centinaia di libri osservati in fiera, l'idea di un'avventura nel paleolitico mi ha davvero incuriosito.
Vi terrò aggiornati.

6) La disciplina del Dandy, Oscar Wilde, Piano B


In questo caso non si tratta di una vera scoperta, essendo il volume una raccolta di saggi che da anni rileggiamo in originale come piccoli vangeli personali, ovvero Impressioni dall'America, Decadenza della menzogna, L'anima dell'Uomo sotto il Socialismo, Alcune massime per l'istruzione dei troppo istruiti, Frasi e Filosofie ad uso dei giovani e la celebre prefazione a Il Ritratto di Dorian Gray. Eppure questa edizione restituisce degnamente l'eleganza propria del diletto zio Oscar. Non avremmo ambizione di dire altro, poiché come Wilde ricordava "L'ambizione è l'ultimo rifugio del fallimento".

7) A Walk on the Wild Side, Anthony DeCurtis, Caissa Italia





Oltre alla divertente omonimia anglofona col Principe della Risata, Anthony DeCurtis ha altre doti:
parliamo di un critico musicale che ha vinto un Grammy come "Best album note" per i suoi commenti al boxset Crossroads di Eric Clapton. Da par suo, ci racconta Lou Reed (da lui intervistato molte volte), al di là del mito, entrando nelle pieghe nascoste della sua esistenza.
Obbligatorio per chi ama il Kurt Weil del Rock.

8) Il capolavoro sconosciuto, Honoré de Balzac, Alter Ego





Anche in questo caso, non è certo l'opera inedita di un autore sconosciuto. A dispetto del titolo, infatti, si tratta di uno dei racconti brevi più apprezzati di Balzac. Una riflessione spietata sui rapporti tra arte e psiche, meno allegoricamente perfetta ma altrettanto profonda del già citato Dorian Gray di Wilde. Sempre benvenute le riproposizioni di simili letture.

9)  Graffiti malatestiani, Paola Errani e Marco Palma, Viella




Veniamo a un libro di interesse particolarissimo, la scoperta avventurosa della traccia della storia (e che storia!) sulle eleganti pareti della Biblioteca Malatestiana: addirittura la mano accorta e accusata di nefandezze di Lucrezia Borgia, sulla via del matrimonio, avrebbe lasciato un segno della sua presenza, come Angelica e Medoro, come un'adolescente annoiata dei giorni nostri.
Un libro documentatissimo e ipertecnico, che si legge però con l'eccitazione di un giallo.

10) Donne in Piazza, Ferenc e Bast, Comic Out





Tra i tantissimi fumetti che abbiamo letto, sfogliato e intravisto in fiera, scegliamo questo, non per il valore estetico ma per l'importanza che riveste a livello di testimonianza politica e sociale: un esempio di graphic journalism prezioso, realizzato con la collaborazione di Amnesty International, sulle violenze subite dalle dimostranti durante le proteste egiziane del 2011.

venerdì 7 dicembre 2018

VUONG'S TRIPTYCH- Poesia di Ocean Vuong e Musica di Michele Sganga


Ocean Vuong è una delle voci più interessanti della poesia americana contemporanea.
Vincitore del T.S.Eliot prize nel 2017, Vuong trova la propria ispirazione in una peculiare condizione esistenziale: nato in Vietnam, figlio dei figli della guerra, rifugiato negli Stati Uniti, prima persona in grado di leggere nella sua famiglia (pur considerandosi, da bambino, pressoché dislessico), dalle sue umilissime radici (nato in una fabbrica di riso) alla soglia dei trent'anni gode di un'esposizione mediatica rara per un poeta (è stato intervistato dal Guardian e dal New Yorker). Per lo più per un poeta non facile, che affronta temi non esattamente consolatori o di facile consumo: un complicato rapporto con la figura paterna, il sentimento di un'Apocalisse incombente (memore di quella da cui di fatto la sua vita deriva), l'esplorazione intima della propria omosessualità.


Per questi pochi spunti siamo debitori a Riccardo Capoferro (Sapienza, Università di Roma), che ieri ha introdotto l'evento Vuong's Triptcych. Poesia e Musica, nella magnifica cornice della Fondazione Primoli a Roma, un luogo che non avrebbe sfigurato per incanto ottocentesco in una scena de Il Segno del Comando.


L'evento presentava l'ardito tentativo di Michele Sganga di porre in musica tre trittici di poesie di Vuong, tratti dalla raccolta Cielo notturno con fori d’uscita (La nave di Teseo, con prefazione di Michael Cunningham e la traduzione di Damiano Abeni e Moira Egan).


Sganga, compositore che seguiamo da anni con interesse, ha spiegato con grazia e passione la sua opera di traduzione artistica (apprezzatissima da Vuong): in alcuni casi la sua sensibilità si sposa perfettamente a quella del poeta, in altri si discosta cercando libere variazioni e paradossali licenze poetiche in musica rispetto alla lettera della poesia.

