Venerdi sera al Cinema America Occupato c'è stata una serata della quale, secondo me, tra vent'anni leggeremo nei testi di storia del cinema. Chissà se i volenterosi ragazzi del collettivo, che hanno con la sbarazzina disinvoltura dei loro vent'anni invitato il regista Paolo Sorrentino, passato per caso davanti al cinema mentre stavano ri-pitturando la facciata, a presentare "La Dolce Vita" nel loro spazio...chissà se ne sono resi conto.
Se questo è il livello degli eventi culturali proposti, lo sgombero incombente appare un crimine intellettuale.
Anzi, fossi il Sindaco finanzierei i ragazzi per comprare un adeguato sistema di climatizzazione all'interno della sala, che nel caso di opere di lunga durata si tramuta in una gigantesca opprimente sauna collettiva.
La contemporaneità rende da sempre, salvo luminose eccezioni, la critica miope.
Ecco che quindi, probabilmente, molti di voi giudicheranno la mia iniziale affermazione esagerata, fuori luogo, priva di fondamento. "La Grande Bellezza", per me un film-miracolo, un'opera fondamentale nel panorama del cinema italiano degli ultimi venticinque anni, è stato da molti giudicato tronfio, pretenzioso, inutilmente barocco. Per molti l'accostamento ( logico e naturale non solo per il sottoscritto) col capolavoro di Fellini è assolutamente fuori scala.
Quindi, non ci sarebbe nulla di particolarmente interessante, quanto mai di storico, nell'assistere a Sorrentino che ci parla esattamente di quell'opera, che è il precedente diretto e ineludibile del suo film.
D'accordo. Andatevi a leggere QUI le reazioni della critica, o dei contemporanei, proprio a "La Dolce Vita", e poi ne riparliamo.
Sorrentino esordisce dicendo che non è un bravo"parlatore".
Apre il suo discorso schermendosi, sostenendo che è sempre meno interessante parlare dei film, è più interessante farli, è più bello commuoversi vedendo un film che ragionarci sopra. Il contrario di quello che pensava da ragazzo, quando voleva sempre ragionare sulle opere cinematografiche, mentre con l'età adulta l'aspetto emotivo è divenuto prepotente.
Ma, eccepisce, su "La Dolce Vita" è importante ragionare. Si distingue da altri film di Fellini, come "Otto e mezzo" o "Amarcord", dei quali è altrettanto bello, per una peculiarità: non è importante, paradossalmente, che sia bello. Perché più che bello, "La Dolce Vita" è un film pericoloso. Pericoloso, innanzitutto, per i ragazzi. Pericoloso, perché esprime un sentimento pericoloso: quello di vivere in una costante transizione.
E' un film che ti fa vedere la vita senza un punto d'arrivo. Un'opera piuttosto desolante, insiste, in cui è quasi bandita l'ironia, e quando compare essa è vaga, evanescente. Elemento, l'ironia, che invece è fondamentale in altri film di Fellini, ad esempio ne "I Vitelloni", film per il quale Sorrentino definisce il Maestro come capostipite della "commedia all'italiana". Con una, a nostro giudizio, efficace analogia il regista napoletano descrive "La Dolce Vita" come un film lunghissimo, estenuante, a bella posta, perché è come la vita degli individui: lunghissima, faticosa ed estenuante.
Sorrentino, a questo punto, ricorda come il film abbia suscitato reazioni scomposte, solo apparentemente legate a fatti concreti. Reazioni legate al fatto che è un film che fa paura, modernissimo, in cui il personaggio potrebbe benissimo essere immerso nel contesto di oggi, sostituendo le attuali discoteche alle sale da ballo di fine anni'50. Egli vive in una costante condizione di vuoto, di dépense, il concetto di Georges Bataille per cui al culmine della produzione c'è il culmine della disperazione.
Un film ambientato in un contesto fastoso, e festoso, apparentemente meraviglioso, a cui tutti vorrebbero appartenere, dietro il quale però si cela la disperazione più nera, anche se costantemente dissimulata.
