Dichiaro subito che non posseggo nei confronti della vasta discografia dei Rolling Stones (pur conoscendola da anni) quella competenza maniacalmente filologica che posso vantare trattando di Bob Dylan, di certo Bowie o delle opere italiane di Mozart.
Questo forse mi consente uno sguardo distaccato e affidabile sul gigantesco evento del concerto al Circo Massimo.
Aveva ragione, come spesso, Massimo Palma (alla cui viva intelligenza già tributammo omaggio QUI).
Mi riferisco a QUESTO articolo, che all'epoca destò fastidio in molti devoti del culto stonesiano.
Perché è presto detto.
Il comodo fascino del Male
Chi scrive non ha simpatia alcuna per il diavolo.
Ma non per buonismo o superstizione. All'opposto, proprio per ribellione e anticonformismo.
Lungi dalla falsità del mito romantico post-miltoniano che vede in Satana il grande ribelle, per cui tutti dovremmo simpatizzare, non amo il diavolo proprio perché non amo il Potere.
E, come le Scritture rivelano, egli è il Principe di questo mondo.
Basta aprire la finestra per accorgersene.
E a me non piace stare con la maggioranza, preferisco l'opposizione.
Forse per questo non ho mai adorato le pietre rotolanti, pur studiandole col rispetto che la loro grandezza negativa pretende.
Non entro nemmeno nel merito dell'accostamento con The Beatles.
A livello musicale, basta confrontare la leggerezza giocosa di questa jam session che diviene sinfonia in pochi momenti:
con certo impaccio tossico testimoniato qui:
E' chiaro che il fascino che gli Stones esercitano sui loro adepti, rispetto ai bravi ragazzi di Liverpool (etichetta del tutto falsa come gli stessi rivali dichiareranno), non è certo meramente musicale.
Delle leggende viventi superstiti dal grande crepuscolo di idoli degli anni'60, gli Stones dal vivo fanno ordine a se: non sono enigmatici e stranianti come la Sfinge dylaniana, né rassicuranti come Sir Paul, né tanto meno signorili e seducenti come il galantuomo Cohen.
Ancora più criptico è il loro arcano, nel loro esporsi artificialmente come perennemente uguali a se stessi.
La consueta catabasi nella stupidità umana
Nel pacchetto del concertone ci sono tutte le maledizioni del grande evento collettivo: il tanfo di urina che permea ogni centimetro di etere nell'arco di 10 km quadrati; l'olezzo d'hashish di qualità scadente che esala fino a formare una nuvola nera, incombente sul luogo ben più minacciosa del Marchio Nero di Voldemort nel cielo; l'incrocio continuo con pupille annegate nell'alcol; la promiscuità forzata con aliti brucianti alla fragranza Peroni; il mesto spettacolo della coppia tossica che litiga (solitamente lui bestemmia, lei piange disperata); le orde di idioti che fischiano a qualsiasi cosa venga proferita dal palco; gli imbecilli che tirano bottiglie piene d'acqua nella folla, ritenendosi artefici del buonumore; l'inferno temporaneo dei bagni chimici (ecco le vere scie che inquinano il mondo e corrompono le coscienze!); decine di migliaia di sigarette ardenti agitate vorticosamente a pochi millimetri dalla tua retina; i tatuati a petto nudo che urlano versi senza senso e poi si complimentano fra di loro; i ciccioni con lo zaino in spalla che si scatenano in estasi, posseduti da sgraziate Menadi; e poi loro, i miei prediletti: quelli che comprano un biglietto attorno mediamente ai 100 euro, attendono per ore sotto al sole pomeridiano il concerto e poi, durante l'agognata esecuzione...PARLANO.
A voce alta. Dei fatti loro. Per tutto il tempo.
Nemmeno il Marchese de Sade sotto stramonio avrebbe ideato una punizione adeguata.
Logica e coerente coda dell'evento, l'assolutamente insensata gestione dei trasporti pubblici in occasione del concerto: probabilmente sono stati selezionati in tutto il mondo alcuni quozienti intellettivi in zona Heisenberg per deliberare la chiusura di ben due su tre delle linee metro della Capitale.
Risultato: 75mila persone che invadono come zombie le vie circostanti, una sorta di esodo freak, verso la fermata metro più vicina, col rischio Heysel a ogni arrivo di treno sulla banchina.