                                 

Sganga ha tradotto in "canzoni" (definizione sulla quale si potrebbe dibattere per ore) affidate al proprio magistero pianistico e alla voce del baritono Riccardo Primitivo Fiorucci.
Ovviamente, le versioni cantate sono nell'originale inglese: Sganga ha sottolineato più volte come i testi di Vuong non abbiano bisogno di una versione musicale perché già posseggono un'intima musicalità poetica (come è apparso nella lettura di Massimo Palma, e di altri fini dicitori, precedente alle esecuzioni musicali).



                                       
Ci permettiamo di riferire un esempio, la poesia Treshold, che ben riassume alcune delle tematiche dominanti nella poesia di Vuong:

In the body, where everything has a price,
I was a beggar. On my knees,

I watched, through the keyhole, not
the man showering, but the rain

falling through him: guitar strings snapping
over his globed shoulders.

He was singing, which is why
I remember it. His voice --

it filled me to the core
like a skeleton. Even my name

knelt down inside me, asking
to be spared.

He was singing. It is all I remember.
For in the body, where everything has a price,

I was alive. I didn't know
there was a better reason.

That one morning, my father would stop
--a dark colt paused in downpour--
& listen for my clutched breath
behind the door. I didn't know the cost

of entering a song--was to lose
your way back.

So I entered. So I lost.
I lost it all with my eyes

wide open.

Come sempre, Sganga ci incanta e ci tortura: ci incanta la sua superiore sensibilità, il rispetto e la grazia che informano ogni nota, l'immensa cultura musicale che trabocca da ogni sua composizione, il lavorìo filologico che trapela da ogni singola scelta (nell'introduzione, il compositore ha spiegato come, pur avendo scelto solo undici poesie dell'amplissima raccolta di Vuong, egli abbia tentato di trasferire l'intero mondo poetico dell'autore, creando una stratificazione di possibilità interpretative in ciascun brano); ci tortura (ma è un forse un nostro limite da ascoltatori profani) la sua ossessione stilistica di frammentare la melodia (che ogni volta si annuncia splendida) in infinite variazioni distorte, dissonanti, affascinanti dal punto di vista concettuale, pregevoli dal punto di vista della raffinatezza compositiva ma che virano potenziali gemme musicali sempre nell'ambito della perenne sperimentazione.

                                          

Da ascoltatori (ripetiamo, profani) di Schönberg quanto di Prince, sentiamo ogni volta il canto strozzato in gola, dissolto in vertigini cerebrali: con la voce del baritono Fiorucci (capace di plasmarla abilmente dallo stridore al bel canto in poche note) e con la sua straordinaria abilità compositiva, Sganga potrebbe (dovrebbe) incantare le masse.


                                 
Sganga è un adorabile adoratore dei calembour, dei paradossi, un rapito contemplatore del Mysterium coniunctionis, è un colto e consapevole studioso degli archetipi (musicali e non).
È benedetto dalla grazia, dal senso del gioco (Capoferro ha giustamente insistito sul carattere parodistico, sull'amore per il pastiche nelle sue versioni musicali dei versi di Vuong), da una innata consapevolezza filocalica.
Auspichiamo (da ammiratori e sodali) che liberi finalmente il suo dono melodico in un'aurea felicitas, esiliando (o quanto meno confinando) la lezione di Stockhausen, per donarci il tesoro immenso della beatitudine mozartiana che, lo sappiamo!, dimora nel suo spirito.

mercoledì 5 dicembre 2018

Il "Faust" di Pessoa - l'abisso della ricerca




Il Faust di Fernando Pessoa è un compendio poetico pressoché definitivo della sua weltanschaaung, un tributo all'inquietudine come condizione ontologica, di cui le celebri ultime parole dello scrittore (dette in inglese, sua lingua d'adozione, "I know not what tomorrow will bring...") appaiono come l'epitaffio definitivo.
Opera incompiuta, pubblicata post mortem, questa versione del Faust appare come una summa vertiginosa di temi eminentemente novecenteschi: l'inquietudine, l'incomunicabilità, lo smarrimento delle coordinate etiche e morali, il fallimento della religione, le tenebre della morte di Dio. Questo a conferma della sensibilità profetica di Pessoa, dacché la prima versione del testo risale al 1908 (anche se poi sarà ossessivamente riscritto per tutta la vita).
Un'opera in cui accenti leopardiani e elevazioni baudelairiane si alternano nella visione di un ricercatore scisso, un iniziato che ha perso la fede negli stessi Misteri a lui rivelati.

Significativi questi versi risuonanti all'inizio:

" Ah, tutto è simbolo e analogia!
Ti vento che passa, la notte che rinfresca
sono tutt'altro che la notte e il vento:
ombre di vita e di pensiero.

Tutto ciò che vediamo è qualcos'altro.
L'ampia marea, la marea ansiosa,
è l'eco di un'altra marea che sta
laddove è reale il mondo che esiste.

Tutto ciò che abbiamo è dimenticanza.
La notte fredda, il passare del vento
sono ombre di mani i cui gesti sono
l'illusione madre di questa illusione.


Tutto trascende tutto
ed è più e meno reale di quello che è"

Così medita Faust nel suo studio.
In una rivisitazione post-nietzscheana del poema di Goethe (omaggiato nel testo, come d'uopo) e del mito medievale.
Un testo che vi invitiamo a leggere e rileggere.

