La Pietà di Michelangelo Buonarroti |
La sequenza di orazioni (prepotentemente entrata nella liturgia) illustra con definitivo nitore uno degli aspetti preminenti dell'adorazione medievale: la contemplazione di Maria Addolorata ai piedi della Croce.
L'enfasi tragica, intrisa di solenne contrizione, è sospesa tra umanissima empatia per l'universale esperienza della maternità soffrente e riverente soggezione di fronte alla maestà del mistero divino.
Per chi, come noi, ritiene che il valore universale della figura cristica sia nella Resurrezione, trionfo dello Spirito sulla materia nella congiunzione degli opposti, la testimonianza poetica è eccezionale ma teologicamente parziale.
La potenza dei versi (degni in vero della visionarietà di Iacopone) scolpisce magnificamente nell'eterno il dolore altissimo dell'Incarnazione negata, del Dono umiliato, della Redenzione ignorata.
Ma volge lo sguardo inconsolabilmente sulla tenebra, sul peccato, sull'errore del senso di colpa.
Per chi nutre il proprio daimon del Paradiso dantesco e delle visioni di Blake, lo scenario non è compiuto.
Gesù e Maria, William Blake |
Delle innumerevoli versioni in cui i nomi più alti della storia della composizione si sono confrontati con la sequenza (da Palestrina a Vivaldi, da Haydn a Boccherini, da Rossini a Schubert, da Liszt a Verdi, passando per Scarlatti, Donizetti e Dvorak), non possiamo (noi umili, profani ascoltatori) che indicare nello Stabat Mater di Giovanni Battista Pergolesi la vetta del Kailash musicale.
Composta nel 1735, in prossimità della morte dell'autore (addirittura, i romantici dissero fino all'ultimo respiro), l'opera insieme rispetta e spezza la tradizione creata dal prestigioso precedente di Alessandro Scarlatti, imponendosi come una delle più memorabili applicazioni della cosiddetta Teoria degli Affetti: una visione storicamente difesa e rappresentata da Monteverdi, volta a muovere le emozioni degli ascoltatori tramite un sapiente uso retorico della composizione, enfatizzando il significato profondo del testo in una ricercata armonia musicale.
In questo caso, si trattava semplicemente di rappresentare l'icona più celebre in Occidente del dolore universale. Ma Pergolesi riesce, con la misura propria dei grandi, a bilanciare l'insopportabile dolore con tutta la leggerezza della Grazia di Maria.
Uno spartito composto di ordine e luce, tale da indurre Johann Sebastian Bach a riutilizzarlo per musicare il Salmo 51, modificandone solo il finale.
Ci sembra appropriato concludere la Settimana Santa (noi ricercatori laici, avversi ai dogmi d'ogni sorta) con l'ascolto di questa composizione immortale, in grado di sciogliere in un oceano di elevazione interiore le scorie d'eccessiva commiserazione spirituale che avrebbero potuto appesantire il testo originale.
Al termine dell'ascolto siamo convinti che anche il più cinico degli atei, commosso da tale splendore, commenterà con le parole che la leggenda attribuisce al morente Pergolesi, appena conclusa la sua opera nel giorno della sua morte, in una drammatica corsa contro il Tempo:
Finis Laus Deo.
Pergolesi ritratto da Vincenzo Roscioni |
P.S.
Segnaliamo la versione cinematografica di Giovanni Bufalini, che ha registrato nella meravigliosa cornice del Duomo di Orvieto l'opera fin qui affrontata, assieme al Salve Regina dello stesso Pergolesi.
Potete vederla QUI.
Un film che con rispetto testimonia la messa in scena, in un degnissimo scenario, dell'eterno dramma spirituale: la tramutazione alchemica del Dolore in Grazia.
Buona visione!