Il trionfo dell'arbitrio: il sindaco Marino (a patto che esista, sono persuaso sia un mero ologramma) ha probabilmente scelto i suoi consulenti fra i più dispettosi dei situazionisti.
L'inversione di un simbolo invertito
Ovunque, sui muri, sugli schermi, sulle magliette, dunque sui seni prosperosi delle turiste e sui ventri ancora più prominenti dei locali, campeggia la celebre linguaccia degli Stones.
Non tutti sanno che il celeberrimo logo fu acquistato per sole 50 sterline al talentuoso studente di grafica John Pasche. Forse ancora in meno sanno che l'ispirazione del simbolo è la lingua estroflessa di Shri Mahakali: la Dea deputata, nelle scritture hindu, alla distruzione e alla consunzione delle negatività.
Quelle stesse negatività (la lussuria, l'avidità, l'ego) che gli Stones hanno per 50 anni rappresentato, incarnato, celebrato, facendone dei propri corpi, segnati dal vizio, lo stemma fiero e venerato.
Degli sfrontati Dorian Gray che espongono orgogliosi il proprio ritratto incartapecorito, custodendo in segreto la fiamma della giovinezza nello spirito e nelle opere.
Un paradosso che nemmeno l'argutissimo Oscar Wilde avrebbe potuto prevedere.
Il paradosso, come il karma della Dea impone, di venir inghiottiti e svuotati di senso dal proprio stesso successo planetario.
La linguaccia, sensuale e oltraggiosa, appare sui poster apposta anche sulla Bocca della Verità, che testimonia silente, a poche decine di metri dal luogo dell'evento, questa gigantesca affabulazione.
Qualora la leggenda fosse veritiera, avrebbero fatto bene Mick. Keith & co. a non imitare Gregory Peck in Vacanze Romane: non avremmo avuto possibilità di riascoltare il riff di Jumpin' Jack Flash, o vedere Jagger agitare i suoi scheletrici artigli, divorati dall'inflessibile giudizio del Vero ("the awful truth is really sad" come canta in Streets of Love).
E' tutto, infatti, una colossale, meravigliosa bugia.
La band maledetta, oltraggiosa, ribelle, diabolica allestisce un confortevole show per famiglie, per turisti ignari, per branchi di ragazzotti per bene.
Tutto nell'illusione, omertosamente custodita, di assistere alla sacra rappresentazione pagana dello spirito rock.
La ribellione formato famiglia
Per ciò che riguarda lo spettacolo (perché di ciò si tratta), nulla da dire, il juke-box funziona perfettamente, senza intoppo alcuno, la playlist scorre più affidabile di una ricerca su Spotify.
Per chi ama il rock, oggettivamente, il concerto offre un appagamento prossimo alla delizia.
Il tritatutto dell'evento di massa shakera e serve nella comoda confezione da cofanettone formato famiglia tutta l'altalenante gloria passata, cristallizzata enciclopedicamente negli aneddoti da agiografia luciferina: la rivalità fittizia con The Beatles; la morte misteriosa dell'angelo biondo Brian Jones (il "dancing child with his Chinese suit" cantato dall'amico Dylan); la maledizione nera di Altamont; l'ispirazione sorgiva e longeva di di Exile on Main Street; le presunte orge alla cioccolata che hanno rovinato (discutibilmente) la reputazione di Marianne Faithfull; il ménage à trois inesistente con Angie Bowie dietro al celebre brano omonimo; l'altrettanto improbabile intimità omosessuale tra i due sex symbol Bowie e Jagger (spettacolo eventualmente più avvincente della risibile performance di Dancin' in the Street, resa ancora più evidente in QUESTA intuizione geniale); gli imbarazzanti esperimenti funky di metà anni'70; l'incerta resurrezione negli anni'80; il ritorno in grande stile nei '90; la magniloquenza vana e inebriante dei grandi concerti negli anni 2000.
Troppo facile considerazione suggerire che Jagger abbia davvero stipulato il patto col diavolo, o che sia egli stesso il diavolo in persona ("Please, allow me to introduce myself"): in 90 minuti corre molto più di quanto abbiano fatto Cassano e Thiago Motta insieme contro la Costarica, possiede la folla con esperienza magistrale, piglio assertivo eppure familiare.