Arriviamo alla messa in scena (proposta il 4 Dicembre al Teatro di Villa Torlonia e riproposta domani 6 Dicembre a quello di Tor Bella Monaca).


Innanzitutto, perdonatemi, due note tecniche: il teatro (terminato nel 1874) è un gioiello di fusione di stili, dal neoclassico al gotico, dal moresco al rinascimentale.
Però, per godere appieno dell'atmosfera e dell'acustica, sono necessarie due misure urgenti: il taglio della mano destra (sinistra, in caso di mancini) al proprietario di un cellulare acceso alla seconda notifica squillante durante lo spettacolo; delle due, l'una: o si cambia il pavimento in legno, o si consente al gentile personale in sala di non indossare i tacchi durante il servizio di lavoro.

Ora possiamo parlare dello spettacolo.
Partiamo dall'idea: Maria Inversi ha un curriculum di straordinario interesse, avendo portato in scena le più alte voci, spesso femminili, del Novecento, da Simone Weil (raccontata da Ingeborg Bachmann) a Maria Zambrano, da Etty Hillesum a Sylvia Plath, addirittura ha affrontato un tema a noi preziosissimo come la riscrittura dell'archetipo in Medea (certo, ha portato in scena anche un testo di Ludovica Ripa di Meana, ma nonostante questo la media rimane alta).

Dunque, complimenti per le letture, l'impegno, lo sforzo di divulgazione.

Sullo spettacolo in sé, comincian le dolenti note.
L'idea è corretta: leggere in scena l'opera, ritmata dalla musica più vicina a Pessoa (la fisarmonica venata di suggestioni orientali del compositore Marcello Fiorini, le sperimentazioni al contrabbasso di Mauro Tedesco, l'incanto improvviso della voce di Oona Rea).
Il problema è uno solo: COME leggere.

Non si può leggere un testo abissale come il Faust di Pessoa con un tono da comizio, con una scansione didascalica e quasi da prete di periferia.
Ci vorrebbe davvero il Carmelo Bene dei Canti Orfici.
Ma basterebbe anche il meno sublime ma impeccabile Vittorio Sermonti de La Divina Commedia.

Non amo stroncare i giovani artisti, credo che vadano sempre incoraggiati, ma anche consigliati: la sfida è difficilissima, avrebbero fallito anche attori di maggior prestigio.
Proprio per questo bisogna affrontare con misura e discernimento la scalata a certe altezze.
Se si cade dall'alto, logicamente, ci si fa più male.

Maria Inversi

Delle voci recitanti in scena, solo la stessa regista Maria Inversi e Rita Pasqualoni affrontano i versi col giusto pudore e rispetto.
Vorremmo risentire lo spettacolo letto solo da loro.

In conclusione, un plauso per la scelta, il coraggio e l'ottimo lavoro di divulgazione, ma ci rimane l'amara sensazione che la Forza della Parola (se recitata) viene indebolita e non aumentata se la voce che la diffonde ne viene travolta.



Raccolta fondi per Vincenza, in memoria di Roberto



Ritratto di Roberto realizzato da LRNZ


Care lettrici, cari lettori,
quattro anni fa vi avevamo parlato di un film commovente QUI, del quale avevamo parlato anche con uno degli autori QUI.

Parliamo di The Dark Side of the Sun, per cui LRNZ aveva curato la parte di animazione, un documentario che ha per protagonisti i bambini affetti da una rarissima malattia.

Oggi sul suo profilo Facebook, LRNZ ha postato questo annuncio:

"Qualche anno fa vi ho raccontato in un film (The dark side of the sun (the movie)) di una malattia rara, lo xeroderma pigmentoso (XP). E' una malattia ancora incurabile, colpisce pochissime persone, circa una su un milione, e le costringe a vivere lontani dalla luce del sole: i raggi UV, infatti, provocano una proliferazione di melanomi con un incidenza di 10.000 volte superiore a una persona sana, dato che rende l'XP una malattia estremamente pericolosa, in grado di ridurre considerevolmente l'aspettativa di vita. E' solo tramite enormi sforzi individuali e della famiglia che un ragazzo malato di XP può sperare di superare i 20 anni di età. In questi anni, dopo aver realizzato il film assieme a Carlo Hintermann, ho conosciuto una persona incredibile. Si chiama Vincenza Guzzo. Vincenza fa la postina a Milano e ha tre figli. Uno di loro, Roberto, è nato con l'XP. Vincenza ha passato 28 anni della sua vita cercando di dare la vita migliore possibile a suo figlio, divisa fra fra ospedali, programmi televisivi, redazioni di quotidiani, appelli, associazioni e manifestazioni in cerca di una possibile soluzione. Dopo un lungo periodo di drastico peggioramento in cui Vincenza e sua figlia hanno dovuto smettere di lavorare per stare vicine a Roberto che versava in condizioni sempre più difficili da gestire, la malattia glielo ha portato via. Oggi la famiglia di Vincenza prova a ripartire da un lutto, una tappa dolorosissima di un percorso fatto di amore e dedizione assoluta contro ogni avversità e con questa raccolta fondi provo a aiutarli per coprire per lo meno le spese ingenti che la fase finale della malattia e le esequie hanno imposto, per farli sentire amati almeno per un giorno quanto hanno amato Roberto ogni giorno della sua difficile vita".

