Abbiamo già affrontato QUI le motivazioni per cui ogni concerto dei The Musical Box è per noi un evento imperdibile e non una sterile replica di un passato irripetibile.
Non potevamo, dunque, perdere l'occasione di testimoniare ancora una volta il prodigio, stavolta applicato ad una delle nostre opere predilette, Selling England by the Pound. Potremmo scrivere centinaia di pagine sul valore straordinario di quel disco, sulla ricchezza dei suoi temi sociali, sulla complessità (confusa ma generosa) dei simboli evocati dal fermento spirituale del giovane Peter Gabriel, sullo splendore compositivo dei brani.
Ci limiteremo qui a riportare una onesta cronaca dello spettacolo romano della cover band canadese.
La protocollare apertura con Watcher of the Skies sgombra immediatamente ogni consueto dubbio.
L'effetto è straniante, forte è la tentazione di cedere alla metafora della macchina del tempo.
Si sa che ciò a cui si assiste è una recita, eppure tra la bravura degli attori e il transfert dello spettatore, si crea un equilibrio paradossale tra (consentitemi ogni tanto espressioni comuni e anglofone, le regole esistono per essere infrante al momento giusto) wishful thinking e sospensione dell'incredulità: in quel consapevole desiderio d'illusione si manifesta l'epifania di una sfuggente, poetica emozione.
Anche perché, certo, i ruoli sono simulati, ma la musica è vera, suonata dal vivo, si sprigiona arcana e trascinante dagli strumenti a pochi passi da noi, risuonando eterna come la melodia di un'opera lirica alla Scala.
Teoricamente, tale spettacolo dovrebbe essere interessante solo per chi come me, essendo nato alcuni dopo lo scioglimento della formazione originale, non ha mai avuto, e certo non avrà più, la possibilità di vedere quei Genesis dal vivo (con quei suoni, quei costumi, quella vivida esplosione di giovane genio). Per chi, invece, ebbe la fortuna di testimoniare l'autentico miracolo, la grazia d'assistere alle contorsioni da fauno filiforme dell'Arcangelo di nero vestito Gabriel, l'onore di esser membro dell'accolita nostrana di iniziati che per primi in Europa riconobbero la grandezza del gruppo, tale riproposizione in copia carbone dovrebbe apparire triste e insensata.
E, invece, la sala è stracolma di sessantenni, appassionati di progressive. Ma non c'è nostalgia nei loro volti, non c'è rimpianto idealizzante o triste rimembranza.
C'è la serena certezza dell'appassionato, consapevole di stare per assistere ad una impeccabile riproduzione dal vivo della sua musica prediletta.
Come nella sala accanto fanno gli ascoltatori di musica classica o jazz.
È questo il quid dei The Musical Box.
Certo, non si limitano ad essere degli esecutori impeccabili.
Il vero incanto è riuscire a ricreare quell'atmosfera irripetibile, complici i costumi, le luci, le movenze, gli strumenti, tutto rigorosamente d'antan.
Quando i primi versi di Dancing with the Moonlit Knight risuonano in nuda voce nel silenzio religioso dell'Auditorium, il tempo sembra davvero fermarsi.
La progressione melodica, l'assolo di chitarra seminale del tapping, l'esplosione sinfonica del refrain, tutto custodisce preziosamente l'impatto sonoro del brano.Si prosegue non seguendo la scaletta dell'album, ma dell'omonimo tour. Ecco, quindi, The Cinema Show, il brano ispirato alla parte più malinconica de The Waste Land, in cui T.S.Eliot distilla la lezione di Laforgue per illustrare lo squallore dei rapporti umani nel Kali-Yuga.
I know what I like (In Your Wardrobe) scorre via con la sua piacevolezza pop, che nasconde divertiti doppi sensi antiborghesi. Anche qui, fedelissima la riproposizione della mimica di Gabriel nell'introdurre la figura del Giardiniere Cosmico (simbolico falciatore di vite quotidiane, non solo dell'erba alta del giardini all'inglese),
Non appena nella sala risuona l'intro pianistica di Firth of Fifth l'applauso sorge spontaneo, infrangendo la solennità da musica da camera che finora imperava nell'evento.