Un film senza trama, che si basa sulla vita così com'è.
Ribadisce il regista, un film bello, ma la cui bellezza è meno importante della sua pericolosità.
La pericolosità dell'emulazione dei personaggi della dolce vita, il continuo ricorrere alla distrazione che allontana dal senso della vita, seduti sulle sabbie mobili del vuoto esistenziale.
Un film sulla difficilissima condizione di vita dell'uomo moderno.
Si apre a questo punto una breve sessione di domande. Alla prima domanda, cioè quanto Fellini lo avesse influenzato, il regista risponde che l'influenza è totale: sa tutti i suoi film a memoria.
L'influenza è cosi forte che Sorrentino dichiara d'avere addirittura un blocco, che lo inibisce a parlarne in maniera disinvolta, perché (non potremmo essere più d'accordo) quando si è troppo fan si diventa patetici. L'influenza, comunque, è enorme , anzi il regista dichiara che tutti i suoi film precedenti sono smaccate imitazioni da Fellini, ma i critici non se ne sono accorti. Mentre, a riguardo de "La Grande Bellezza", dove sostiene di non averlo voluto imitare, lo hanno detto tutti!
A questo punto, cogliendo la palla al balzo sulle pressioni per far sgomberare Cinema America Occupato, Sorrentino auspica più che la chiusura dei cinema, la chiusura della critica!
La seconda domanda trae spunto proprio dal rapporto con la critica, infatti l'autore viene bonariamente rimproverato di non aver difeso il film "L'amico di famiglia" da le ingiuste critiche ricevute. Anche qui Sorrentino, da un lato si schermisce, dall'altro spiazza. Nega la benevola accusa, asserendo non solo d'aver difeso il film, ma ampliando la riflessione: per lui una volta fatti i film sono andati, chiusi. Dopo aver occupato anche in maniera ottusa la mente per un lungo periodo, una volta realizzati, sono finiti, dunque, è pronto a difendere il prossimo film, non i precedenti.
L'intervento successivo torna sull'accostamento, entusiasta, fatto dalla critica internazionale tra "La Grande Bellezza" e Fellini. La domanda posta è se Sorrentino si spiega la diversa accoglienza ricevuta dal film all'estero, dove è stato salutato come un capolavoro, e in patria, dove è stato oggetto anche di forti critiche.
Il regista riconosce che la ricezione critica è stata diversa, sottolineando che tutte le critiche sono pericolose: quelle negative perché fanno arrabbiare, quelle positive perché lasciano il dubbio che non siano del tutto sbagliate. Inizialmente, dichiara che, pur essendoselo chiesto tante volte, a tutt'oggi non sa ancora dare una risposta alla domanda. Ma poco dopo ammette con una battuta, che in realtà lo ha capito ma non vuole dare la risposta. "La Grande Bellezza", dice, è un film che mette in difficoltà, tocca nervi scoperti, per questo, secondo il regista, non definirebbe la critica italiana come negativa, piuttosto come "esagitata".
E' un film che è rimasto impigliato nella testa dei critici, che ancora oggi lo confrontano i nuovi film usciti nelle sale. E' certamente un film che non ha lasciato indifferenti.
Sorrentino, tornando al discorso accennato prima, vorrebbe che si cambiassero certi approcci alla visione dei film, approcci datati o legati al personalismo. Per questo auspica una modalità diversa di lettura dei film, anche perché quella corrente non è utile ai lettori, che infatti se ne fregano delle critiche. Un tempo, ricorda, venivano seguite, tuttora in Inghilterra il parere dei critici è molto seguito, ma in Italia ormai il pubblico non li ascolta più. Per cui, i critici dovrebbero fare un pò di autocritica, com'è giusto che la facciano a volte i registi.
Continuando a rispondere al secondo aspetto della domanda, il regista continua a smarcarsi dall'ingombrante accostamento col gigante felliniano, spiegando che all'estero il cinema italiano arriva a singhiozzo, per cui i critici internazionali si ricordano Fellini e Antonioni, perché quelli conoscono, e ogni volta devono trovare un aggancio con i registi attuali.