Sottoscriviamo l'invito di LRNZ e vi invitiamo con tutto il cuore a partecipare a questa raccolta.


QUESTO è il link per effettuare la donazione.

Grazie.

domenica 2 dicembre 2018

RACCONTARE TUTTO (ma proprio tutto) CON GLI SCARABOCCHI DI MAICOL & MIRCO



Torniamo a parlare de Gli Scarabocchi di Maicol&mirco,la cui esegesi fluviale coincise con la genesi stessa di questo blog.
"Il fumetto meno cinico del mondo; un groppo in gola che si scioglie in risata; la stessa risata che si raggruma in groppo e ti si ferma in gola; una preghiera bianca travestita da bestemmia; il deposito non smaltibile della vita quotidiana; una manifestazione di omeopatia terminale; la coazione a ripetere di un titanismo aforistico; l’avanguardia estrema della lotta per l’emancipazione del disegno; un  amuleto gnostico per sopportare l’esistenza...
Questo e altro, ma, scendendo alla radice: un modo di guardare le cose, prima, e di disegnarle, poi. Questo libro spiega tutto.".
Così, con la consueta arguta lucidità, Alessio Trabacchini nell'introduzione a questo preziosissimo volumetto targato Slow News.


Qui si impone la prima pausa riflessiva: Slow News è uno dei progetti giornalistici più interessanti degli ultimi anni. Nato, nelle parole dei fautori, per reagire al "flusso di contenuti senza senso, un flusso che ci stordiva e non ci lasciava tempo di riflettere, di capire, di assorbire informazioni", Slow News è di fatto "una piattaforma totalmente priva di pubblicità, finanziata interamente dalla nostra comunità di lettori, fondata sulla vostra fiducia, capace di produrre un flusso d’informazione più gestibile. Un flusso composto di meno contenuti, ma fatti meglio, ma anche un lavoro centrato sul contatto reale, diretto e continuo con i nostri lettori, veri e propri membri di una comunità".



Per chi volesse approfondire, ECCO il sito.
Veniamo, dunque, al progetto attuale:
Per la prima volta nella storia de Gli Scarabocchi, "Maicol&Mirco svela la ricetta delle sue creazioni e, in 64 pagine disegnate in nero su carta rossa, confessa tutti i trucchi del mestiere, aprendo il suo laboratorio e dandoti la possibilità di raccontare tutto, ma proprio tutto, con lo sguardo cinico e poetico che da sempre lo caratterizza".


Seconda pausa di riflessione: funziona, tutto sommato, come PRIMA O MAI ("il metodo di vendita più ricattatorio del web"), con cui già Maicol&mirco lanciarono il piccolo capolavoro Il suicidio spiegato a mio figlio.



Quindi, funziona così: si può prenotare QUI fino al 31 dicembre il libro in prevendita, al costo di 9,90 € e un abbonamento incluso per 3 mesi a Flow, la newsletter di Slow News che esce 2 volte alla settimana.
 L'aspetto divertente è che la prevendita durerà fino al 31 dicembre. Si stamperanno solo e soltanto le copie prenotate in prevendita.
Dunque, se non si prenota entro il 31 dicembre 2018, non si potrà MAI PIÙ (come nell'anatema di Zequila) acquistare il libro.

E sarebbe davvero un peccato imperdonabile, perché in questo libro come mai prima (o, per l'appunto, mai più) Maicol&mirco non solo rivela i trucchi del suo mestiere, ma (più importante) ci consente di vedere la realtà attraverso il suo stesso sguardo.
Che poi sarebbe quello di Dio.
O meglio, quello di Dio filtrato da Maicol&mirco.
Come nel libro gli spiega bene Einstein.

Non sto scherzando: nel fumetto Albert Einstein (o meglio la formula che lo rappresenta) in tre vignette spiega il concetto di noumeno kantiano e di Vorstellung schopenhaueriana.

Perché, come spiegato nelle puntuali note redazionali di questa edizione, "Il mondo è pieno di crepe, di anelli che non tengono, di squarci che lasciano intravedere abissi vertiginosi. Ad accorgersene per primi sono i bambini poi, subito dopo, ci arriva Maicol & Mirco che con i suoi Scarabocchi blocca quelle crepe in un'intuizione, in un gesto di sintesi perfetto di inchiostro nero su carta rossa".

Poi, quando parlo di Maicol&mirco in termini di Filosofia e Fumetto ditemi che esagero, eh!


Non posso che, per l'ennesima volta, autocitarmi mentre mi autocito a mia volta nella prefazione al primo volume di ARGH!- Opera Omnia: "Perdonate, dunque, la vanità di riproporre alcune delle definizioni che ho tentato negli anni per rendere al lettore la loro ardente genialità :"“Gli Scarabocchi sono lo sputo dell'intelligenza incattivita sul volto ipocrita d'esistenza incomprensibile”. O ancora, “Sembrano un Tractatus Logicus-Philosophicus scritto da un bambino, appena resosi conto dell’inferno che è la realtà senza illuminazione.”, chiosando “A quanto pare, per mostrare i buchi del pensiero occidentale c’è voluto un vignettista oltraggioso.”."