All'inizio del concerto sembra urlare troppo, sputare via i versi di Jumpin' Jack Flash, ma brano dopo brano il possesso del repertorio appare magnifico e definitivo.
Furbissimo quando prova a ripetere la profezia azzeccata in passato sulla vittoria dell'Italia ai Mondiali, Mick risulta fastidioso solo quando abusa della demenza collettiva nel far ripetere alla folla i suoi usuali versacci ("Say: Yeah! Say: Wow!" etc.).
Keith Richards all'inizio sembra l'imitazione di Johnny Deep che interpreta Jack Sparrow facendo l'imitazione di Keith Richards. E' più il tempo che solleva la chitarra scimmiottando se stesso e le sue memorabili mosse, che quello in cui effettivamente suona. Poi col tempo, il suo carisma endemico emerge, basta un cenno, un gesto spontaneo, un sorriso marcio e beffardo a far esplodere la folla: quando getta via uno spinello, appena lodato per la sua qualità, la folla esplode come allo stadio per un tacco del beniamino di casa.
I momenti più autentici del Grande Show sono forse quelli meno seguiti dal pubblico, la parentesi acustica di Richards, i duetti fra quest'ultimo e Ronnie Wood, statici e tesi al centro del palco, mentre Jagger si dimena, fauno immortale, su e giù per la lunga pedana, concedendo il prodigio del suo bacino sempre ipnotico alla folla impazzita.
Dalla tensione nervosa dei due vecchi chitarristi, come in una continua improvvisazione mancata, erompe l'energia discorde dei riff più memorabili.
E anche noi, nonostante le inamovibili resistenze critiche, pur consapevoli del grande inganno, non possiamo che concederci alla danza, di fronte alla potenza primordiale di quei quattro sporchi, devastanti, immortali accordi.
La grande inconsapevolezza della massa
Come tutti i grandi eventi ospitati nel Circo Massimo, musicali, politici o sportivi che siano, grande è il numero di spettatori per caso, di fan dell'ultima ora, o di semplici gruppettari, che conoscono solo il ritornello di Satisfaction.
Gente che viene per l'evento, non certo per il gruppo.
Desiderosa di "far parte di", nel cortocircuito illogico di così affermare la propria individualità, aderendo ad un oceanico evento di massa (ancor più clamorosa fu la dinamica nel caso del concerto dei Genesis!)
In questa mastodontica bolla di inconsapevolezza (dovuta anche allo scarso insegnamento della lingua inglese nella scuola dell'obbligo), ci ritroviamo ad assistere, nel crescendo finale del greatest hits, a due paradossi uguali e contrari: prima centinaia di padri di famiglia, col crocifisso al collo e il posto in banca, che ancheggiano sorridendo al ritmo di brani che inneggiano al satanismo e all'eroina; dopo, peggio ancora, migliaia di ribelli per una sera, di alternativi da tastiera, di rivoluzionari in serie che urlano, come furiosi canti di battaglia anarchici, versi che avrebbe potuto scrivere la loro nonna: non puoi sempre avere quello che vuoi! E nel gran finale, coronato dai fuochi d'artificio, tutti a ballare felici e scatenati, ognuno contento di urlare al cielo la propria gioia: non posso essere soddisfatto!!!
Altamente significativo, in questo senso, quello che è tra i momenti memorabili del concerto: una infuocata Gimme Shelter, momento di gloria per l'imponente corista Lisa Fisher, emoziona esteticamente per la grande resa vocale e strumentale, ma smarrisce tutto il suo potere di denuncia.
L'acme drammatico del pezzo (reso con superba teatralità da Patti Smith in QUESTA versione), in cui si denunciano i crimini di guerra che incombono sulle vittime ("Rape, Murder/ it's just a shot away") diviene occasione per sfoggiare davanti a un pubblico inconsapevole le proprie stupefacenti abilità vocali.
E così via per tutto il godibilissimo spettacolo, la contraddizione di cantare lo scherno di Respectable davanti a migliaia di persone rispettabili, o piegate ad esserlo dalla necessità di sussistenza, dalla pressione delle convenzioni sociali, non sfiora minimamente il pubblico ignaro e danzante.
Ancora una volta, il mainstream, la logica del The Show Must Go On divora, ingloba e neutralizza il potere dell'arte e della rivolta.