Tornando a chiosare su "La Dolce Vita", si ribadisce che è un film che tocca corde molto profonde, se si guarda sotto la bellezza delle immagini celeberrime di Anita Ekberg che si bagna nella Fontana di Trevi, si vede il pericolo della mancanza dei sentimenti fondamentali.
Ad esempio, nel film, il padre del protagonista è inizialmente esaltato della bella vita, ma poi preferisce tornare subito a casa. "La Dolce Vita" racconta che la modernità è un assassino dei sentimenti.
Definizione, quest'ultima, per noi stupenda.
L'ultima domanda verte sul rapporto del regista con Roma, un elemento innegabilmente in comune col grande precedente felliniano. Ed ancora una volta, Sorrentino dribbla il paragone, anche su un oggettivo terreno condiviso. Dichiara di non comprendere i discorsi sulle città, i confronti, i "rapporti"...i rapporti si hanno con le persone, non con le città, sostiene. Per lui, Roma è una città talmente bella da sembragli un perenne luogo di villeggiatura, ci vive felice perché si sente come un turista senza biglietto di ritorno, una condizione ideale. Ai fini del film che ha realizzato, però chiarisce, Roma è uno sfondo di bellezza, come sarebbero potute essere New York o le Dolomiti, nei film si descrivono gli esseri umani, non le città.
L'intervento di Sorrentino, per quanto apparentemente dimesso e improvvisato, è stato in realtà un capolavoro di affabulazione, propria di chi da anni si è dimostrato un grande narratore, non solo per immagini. A partite dall'inizio, in cui si dichiara imbarazzato come un oratore incapace, e poi sfodera un discorso bellissimo, non solo per i concetti espressi o per il linguaggio forbito, ma proprio in quanto ben costruito, pieno di ritmo e passione, pause, tempi comici e sferzate improvvise.
Fino alla fine: negare l'unicità del teatro di Roma come scenario perfetto, nella sua barocca, stordente e annoiata decadenza, per la vicenda narrata, è un abile nascondere le carte.
"La Grande Bellezza" come, appunto, solo Fellini aveva saputo fare, è un supremo omaggio d'amore all'antico splendore della Città Eterna, e nel contempo la più spietata esposizione delle brutture, dell'orrenda volgarità, dell'insopportabile cacofonia esteriore, specchio del deserto interiore, che possiede la Capitale.
Punto fondamentale della grande affabulazione, che dura da mesi, è che il regista ha sempre negato, smentito, ridimensionato l'accostamento con "La Dolce Vita", quando, oltre alle numerosi evidenti affinità, è stato proprio il suo omaggio nella presentazione del film a rivelarlo, a suggerirlo, a confermarlo. Le riflessioni da lui dedicate all'opera felliniana, infatti, potrebbero tranquillamente essere rivolte a "La Grande Bellezza". Più che mai solare è apparso il legame, quasi un inconscia confessione, quando ha detto che la condizione del protagonista può essere benissimo essere immersa nella realtà d'oggi, sostituendo al ballo con Celentano magari una serata in discoteca. A parte che una delle scene chiavi de "La Grande Bellezza" è girata nella stessa location del famoso cameo del Molleggiato...soprattutto non possiamo non pensare alle scene di sguaiata danza collettiva sul terrazzo di Jep Gambardella (interpretato da un Toni Servillo ormai oltre ogni lode), versione contemporanea e cafonal degli stanchi festini nelle ville in riva al mare del finale felliniano. E quanto appare astutamente ironico il dire che nei film precedenti ha copiato il Maestro, mentre nell'ultimo no! Sfido io voi tutti a trovare uno sguardo felliniano in "This must be the place" o ne "L'amico di famiglia". E sfido voi tutti, compreso lo stimatissimo autore, a negare la mastodontica impronta felliniana del suo ultimo film. "La Dolce Vita" è, in realtà, evocata, omaggiata, citata, sfidata, parodiata, scavalcata per tutta quanta la durata de "La Grande Bellezza". Come evita e smentisce il paragone nelle interviste (ad esempio QUI e QUI), nel film Sorrentino accetta il confronto, lo stimola, lo provoca, lo impone, lo capovolge.