Scusate la ridondanza di virgolette e il gioco di specchi di citazioni: tanto leggendo Gli Scarabocchi impariamo tutti la vanità dell'ego e del linguaggio.



Maria Callas #IconeMetropolitane





In occasione dell'anniversario della nascita di Maria Callas, pubblichiamo il testo del video realizzato per #LettureMetropolitane come recensione del documentario Maria by Callas di Tom Volf.


"Maria by Callas", evento speciale fino al 18 Aprile, è un documentario, firmato da Tom Volf, di quasi due ore sulla vita della più venerata diva della lirica del Novecento.
Come sottolinea il titolo originale, nel documentario la Callas è narrata "dalle sue stesse parole".
La narrazione, infatti, è accompagnata da estratti di interviste, dichiarazioni pubbliche o confessioni private, lettere e memorie, in cui è la stessa diva  a commentare, evocare, raccontare le vicende straordinariamente drammatiche della sua esistenza,
Una narrazione che intreccia carriera e vita sentimentale.


Dagli esordi prima difficili e poi folgoranti ai trionfi alla Scala nel pieno degli anni '50, in cui avvenne la celebre perdita di 36 chili di peso, fino al celebre caso del ritiro dalla scena per afonia nel Gennaio del '58 a Roma, che tante polemiche e dolorosi strascichi provocò, dal matrimonio infelice con l'imprenditore Meneghini alla storia d'amore scandalosa e tormentata con l'armatore greco Onasiss, fino al breve e impossibile idillio poetico con Pier Paolo Pasolini, che la diresse in una memorabile versione cinematografica di  "Medea".


Da adoranti ammiratori della Callas, avremmo potuto vedere altre dieci ore di documentario, lo rivedremmo tutti i giorni, per la grazia ipnotica della diva, per il carisma altero e primordiale della sua figura, per la meravigliosa fierezza della cantante, al contempo così irriducibilmente fragile: un incanto che strugge e commuove.


Tecnicamente, però. il documentario è forse sbilanciato sulla devozione tour court: non un cenno alla grande (e degnissima) rivale, Renata Tebaldi (che merita con il massimo rispetto di essere riscoperta dal grande pubblico) o a Giuseppe Di Stefano, che appare nelle immagini felici dell'ultimo tour mondiale.



Carmelo Bene (da Goffredo Fofi  definito la "Maria Callas del Teatro del Novecento"), che la divertiva denigrando il personaggio di Violetta ne "La Traviata" chiamandola "brutta", così splendidamente tributava il suo omaggio alla diva: "La voce dell'opera si è fermata con la Callas, una perfezionista, nel senso che perfezionava i suoi difetti, come tutti i geni. Trovare e cestinare. Di questo si tratta". 


Non possiamo che concludere ricordando le parole pressoché definitive di Franco Zeffirelli: "Quella voce ci affascinò come un sortilegio, un prodigio che non si poteva definire in alcun modo, la si poteva soltanto ascoltare come prigionieri di un incantesimo, di un turbamento mai esplorato prima. Ma non si può rendere appieno la tempesta di emozioni che suscitava in chi l'ascoltava per la prima volta. Perché Maria è un regalo di Dio che non si può definire nel tempo: Maria c'è sempre stata e ci sarà per sempre.".

martedì 27 novembre 2018

LE NINFEE DI MONET. Un incantesimo di acqua e luce




Secondo appuntamento con gli amici di #LettureMetropolitane.
Qui di sotto il nostro video.