E questo, non a caso, è proprio il lavoro di Satana.
Questo forse mi consente uno sguardo distaccato e affidabile sul gigantesco evento del concerto al Circo Massimo.
Aveva ragione, come spesso, Massimo Palma (alla cui viva intelligenza già tributammo omaggio QUI).
Mi riferisco a QUESTO articolo, che all'epoca destò fastidio in molti devoti del culto stonesiano.
Perché è presto detto.
Il comodo fascino del Male
Chi scrive non ha simpatia alcuna per il diavolo.
Ma non per buonismo o superstizione. All'opposto, proprio per ribellione e anticonformismo.
Lungi dalla falsità del mito romantico post-miltoniano che vede in Satana il grande ribelle, per cui tutti dovremmo simpatizzare, non amo il diavolo proprio perché non amo il Potere.
E, come le Scritture rivelano, egli è il Principe di questo mondo.
Basta aprire la finestra per accorgersene.
E a me non piace stare con la maggioranza, preferisco l'opposizione.
Forse per questo non ho mai adorato le pietre rotolanti, pur studiandole col rispetto che la loro grandezza negativa pretende.
Non entro nemmeno nel merito dell'accostamento con The Beatles.
A livello musicale, basta confrontare la leggerezza giocosa di questa jam session che diviene sinfonia in pochi momenti:
con certo impaccio tossico testimoniato qui:
E' chiaro che il fascino che gli Stones esercitano sui loro adepti, rispetto ai bravi ragazzi di Liverpool (etichetta del tutto falsa come gli stessi rivali dichiareranno), non è certo meramente musicale.
Delle leggende viventi superstiti dal grande crepuscolo di idoli degli anni'60, gli Stones dal vivo fanno ordine a se: non sono enigmatici e stranianti come la Sfinge dylaniana, né rassicuranti come Sir Paul, né tanto meno signorili e seducenti come il galantuomo Cohen.
Ancora più criptico è il loro arcano, nel loro esporsi artificialmente come perennemente uguali a se stessi.
La consueta catabasi nella stupidità umana
Nel pacchetto del concertone ci sono tutte le maledizioni del grande evento collettivo: il tanfo di urina che permea ogni centimetro di etere nell'arco di 10 km quadrati; l'olezzo d'hashish di qualità scadente che esala fino a formare una nuvola nera, incombente sul luogo ben più minacciosa del Marchio Nero di Voldemort nel cielo; l'incrocio continuo con pupille annegate nell'alcol; la promiscuità forzata con aliti brucianti alla fragranza Peroni; il mesto spettacolo della coppia tossica che litiga (solitamente lui bestemmia, lei piange disperata); le orde di idioti che fischiano a qualsiasi cosa venga proferita dal palco; gli imbecilli che tirano bottiglie piene d'acqua nella folla, ritenendosi artefici del buonumore; l'inferno temporaneo dei bagni chimici (ecco le vere scie che inquinano il mondo e corrompono le coscienze!); decine di migliaia di sigarette ardenti agitate vorticosamente a pochi millimetri dalla tua retina; i tatuati a petto nudo che urlano versi senza senso e poi si complimentano fra di loro; i ciccioni con lo zaino in spalla che si scatenano in estasi, posseduti da sgraziate Menadi; e poi loro, i miei prediletti: quelli che comprano un biglietto attorno mediamente ai 100 euro, attendono per ore sotto al sole pomeridiano il concerto e poi, durante l'agognata esecuzione...PARLANO.
A voce alta. Dei fatti loro. Per tutto il tempo.
Nemmeno il Marchese de Sade sotto stramonio avrebbe ideato una punizione adeguata.
Logica e coerente coda dell'evento, l'assolutamente insensata gestione dei trasporti pubblici in occasione del concerto: probabilmente sono stati selezionati in tutto il mondo alcuni quozienti intellettivi in zona Heisenberg per deliberare la chiusura di ben due su tre delle linee metro della Capitale.
Risultato: 75mila persone che invadono come zombie le vie circostanti, una sorta di esodo freak, verso la fermata metro più vicina, col rischio Heysel a ogni arrivo di treno sulla banchina.