Jep Gambardella è, ciò che sarebbe divenuto Marcello Rubini ai giorni nostri, quarant'anni dopo aver scelto male al bivio della sua esistenza, voltando le spalle all'Innocenza sorridente nel finale, spostando lo sguardo dalla fissità giudicante del mostuoso pesce sulla riva (dagli ammessi risvolti cristologici come rivelatomi da Alessandro Caroni), e scegliendo di essere rapito e fagocitato dalla mortifera compagnia degli "indifferenti" mondani annoiati, ormai larve senza un'anima.
E a rivederlo venerdi sera, per l'ennesima volta (ma mai quanto "Otto e mezzo", per chi parla il film più significativo della Storia del Cinema), nonostante il caldo crematorio e asfissiante del cinema, "La Dolce Vita" perpetua il suo incanto cupo, il suo quasi baudelairiano splendore. E nella sua intatta, assoluta bellezza, nel suo essere non solo altissima arte poetica, ma bruciante profezia sociale e antropologica (come Fitzgerald trent'anni prima in America non è solo uno scrittore, ma il profeta martire del fallimento a venire dell'American Dream), si conferma il grande, ineludibile precedente de "La Grande Bellezza".
Ci si potrebbe scrivere un libro.
Qualcuno forse ci sta già lavorando.
Premetto:
RispondiEliminaNon sopporto più Sorrentino da diverso tempo, ma intervengo perché trovo che tu abbia colto un punto importante sul rapporto che c'è tra il regista e la sua opera.
Sorrentino è un abile affabulatore perché mischiando le carte in continuazione riesce sempre a sviare l'attenzione da molti aspetti (giustamente) criticabili del suo lavoro.
La cosa grave, a mio avviso, è che fa praticamente la stessa cosa con i suoi film, che sono privi, per l'appunto, di una palpabile poetica.
Film ricolmi di una estetica che paralizza, ma che paralizza la narrazione stessa per avvitarla in una girandola di situazioni ( o gags?) dove vige solo il perculamento fine a se stesso.
Alla fine del film siamo tutti contenti e sollevati di essere così diversi dagli insopportabili abitanti delle terrazze, che sono tutti delle merde, e che però in fondo in fondo sono anche umani.
Tutto questo è inutilmente consolatorio e intellettualmente disonesto.
La Dolce Vita può essere inteso come ineludibile precedente de La Grande Bellezza soprattutto per farci riflettere su quanto si è brutalmente semplificato e impoverito il linguaggio del nostro cinema contemporaneo.
Sono Leomacs, eh?
RispondiEliminaHo pubblicato il commento precedente da un altro account.
Saluti
Ciao, Leo! Grazie del commento, innanzitutto.
RispondiEliminaE' molto interessante quanto questo film abbia diviso nettamente molte persone che conosco e stimo, di equiparabile cultura e senso estetico. Ne scrivevo ieri con Werther dell'Edera, ad esempio, che anche esprimeva un parere complessivamente negativo.