Il 26, 27 e 28 Novembre al cinema sarà possibile vedere Le ninfee di Monet. Un incantesimo di acqua e luce, documentario dedicato in particolare agli ultimi anni della produzione di Claude Monet, dominati dall’ossessione del grande pittore, appunto per le ninfee.
L’evento si inserisce nella serie La Grande Arte al cinema di Nexo Digital.
Di Monet si è scritto moltissimo, dunque la necessità di un ulteriore approfondimento, dopo anche la recente mostra a Roma al Complesso del Vittoriano, è soprattutto nella possibilità di mostrare immagini inedite e sguardi originali sulla sua opera.
Al di là dello splendore delle tele, affascina e turba insieme la lotta incessante del pittore: nei confronti della sua amata Natura (nell'impossibilità di rendere l’incanto della sua perenne, cangiante bellezza) e nei confronti della sua stessa arte (più volte in accessi d’ira sfregiava o bruciava i suoi stessi quadri perché costantemente insoddisfatto).
Soprattutto, negli ultimi anni, nei confronti della vita stessa, considerando la serie tragica di colpi a lui inferti dal Destino che avrebbero devastato anche  gli animi più coriacei: due volte vedovo, il pittore perderà il suo primo figlio, perderà in gran parte la perfezione del suo giardino di Giverny (suo vero capolavoro sempiterno), perderà parzialmente la vista (proprio lui di cui Cézanne disse: “Non è che un occhio...ma che occhio!”).
Tutto questo, negli anni che condurranno la Francia alla sanguinosissima Prima Guerra Mondiale: protagonista il suo vecchio amico e protettore, il Primo Ministro Georges Clemenceau.
Più che sui primi anni del movimento impressionista, sulla famosa mostra del 1874 nello studio del fotografo Nadar da cui derivò il titolo del movimento in seguito a una miope stroncatura di Louis Leroy, il documentario si concentra sull’ultimo grande capolavoro di Monet, sollecitato proprio da Clemenceau dopo che l’artista aveva abbandonato la pittura per i problemi alla vista.
Un capolavoro donato allo Stato francese in seguito all’armistizio ma reso visibile al pubblico solo nel 1927, dopo la morte dell’artista: parliamo delle dodici grandi tele delle Ninfee esposte al Museo dell’Orangerie di Parigi, progettato e dedicato appositamente ad esse.
Disposte in due sale ovali, illuminate da Est a Ovest dalla luce solare per ricreare l’effetto naturale del giardino di Giverny, la grande sinfonia cromatica creata da Monet con i fiori prima che con i pennelli, queste opere maestose restituiscono lo stupore mistico di un autore che ha amato la Natura fino alla morte.
Anche in questo caso, la critica scioccamente non colse la potenza dell’esperienza straordinaria di immersione nell’opera che Monet aveva profeticamente inaugurato.
Ci vorrà la rivoluzione americana dell’Astrattismo, trent’anni dopo, con Pollock in testa, per donare giustizia all’ultima, impressionante fatica di Monet.
Il documentario, nonostante la bellezza delle immagini (pittoriche ma anche naturali) paga una presenza eccessivamente da protagonista di Elisa Lasowski (attrice francese apparsa in Game of Thrones e nel video Blackstar di David Bowie). Abbiamo apprezzato soprattutto gli interventi di Ross King, serio studioso autore del saggio Monet e la rivoluzione della pittura moderna.
Concludiamo con una citazione illuminante dal saggio sull’Impressionismo di Jean Leymarie del 1959: “L’infallibile precisione dell’occhio dà il senso della pienezza della visione. Monet ha confidato a un giovane pittore che avrebbe desiderato nascere cieco e recuperare all’improvviso la vista per non sapere nulla degli oggetti e trovarsi in uno stato vergine davanti alle apparenze, desiderio che serve a chiarire paradossalmente la sua estetica della sensazione”.

venerdì 16 novembre 2018

Teho Teardo presenta A DICTIONARY OF SOUND




Oggi vi parliamo di un evento musicale di notevole rilevanza.
A Dictionary of Sound, primo ciclo di concerti promossi da Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.
Troviamo molto interessante che un'istituzione culturale promuova una rassegna di musica non convenzionale, mettendo a disposizione gli spazi di viale Pasubio a Milano

Per noi è garanzia l'aver indicato come curatore un musicista colto e sensibile come Teho Teardo.
L'artista friulano non è certo nuovo a sperimentazioni impreviste e collaborazioni spiazzanti: l'esplorazione di nuovi sentieri musicali è forse la cifra distintiva della sua ricerca.
Noto (e premiato) per le colonne sonore di film celebrati come Il Divo, L'amico di famiglia e La ragazza del lago, Teardo ha attraversato nella sua carriera progetti molto diversi, legati dal filo rosso della costante sperimentazione: pensiamo allo spettacolo dedicato al Viaggio al termine della notte di Louis Ferdinand Céline con Elio Germano, a Phantasmagorica con le illustrazioni in movimento di MP5 (ne parlammo QUI) o alla feconda collaborazione con Blixa Bargeld, leader storico degli Einstürzende Neubauten, negli album Still Smiling e Nerissimo.

L'iniziativa si articola in tre performance dal vivo.
Dopo la prima serata del 9 Novembre che ha visto protagonisti Jessica Moss e Eric Chenaux, domani sarà l'occasione per ascoltare il cantautore scozzese Gareth Dickson e il duo ambient acustico Pan-American.
Chiuderà la rassegna il 30 Novembre Robert Lippok, artista audiovisivo d'avanguardia della scena berlinese.



“Si cerca qualcosa di perfetto nella musica – dichiara Teho Teardo. "È ciò che di meglio si possa
immaginare, come una città ideale. La musica è una rivoluzione costante”.

                                         
Venerdì 9 novembre • ore 21.00 • Jessica MossEric Chenaux
Jessica Moss è parte integrante e attiva della scena musicale underground di Montreal. Violinista,
backing vocalist e co-autrice della cult-band Thee Silver Mt. Zion Memorial Orchestra, co-
fondatrice di Black Ox Orkestar, vanta importanti collaborazioni con Carla Bozulich/Evangelista,
con il compianto Vic Chesnutt e più di recente con Jem Cohen e Guy Picciotto (Fugazi) nel progetto Gravity Hill.

Ecco come Teardo la descrive nella nostra intervista su Repubblica -XL (la trovate QUI):
"Jessica Moss. Una musicista del Canada che riesce ad intercettare alcuni elementi fondanti dell’identità musicale europea per restituirceli come se le appartenessero da sempre".