Il trionfo dell'arbitrio: il sindaco Marino (a patto che esista, sono persuaso sia un mero ologramma) ha probabilmente scelto i suoi consulenti fra i più dispettosi dei situazionisti.
L'inversione di un simbolo invertito
Ovunque, sui muri, sugli schermi, sulle magliette, dunque sui seni prosperosi delle turiste e sui ventri ancora più prominenti dei locali, campeggia la celebre linguaccia degli Stones.
Non tutti sanno che il celeberrimo logo fu acquistato per sole 50 sterline al talentuoso studente di grafica John Pasche. Forse ancora in meno sanno che l'ispirazione del simbolo è la lingua estroflessa di Shri Mahakali: la Dea deputata, nelle scritture hindu, alla distruzione e alla consunzione delle negatività.
Quelle stesse negatività (la lussuria, l'avidità, l'ego) che gli Stones hanno per 50 anni rappresentato, incarnato, celebrato, facendone dei propri corpi, segnati dal vizio, lo stemma fiero e venerato.
Degli sfrontati Dorian Gray che espongono orgogliosi il proprio ritratto incartapecorito, custodendo in segreto la fiamma della giovinezza nello spirito e nelle opere.
Un paradosso che nemmeno l'argutissimo Oscar Wilde avrebbe potuto prevedere.
Il paradosso, come il karma della Dea impone, di venir inghiottiti e svuotati di senso dal proprio stesso successo planetario.
La linguaccia, sensuale e oltraggiosa, appare sui poster apposta anche sulla Bocca della Verità, che testimonia silente, a poche decine di metri dal luogo dell'evento, questa gigantesca affabulazione.
Qualora la leggenda fosse veritiera, avrebbero fatto bene Mick. Keith & co. a non imitare Gregory Peck in Vacanze Romane: non avremmo avuto possibilità di riascoltare il riff di Jumpin' Jack Flash, o vedere Jagger agitare i suoi scheletrici artigli, divorati dall'inflessibile giudizio del Vero ("the awful truth is really sad" come canta in Streets of Love).
E' tutto, infatti, una colossale, meravigliosa bugia.
La band maledetta, oltraggiosa, ribelle, diabolica allestisce un confortevole show per famiglie, per turisti ignari, per branchi di ragazzotti per bene.
Tutto nell'illusione, omertosamente custodita, di assistere alla sacra rappresentazione pagana dello spirito rock.
La ribellione formato famiglia
Per ciò che riguarda lo spettacolo (perché di ciò si tratta), nulla da dire, il juke-box funziona perfettamente, senza intoppo alcuno, la playlist scorre più affidabile di una ricerca su Spotify.
Per chi ama il rock, oggettivamente, il concerto offre un appagamento prossimo alla delizia.
Il tritatutto dell'evento di massa shakera e serve nella comoda confezione da cofanettone formato famiglia tutta l'altalenante gloria passata, cristallizzata enciclopedicamente negli aneddoti da agiografia luciferina: la rivalità fittizia con The Beatles; la morte misteriosa dell'angelo biondo Brian Jones (il "dancing child with his Chinese suit" cantato dall'amico Dylan); la maledizione nera di Altamont; l'ispirazione sorgiva e longeva di di Exile on Main Street; le presunte orge alla cioccolata che hanno rovinato (discutibilmente) la reputazione di Marianne Faithfull; il ménage à trois inesistente con Angie Bowie dietro al celebre brano omonimo; l'altrettanto improbabile intimità omosessuale tra i due sex symbol Bowie e Jagger (spettacolo eventualmente più avvincente della risibile performance di Dancin' in the Street, resa ancora più evidente in QUESTA intuizione geniale); gli imbarazzanti esperimenti funky di metà anni'70; l'incerta resurrezione negli anni'80; il ritorno in grande stile nei '90; la magniloquenza vana e inebriante dei grandi concerti negli anni 2000.
Troppo facile considerazione suggerire che Jagger abbia davvero stipulato il patto col diavolo, o che sia egli stesso il diavolo in persona ("Please, allow me to introduce myself"): in 90 minuti corre molto più di quanto abbiano fatto Cassano e Thiago Motta insieme contro la Costarica, possiede la folla con esperienza magistrale, piglio assertivo eppure familiare.