Secondo me, invece, pur comprendendo il senso delle vostre critiche, c'è uno sguardo più profondo. Il film, è vero, è rapsodico, frammentario, narrativamente disconnesso...ma perché quella è la condizione esistenziale che vuole narrare: quella del flaneur disilluso, annoiato e smarrito nella mirabolante superficialità del mondano, vano divertissement, della cui ingannevole inconsistenza è tristemente consapevole. E' un tema profondo, antico, che ha radici nei grandi scrittori russi dell'Ottocento. E' anche il tema, appunto, de "La Dolce Vita". Possiamo, dunque, discutere sulla profondità o sull'onestà di Sorrentino. Io non credo sinceramente che la bellezza estetica del film sia un diversivo, o un trucco paralizzante. Può essere, si compiaciuto, ma non è un compiacimento letale, come quello per esempio di D'annunzio in letteratura. Per me i temi affiorano, e cruciali. Non sono sviluppati a dovere? Sono semplicemente enunciati, senza approfondimento? E' vero, ma perché cosi avviene nella mente di un personaggio come Jep Gambardella, schiavo del proprio pigro talento, narcotizzato da uno stanco benessere. Un'intelligenza ripiegata su se stessa nella comodità di una saggezza pessimista, che può essere riscossa, destata solo da un'epifania improvvisa, violenta, illuminante. Anche, se vogliamo, insensata, almeno apparentemente. Ciò che è manifestazione del Bello, è oltre i limiti della mente, quindi può apparire Terribile (come in Rilke), Crudele (come in Baudelaire), oppure insensato, quasi un errore del sistema, una pausa improvvisa e inaspettata nell'Oceano di Male (come in un certo senso in Cèline, che Sorrentino cita e a cui manifestamente si ispira). Come ho detto a Werther, un film cosi ambizioso e pretenzioso mostra il fianco a critiche forti, sta alla sensibilità, e anche al gusto estetico dello spettatore, condonare benevolmente le cadute di stile (redente dalla grandiosità del disegno d'insieme), o al contrario condannarle come pecche imperdonabili, lacune strutturali di un'architettura traballante. Comunque, io credo che il film voglia farci vedere che in realtà siamo tutti noi gli abitanti delle terrazze, e chi trova il proprio fondo di umanità e solo chi rinuncia alla maschera comoda del benessere fittizio, per tornare a cercare, a scavare, a rimettere in discussione se stesso, le proprie scelte, la propria splendida, illusoria, soffocante posizione. Sono temi eminentemente novecenteschi (da Joyce appunto a Cèline), anche se affondano ripeto le radici nelle pagine di romanzi del secolo precedente (Oblomov, su tutti), e sicuramente già affrontati da Fellini. A questo punto, volevo ricordare che, come per Sorrentino, prima delle celebrazioni estere, anche lui, ancora non diventato il monumento vivente al cinema nostrano, veniva accusato di essere cialtrone, bugiardo, compiaciuto e truffaldino. Come scrivo, è la contemporaneità che rende miope la critica. Se fossi stato a Newport nel '65 forse avrei sputato sul palco di Dylan, mentre oggi considero quel momento come la più grande manifestazione della libertà dell'artista nella cultura pop. Il fatto, comunque, che il film desti innamoramenti appassionati o critiche violente testimonia la sua unicità nel panorama attuale. Anche se lo considerate un tentativo clamorosamente fallito, trovatemi un film italiano negli ultimi 25 anni che può essergli messo accanto per ambizione, respiro, abilità tecnica e performance attoriale. "La Grande Bellezza" è comunque una maestosa interiezione, anche se interrogativa (visti i dubbi che pone e desta) o impropria (visti gli epiteti che si becca), nella sciatta prosa della cultura italiana contemporanea. Scusa lo sfogo, ma ho materiale per un libro...;)))
personalmente credo che Sorrentino abbia immortalato l'eterno dissidio interiore che attanaglia l'uomo proprio perchè il bene ed il male possono essere ambedue irresistibili se accumunati dalla bellezza..e a me piace come lo fa, in una maniera che mi sembra molto ironica, da testimone....