Eric Chenaux, chitarrista e compositore, nella sua discografia affronta la relazione tra struttura e
improvvisazione. Spazia dal folk più avventuroso a ballate jazz dolcemente stranianti, nelle quali
esplora le possibili interazioni tra una vocalità romantica e gli effetti sorprendenti della chitarra.

Nelle parole di Teardo dell'intervista riportata:
"Eric Chenaux. Grazie al sarcasmo riesce ancora oggi ad attraversare il jazz senza doversene vergognare".




OGGI Venerdì 16 novembre • ore 21.00Gareth Dickson e Pan·American
Gareth Dickson, chitarrista e cantautore scozzese, spazia nei territori dell’ambient e dell’elettronica, trovando nuove possibilità per antichi strumenti.

Teardo lo descrive così:
"Gareth Dickson. Ha il senso dello spazio nelle sue canzoni. La sua scrittura è talmente ampia che pare abitare uno spazio cinematografico. Quando il cinema si accorgerà di lui sarà sempre troppo tardi".




Già collaboratore in studio e in tour di Juana Molina e più recentemente di Vashti Bunyan, è uno dei più apprezzati cantautori di nuova generazione.


Pan·American è il progetto solista di Mark Nelson, mente, chitarra e voce dei Labradford.
Partendo dalle possibilità del sampling, del dub e della techno, si è gradualmente indirizzato verso
l’ambient acustico in un flusso sonoro di spiccata ispirazione cinematografica, a cui accostarsi
attraverso i suoi video avvolgenti e malinconici. È colonna portante dell’etichetta Kranky, con cui
da sempre pubblica i suoi lavori.

Nelle parole di Teardo:
"Pan American. Mark Nelson pubblica album importanti dagli anni 90 con i Labdradford ed ora con Pan American. Ogni volta che passa in Italia non lo perderei".





Chiude la rassegna il prossimo Venerdì 30 novembre • ore 21.00 • Robert Lippok
Robert Lippok è un artista audiovisivo d’avanguardia, musicista e stage designer. Tastierista e co-
fondatore dei to rococo rot. Uno dei più influenti protagonisti della scena sperimentale ed
elettronica berlinese, è conosciuto per la sua ampia immaginazione ed inventiva ritmica. Nei suoi
live unisce l’aspetto compositivo e l’improvvisazione, portando il pubblico a fare delle esperienze
uniche e irripetibili. Applied Autonomy è il suo ultimo album pubblicato con la Raster - Noton.

Teardo:
"Robert Lippok. È una forza creativa della Berlino che non bivacca in coda al Berghain, ma reinventa costantemente il suono di quella città e, di conseguenza, anche di molte altre".



Un evento da non perdere per chiunque ami la musica non banale.

giovedì 15 novembre 2018

I VILLANI - la poesia resistente di Daniele de Michele






Seguiamo Daniele de Michele (aka Don Pasta) ormai da anni.

Proprio su queste colonne parlammo di lui (all'inizio di una fluviale conversazione che trovate QUI) in questo modo: "andrebbe protetto dall’Unesco come patrimonio dell’umanità: è una fortezza di Masada ambulante nei confronti del brutto, della stupidità, dell’insensata negatività che possiede il mondo moderno".
La visione del suo film documentario I Villani ci conferma che (ancora una volta) non avevamo esagerato.
Il film, presentato alle Giornate degli Autori del Festival di Venezia, va visto.


Dopo aver deliziato le folle nei panni adorabili del DJ gastrofilosofo Don Pasta, spesso nei luoghi più improbabili (QUI raccontammo quando aprì per i Massive Attack in una catacomba!), ora Daniele de Michele si riappropria del suo nome anagrafico, per un canto d'amore alla Madre Terra, alla Natura, alla Tradizione...ma lo fa da una prospettiva che è profondamente, appassionatamente, autenticamente di sinistra.
Daniele strappa Gramsci e Pasolini dall'abbraccio mortale e ingannevole del peggior rossobrunismo d'accatto e restituisce la poesia ardente e irriducibile dei moderni contadini, custodi di una tradizione ormai in agonia, resistenti contro le derive follemente perverse e autodistruttive dell'industria alimentare.


Quattro storie, raccolte e raccontate (con Andrea Segre) in quattro diversi angoli d'Italia (non solo il Sud delle amate radici dell'autore), di resistenza attiva, di glorioso suicidio professionale in nome di un'etica superiore, di commovente amore per la natura.
Un canto in cui amore e epica s'intrecciano nella gloria di esistenze umili, apparentemente monotone, gravate dalla fatica, nobilitate dal rispetto.
Un canto d'amore umanissimo. E per questo sacro.