Singolare che il gruppo considerasse il testo poco riuscito, quando nel brano compaiono alcuni dei versi più memorabili delle canzoni del gruppo (terminato da Banks e Rutheford su idea di Gabriel), una splendida riflessione sul divenire: "il cammino è chiaro, sebbene nessun occhio possa vedere".
Il brano immortale che dà il nome al gruppo, cavallo di battaglia principe di ogni riproposizione (che meritò anche la partecipazione di Phil Collins) è reso col consueto crescendo teatrale, travolgente e sinfonico.
Il concerto potrebbe finire qui (come altre volte), col climax orgasmico e mortale del bimbo invecchiato nel limbo, torturato da desideri inappagati dopo la morte grottescamente violenta, come nella tradizione ebraica del Dybbuk.
E, invece, fortunatamente continua.
Intatta è la magìa di Horizons, un brano musicale in cui la composizione per chitarra acustica di Steve Hackett emette le stesse vibrazioni armoniose di un raga di Hari Prasad Chaurasia o di un quartetto d'archi di Vivaldi: la sala di S.Cecilia è immersa nella silente grazia di una improvvisa meditazione.
La devozione filologica è tale che la band non si risparmia nemmeno The Battle of Epping Forest: un'articolatissima narrazione epico-parodistica di uno scontro fra gang, in cui momenti di intelligenza purissima si mescolano ad eccessivi compiacimenti; gli stessi membri della band la considerarono troppo verbosa, oltre che complicata da suonare dal vivo, a cui va aggiunta la pericolosità della performance di Gabriel, che volava rischiosamente appeso a un filo sul palco (evidentemente, non apprese bene la lezione all'epoca visto il noto incidente a Sanremo nel 1983).
Un percorso poetico-musicale senza raffronti nella Storia del Rock, ispirato al nostro santo protettore William Blake, che attraversa la visione mistica, la denuncia sociale, il cabaret jazzistico, i deliri tantrici per arrivare a una palingenesi epocale, profetica, definitiva.
Un giorno ci scriveremo un libro, sulla grandiosa complessità simbolica di questo brano.
Il concerto si conclude, come da scaletta originale, con The Knife, brano dalle sapienti tinte hard rock, in cui il parossismo accostabile ai migliori The Queen, accompagna uno dei testi più intelligenti di Gabriel sulle dinamiche orwelliane del Potere, quando si ammanta dell'ideale nobile della Rivoluzione.
Al termine, rimaniamo sospesi nell'incanto.
Nonostante non siano gli originali, nonostante tutto sia studiato a tavolino, nonostante sia una replica del passato, ebbene, possiamo annoverare alcuni momenti del concerto (Horizons e il finale di Supper's Ready su tutto) tra le più alte esperienze estetiche che abbiamo mai vissuto, in una vita dedicata all'Arte.
Dopo un bel po' di anni spesi a discutere con quelli che bollavano questo gruppo come una "cover band", mi sento finalmente meno solo. Era del tutto inutile cercare di far capire la non sottile distinzione fra "cover" e "tribute" band (che poi i MB sono ben altro ancora) a certi sedicenti intenditori di musica per i quali chi suona i pezzi altrui è un mentecatto in cerca di facili glorie, largo ai giovani, al nuovo che sa di vecchio e tutte quelle balle lì. Scomodare la filologia mi sembra fuori luogo, mi permetto solo di confermare che ogni concerto dei MB è una esperienza sublime.
RispondiEliminaGrazie mille dell'attenzione e dell''apprezzamento (si, intendevo sinteticamente lo studio minuzioso di testi e spartiti originali).
RispondiEliminaniente di nuovo..la cosa che mi salata piu nell occhio sono i costi vergognosi..cioè si paga piu di steve hackett e peter gabriel..ci rendiamo conto dove siamo arrivati ?! i the wacht nno hanno nulla da invidiare per esempio
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