RispondiEliminaIl problema, secondo me, è che tolto l'effimero del non esplicitato, effimero perché altamente, totalmente soggettivo quasi fino all'imparzialità (perché tanto più la soggettività si allontana dall'oggettivo e tanto più si può arrivare ad una totale e splendida imparzialità), rimane il messaggio esplicitato nella chiave di lettura. Intendo dire che Sorrentino ha fatto quello che Fellini non ha fatto nel suo film. E come Fellini, non l'hanno fatto Celine, piuttosto che Dostoevskij, piuttosto che Joice, piuttosto che Leopardi, piuttosto che ogni grande scrittore che si sia preoccupato di indagare l'essere umano. Si è preoccupato spasmodicamente di dare una chiave di lettura dall'inizio alla fine del film. La citazione a Flaubert, che diventa stucchevole nel finale, la volontà di indicare ciò che è buono rispetto a tutto il resto, mangiare le radici perché è importante. Ma a me che me ne fotte! Ma se mi leggo Celine e capisco solo quello che posso capire, dove è il problema? Celine non si è preoccupato mica di esplicitare tutti i piani di lettura, Fellini non se ne è preoccupato, per questo motivo ritengo questo film puerile. Perché su tutto in quel preciso momento si è preoccupato di non essere frainteso e in questa preoccupazione, guarda un po', è stato frainteso. È per questo motivo che lo ritengo puerile, per questa volontà inderogabile di spiegare. Non ho bisogno che mi spieghi, non perché sono abbastanza intelligente da comprendere da solo, ma perché mi stai togliendo la possibilità di indagare da me quello che mi hai lasciato e se nella mia indagine tralascio delle cose, non è un problema tuo, non è più un problema di te artista nel momento in cui hai reso la tua opera al pubblico. È come se sotto alla pietà Michelangelo m'avesse messo una targhetta che mi spiega che sto vedendo, quello lo facciamo noi ignoranti di mettere le targhette a ciò che vediamo.
RispondiEliminaho scritto Joice -_- (oltre a tutte le altre enormità)
RispondiEliminaPer rispondere alla tua domanda, così al volo, mi viene in mente Vincere di Bellocchio, che ovviamente è tutta un'altra storia (con la S maiuscola, guarda caso) ma che personalmente trovo decisamente più riuscito.
RispondiEliminaIl confronto però ci porterebbe lontanissimo ed io invece preferirei rimanere su altro un punto.
Non è che io ami necessariamente solo i film perfettamente costruiti, quelli dove i personaggi hanno il loro arco evolutivo perfettamente studiato.
Ho amato ed amo, anche film profondamente "sbagliati".
Perché se è vero che di certi film ci interessano soprattutto i personaggi ( e a Sorrentino interessano) allora questi personaggi non possono evaporare semplicemente perché la loro natura è per così dire vacua.
Quello che ho avvertito,da un certo precisissimo punto del film in poi, è che del personaggio di Gambardella e della sua corte non me ne fregava assolutamente più nulla.
Non sono riuscito a perdermi con il personaggio nella sua ricerca impossibile.
Non sono riuscito a godere del suo "Errore di sistema", come manifestazione del bello.
Come un cavo staccato di netto.
Tutto qua.
La mia sensibilità è molto vicina a quella di Marta. Werther, comprendo quello che dici, un film, soprattutto, sulla bellezza deve mostrare e non spiegare. Però, come vedi, da un lato viene accusato di essere estetizzante, dall'altro troppo esplicito nel "messaggio". Io credo che il dare una risposta, ancorché positiva, o tentarla, indicarla, non sia sinonimo di limite o banalità. La famosa frase "La bellezza salverà il mondo" del Principe Myskin è tratta da un comizio di pagine e pagine in favore della Chiesa Ortodossa. Sorrentino, vuole mostrare luci e ombre, in questo spesso rischia, paradossalmente altro che estetizzazione, rischia proprio di sporcarsi le mani: col banale, col volgare, con lo strappalacrime. Però secondo me questi continui salti mortali (a perenne rischio di scivolata e conseguente figuraccia) li redime, non solo esteticamente, ma anche narrativamente, proprio nell'assenza di una narrazione lineare, ma per suggestioni, impressioni, sfumature. Sfumature, che non sono gag, sfumature che magari usano anche i toni del grottesco e dell'oltraggioso, il cui rischio semmai è quello indicato da Leomacs, l'evaporazione del personaggio nella vaghezza espositiva. Insomma, secondo me Sorrentino ha provato la sfida più difficile, raccontare una contemporaneità, laida e schizofrenica, cercandovi la meraviglia, lo stupore, una paradossale innocenza.