Riportiamo la nota di regia che accompagna come un toccante invito la promozione del film: "“Questa gente mi raccontava il suo stare al mondo, il suo rapportarsi alla terra e alla storia del luogo che le aveva dato nascita. Era in questo intessersi delicato, talvolta ironico, talvolta doloroso tra i racconti intimi del loro vissuto e il loro cucinare con perizia, intelligenza, senso dell'osservazione che veniva fuori il senso più profondo della cucina italiana: il suo essere saggia, gustosa, parsimoniosa, rispettosa dei prodotti della terra e del mare. Questa gente mi mostrava in quei gesti sicuri di quanto la modernità andasse in conflitto radicale con quella cultura. Un conflitto che andava al cuore del problema. Per mangiar bene bisogna rispettare i tempi della cucina, bisogna rispettare le stagioni, la terra e il mare, tutto ciò che la modernità non fa più. Ne viene fuori un conflitto tra le parti, una resistenza, una proposizione di un nuovo vivere che benché ancorato al passato diventa attuale e vitale. In questi quindici anni di lavoro, passati creando libri e spettacoli che unissero la cucina e l’arte, l’esplorazione veniva raccontata da me in prima persona, facendo venir fuori il mio punto di vista su cosa fosse per me la cucina. Quello che mi ha emozionato e che voglio condividere è l'esistenza di persone capaci, realmente capaci, di creare e ricreare il gesto e di costruire un sapere vivo attorno a questo gesto. La loro esistenza è prioritaria rispetto alla mia elaborazione e il mio sguardo vuole fermarsi affianco a loro, per far incontrare le mie urgenze ideali e in fondo politiche con la loro quotidianità di gesti, luoghi, volti e parole. Il cinema documentario è lo strumento che può permettermi di far succedere questo incontro: non rinuncio al mio sguardo, ma lo lascio vivere dentro la loro realtà. Per questo il film arriva alla fine di un lungo periodo di ricerca, dopo il quale voglio finalmente poter vivere del tempo con le persone che questa lunga ricerca mi ha dato la possibilità di scoprire. E' come se fin qui le avessi sfiorate, gustate. Ora ho voglia di stare con loro e con loro far crescere la narrazione e il significato. Dentro di me e verso il pubblico”.


Conosciamo Daniele e il suo entusiasmo, la sua passione, il suo sguardo di poeta della materia e le sue abilità di narratore paradossale e trascinante.
Non ci aspettavamo nulla di meno sul piano del racconto.
Ciò che ci ha sorpreso è la qualità cinematografica del documentario, la fotografia, i tempi (lenti sì, non è mica un film d'azione, ma in maniera pacificante e meditativa), l'uso ardito ma intelligente della colonna sonora.
Ecco, la colonna sonora.


Alla presentazione di ieri al Cinema Farnese di Campo de' Fiori (luogo di culto per il pensiero controcorrente), accanto a Daniele (sempre brillante oratore, benché evidentemente emozionato), c'era Alessandro Mannarino (presente in una colonna sonora di pregio che vanta artisti anche come Daniele Sepe), un cantautore che confesso di aver sempre ponderato a distanza.
Ebbene, alla presentazione Mannarino è intervenuto brevemente ma con due stoccate precise e vincenti: l'arte non deve educare, deve suggestionare (dall'origine latina di "suggerire"); in un mondo governato da pazzi che stanno distruggendo il mondo per un profitto immediato, questo è un film importante.


Daniele ha raccontato l'impatto con un medium come il cinema e la sua unica fascinazione, ovvero il fatto che tra l'idea e la realizzazione esso imponga anni e anni di passaggio fino a che la realtà dell'opera s'impone rispetto all'idea originale, ha descritto i quattro anni di lavoro, lunghissimi e rocamboleschi, i cambiamenti incessanti, anni di drammi economici, di incontri smarriti e ritrovati, di continua revisione dei propri fallimenti (grande lezione acquisita da I Villani) e (per rispondere a una domanda precisa sul valore politico del film) di come esso sia uno schiaffo in faccia alla Sinistra degli ultimi sessant'anni, che ha completamente abbandonato quel popolo.


Noi siamo usciti commossi dall'abbraccio di un amico che ha realizzato un suo sogno folle e necessario.
E ancora di più da una dedica al termine del film che onora me e la memoria di una donna eccezionale che tanto amava gli spettacoli festosi e ribelli di Don Pasta.

Il film è in sala nei seguenti cinema:
Fino al 18 Novembre - Roma - Cinema Farnese, 
16 novembre - Napoli - Cinema Astra
17 novembre - Mantova - Festivaletteratura - Mignon cinema d'essai 
18 novembre - Rovereto - Tutti Nello Stesso Piatto Festival Internazionale di Cinema Cibo
20 novembre - Bologna - Cinema Odeon
21 novembre - Firenze - Fondazione Stensen
23 novembre - Milano - Cinema Mexico
29 novembre - Vicenza - Araceli Cinema di Città
30 novembre - Udine - Cinema Visionario
2 dicembre - Broni (PD) - Cine Teatro Carbone
3 dicembre - Torino - Distretto cinema
4 dicembre - Cremona - CineChaplin
11 dicembre - Bergamo - Cinema Teatro Del Borgo
12 dicembre – Tolentino –  Politeama
13 dicembre – Viterbo – Cinema Trento
16 dicembre - Calimera - Cinema Elio
17 Dicembre - Lecce - DB D'Essai

Chiunque fosse interessato a farlo proiettare nella sua città, scrivesse a distribuzione@zalab.org

Fatelo.
 Ne vale veramente la pena.