All'inizio del concerto sembra urlare troppo, sputare via i versi di Jumpin' Jack Flash, ma brano dopo brano il possesso del repertorio appare magnifico e definitivo.
Furbissimo quando prova a ripetere la profezia azzeccata in passato sulla vittoria dell'Italia ai Mondiali, Mick risulta fastidioso solo quando abusa della demenza collettiva nel far ripetere alla folla i suoi usuali versacci ("Say: Yeah! Say: Wow!" etc.).
Keith Richards all'inizio sembra l'imitazione di Johnny Deep che interpreta Jack Sparrow facendo l'imitazione di Keith Richards. E' più il tempo che solleva la chitarra scimmiottando se stesso e le sue memorabili mosse, che quello in cui effettivamente suona. Poi col tempo, il suo carisma endemico emerge, basta un cenno, un gesto spontaneo, un sorriso marcio e beffardo a far esplodere la folla: quando getta via uno spinello, appena lodato per la sua qualità, la folla esplode come allo stadio per un tacco del beniamino di casa.
I momenti più autentici del Grande Show sono forse quelli meno seguiti dal pubblico, la parentesi acustica di Richards, i duetti fra quest'ultimo e Ronnie Wood, statici e tesi al centro del palco, mentre Jagger si dimena, fauno immortale, su e giù per la lunga pedana, concedendo il prodigio del suo bacino sempre ipnotico alla folla impazzita.
Dalla tensione nervosa dei due vecchi chitarristi, come in una continua improvvisazione mancata, erompe l'energia discorde dei riff più memorabili.
E anche noi, nonostante le inamovibili resistenze critiche, pur consapevoli del grande inganno, non possiamo che concederci alla danza, di fronte alla potenza primordiale di quei quattro sporchi, devastanti, immortali accordi.
La grande inconsapevolezza della massa
Come tutti i grandi eventi ospitati nel Circo Massimo, musicali, politici o sportivi che siano, grande è il numero di spettatori per caso, di fan dell'ultima ora, o di semplici gruppettari, che conoscono solo il ritornello di Satisfaction.
Gente che viene per l'evento, non certo per il gruppo.
Desiderosa di "far parte di", nel cortocircuito illogico di così affermare la propria individualità, aderendo ad un oceanico evento di massa (ancor più clamorosa fu la dinamica nel caso del concerto dei Genesis!)
In questa mastodontica bolla di inconsapevolezza (dovuta anche allo scarso insegnamento della lingua inglese nella scuola dell'obbligo), ci ritroviamo ad assistere, nel crescendo finale del greatest hits, a due paradossi uguali e contrari: prima centinaia di padri di famiglia, col crocifisso al collo e il posto in banca, che ancheggiano sorridendo al ritmo di brani che inneggiano al satanismo e all'eroina; dopo, peggio ancora, migliaia di ribelli per una sera, di alternativi da tastiera, di rivoluzionari in serie che urlano, come furiosi canti di battaglia anarchici, versi che avrebbe potuto scrivere la loro nonna: non puoi sempre avere quello che vuoi! E nel gran finale, coronato dai fuochi d'artificio, tutti a ballare felici e scatenati, ognuno contento di urlare al cielo la propria gioia: non posso essere soddisfatto!!!
Altamente significativo, in questo senso, quello che è tra i momenti memorabili del concerto: una infuocata Gimme Shelter, momento di gloria per l'imponente corista Lisa Fisher, emoziona esteticamente per la grande resa vocale e strumentale, ma smarrisce tutto il suo potere di denuncia.
L'acme drammatico del pezzo (reso con superba teatralità da Patti Smith in QUESTA versione), in cui si denunciano i crimini di guerra che incombono sulle vittime ("Rape, Murder/ it's just a shot away") diviene occasione per sfoggiare davanti a un pubblico inconsapevole le proprie stupefacenti abilità vocali.
E così via per tutto il godibilissimo spettacolo, la contraddizione di cantare lo scherno di Respectable davanti a migliaia di persone rispettabili, o piegate ad esserlo dalla necessità di sussistenza, dalla pressione delle convenzioni sociali, non sfiora minimamente il pubblico ignaro e danzante.
Ancora una volta, il mainstream, la logica del The Show Must Go On divora, ingloba e neutralizza il potere dell'arte e della rivolta.
E questo, non a caso, è proprio il lavoro di Satana.