RispondiEliminaRiguardo la risposta sul confronto, ho amato "Vincere", film importante, sottovalutato, Filippo Timi in stato di grazia, formalmente potente e d'indimenticabile impatto visivo ed emotivo. Sicuramente, tra le vette degli ultimi venticinque anni, film d'autore vero. Ma non ha l'ispirazione, l'ambizione (non dico raggiunta) corale, maestosa, d'affresco collettivo de "La Grande Bellezza". Un film stordente, cacofonico, ubriaco sulla solitudine e sulla ricerca della serenità. Un film sulla bellezza che si presenta come un catalogo di sboccate pacchianerie, di miserie interiori sbandierate come gioielli da ostentare. Capisco che per voi è un tentativo fallito, ma in questa contraddizione, colta, vissuta, e poi esposta nei suoi cadenti e sfuggenti rivoli, per me Sorrentino ha issato la bandiera della resistenza artistica nelle rovine contemporanee. Boh, forse perché sò romano;)) (Anzi, molti si sono arrabbiati!)
No, aspetta, quello che dice Leo non si contrappone a quello che dico io, è solo un altro aspetto. Non è che io sto negando una cosa e Leo sta negando il contrario di quello che sto negando io e quindi è vero il contrario. Estetica e messaggio non sono due cose contrapposte per cui se c'è una non può esserci l'altra. In altra sede abbiamo anche parlato dell'aspetto estetico, che è la cosa che più riesco ad apprezzare in Sorrentino, soprattutto se messo al servizio di una storia più concreta (Il Divo) rispetto a La Grande Bellezza.
RispondiEliminaNo, no, chiaro, non volevo utilizzare le vostre argomentazioni l'una contro l'altra, nonostante la foto del profilo che conosci non arrivo a queste vette siderali di supercazzola ahahahah! Notavo solo come la complessità dell'operazione artistica è tale che attira rilievi non contrapposti ma inerenti ad ambiti diversi. E qui si potrebbe chiosare facilmente, come hanno fatto molti, che il film è un fiasco (poco fa scrivevamo con Al Bertino, che ringrazio dei preziosi contributi critici in altra sede, di come ad esempio Ghezzi lo abbia stroncato). Ma proprio perché la forma è il messaggio, alla Mc Luhan, per me tutti i difetti che voi potreste elencare (mancanza di linearità, lacune narrative,vaghezza nell'approfondimento psicologico dei personaggi, ambiguità estetizzante etc.) contribuiscono a farne un significante potente di ciò che il regista vuole mostrare, più che raccontare. Un film accusato di essere snob, laccato,pomposo, fintamente aristocratico, per me invece giunge (anche attraverso l'utilizzo di maschere pericolosissime del cinema nazional-popolare) a una dimensione assolutamente pop, nel senso più alto. Popolare come sono "La Divina Commedia" e "I Promessi Sposi", non banalmente mainstream tipo Madonna, né furbescamente artista alla Warhol. Per me la capriola è riuscita, per voi lo so si vede ancora la polvere per la profondità pterolifera del tonfo. Ma se un film oltre ad essere un quadro per immagini, mi commuove e mi induce all'introspezione, per me l'obiettivo è centrato
RispondiEliminaAHAHAHAHAHAH! Comunque non ti chiederò mai di accompagnarmi in stazione! :-D
RispondiEliminaM'hai convinto che il tuo è proprio amore e poco mi importa sapere un giorno chi aveva ragione. Va bene così. Una delle cose veramente belle per me è vedere da che parte e in quanti modi diversi arrivano gli stimoli e farmi stimolare anche da questo.
Sennò rischi di perdere il treno anhahahhahaha!
RispondiEliminaConcordo con la conclusione, è veramente affascinante!
Ah, no, ho collegato...https://www.youtube.com/watch?v=vK0LwnkGOnw, che sciocco!!
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