a Piergiuseppe Caporale
Finalmente arriviamo alla terza e ultima parte di questo tributo gucciniano, conferendo finalmente senso al titolo del trittico che lo compone.
Partiremo infatti dall'analisi dell'ultimo disco del Maestrone, per rievocare picchi e tematiche ricorrenti nella sua ricchissima e costantemente alta produzione.
Iniziamo dalla prima traccia, "Canzone di notte n.4", che dà subito il senso del compimento d'una carriera, raggiunto con giocosa malinconia. Nel disco dell'addio, il cantautore ritorna all'inizio della sua avventura poetica, facendoci rivivere con graziosa ironia i rimbrotti dei genitori al ragazzino dalla fantasia avida di sogno, che passa la notte a leggere invece che a dormire.
La traccia è, proprio numericamente, la quadratura del cerchio delle "canzoni di notte" di Guccini, che hanno scanditole fasi della sua carriera, direbbe lui "da allora sempre diversa ed uguale".
Se la prima, ("Canzone di notte", dal disco "L'isola non trovata") era l'ingresso scanzonato e scettico nel grande mare dell'ispirazione notturna, in perfetta armonia con l'atmosfera crepuscolare del disco ("Mattino o notte, hai perso il tempo,/ la malinconia ti sembra di toccarla, ma forse è l'ora dell' avvento e chiami l' ironia per aiutarla./E forse c'è qualcuno che ora muore, e forse c'è qualcuno che ora nasce,/ qualcuno compie un crimine d' onore, passeggiano sui viali le bagasce./ Bagasce sono i tuoi ricordi che fra canzoni e vino ti disturbano,/ che ti molestano pian piano e il giorno sembra ormai così lontano,/ e il giorno sembra ormai così lontano...."); se la seconda ("Canzone di notte n.2" dallo storico album "Via Paolo Fabbri, 43") era il corrosivo e disincantato inno anarchico, che ha regalato, involontariamente, tanti slogan ai libertari di tre generazioni ("E' facile tornare con le tante/ Stanche pecore bianche./ Scusate, non mi lego a questa schiera:/ Morro' pecora nera."): se la terza ("Canzone di notte n.3" da "Signora Bovary") era l'ironico ripiego interiore di una stagione talmente colma di disillusione da rinunciare a qualsiasi orgoglio di rivalsa ("Ogni giorno è un altro giorno regalato, ogni notte è un buco nero da riempire, / ma per quanto non l' ho mai visto colmato, così per dire,/ resta solo l' urlo solito gridato, tentare e agire,/ ma si pianga solo un po' perchè è un peccato/ e si rida poi sul come andrà a finire..."; quest'ultima, definitiva "Canzone di notte n.4", partendo dal capriccio del bimbo nottambulo (le battute iniziali), e ricordando ovviamente le grandi esperienze passate ("ehi notte, larga e oscura di altre notti/ rabbiose, fatte a morsi, divorate,/ prendendo a gabbo ipocriti e bigotti/ lunghe d'inverno, eterne nelle estati/chitarra e vino e via come cazzotti,/ notti passate"), arriva a vedere la notte come porto della pace agognata, sospesa tra il tuffo nel mistero e il sempre latente cupio dissolvi ("ehi notte, che mi lasci immaginare,/ fra buio e luci quando tutto tace/ i giorni per la quiete e per lottare/ il tempo di tempesta e di bonacce/ notte tranquilla che mi fai trovare forse, la pace").
Proseguiamo con il secondo brano, "L'ultima volta": un nuovo classico della poetica gucciniana della rimembranza.
Si ritrova subito il magistero del grande autore, ormai maturo ed equilibrato.
Ci avvolge familiare quella poesia dai tratti bucolici e domestici, quel canto quasi parlato, intimo e confidenziale, tratto peculiare di recenti capolavori come "Vorrei" e "E un giorno" (anche se chi scrive ne predilige la prima parte, cioè "Culodritto", in cui il cinismo negatore dell'uomo disilluso si scioglie in giocoso stupore di fronte alla saggezza infantile)
La morte, da sempre interlocutore silente dei monologhi gucciniani, appare fin dalla prima canzone, presenza discreta e pacificante, quasi attesa con pazienza nella sua naturale ineluttabilità.
In tutto il disco (fin dal titolo), l'evocazione di quest'orizzonte misterioso, ma non minaccioso, viene declinata nei suoi vari aspetti, a seconda delle diverse ispirazioni che di volta in volta risuonano nel grande animo di questo impenitente Gemelli.
La notte, è da sempre, tempio dell'ispirazione gucciniana.
Come tutti i cantautori (e proverbialmente i poeti, anche se non tutti) Guccini attinge, o meglio quasi vive interamente la sua creatività, in una dimensione interiore, in una atmosfera psicologica ben delineata.
Quella che i sapienti orientali hanno definito, con diversi nomi e sfumature a seconda della dottrina di riferimento: tamo guna, yin, lato sinistro...cioè, il cosmo interiore delle emozioni, dei ricordi, della malinconia, del rimpianto, dei sogni etc...
Guccini è poeta sommo di questo oscuro regno interiore, che tutti quanti, non solo nell'adolescenza, abbiamo visitato.
E da grande conoscitore ha saputo definirlo in versi stentorei, che ricordano la capacità d'introspezione dei grandi scrittori russi di fine ottocento. Ad esempio: "quel male a cui non si dà il nome, un' ossessione circolare fra la volontà ed il non potere". Versi definitivi, tratti da "Canzone per Anna", da sempre uno dei miei brani preferiti, che ho scoperto con meraviglia (come confermatomi dallo stesso Guccini) essere stato scritto assieme a un mio vecchio maestro e amico, Piergiuseppe Caporale, al quale con affetto dedico questo mio scritto.
http://www.youtube.com/watch?v=1oeH3URH4jE
Ma già nel brano precedente dello stesso disco ("Canzone delle domande consuete"), la riflessione sul tema si faceva perentoria e di grande saggezza:
Chi s'aspettava il disco d'un vecchio stanco, disilluso e malinconico, si ritrova un eterno bambino, curioso e adorabilmente disobbediente.
E' bello che il più grande cantautore italiano concluda il suo testamento enunciando a testa alta i suoi versi, e non con un commovente malinconico silenzio.
Il disco si conclude con un tuono (al contrario dei versi celebri di un poeta da lui amato e spesso citato, il T.S.Eliot di "The hollow men": "Questo è il modo in cui finisce il mondo/ Non con uno scoppio ma con un piagnucolio.").
E il rimbombo del tuono (che in India rappresenta l'annuncio della Verità) solenne si spegne nel mistero.
Finalmente arriviamo alla terza e ultima parte di questo tributo gucciniano, conferendo finalmente senso al titolo del trittico che lo compone.
Partiremo infatti dall'analisi dell'ultimo disco del Maestrone, per rievocare picchi e tematiche ricorrenti nella sua ricchissima e costantemente alta produzione.
Iniziamo dalla prima traccia, "Canzone di notte n.4", che dà subito il senso del compimento d'una carriera, raggiunto con giocosa malinconia. Nel disco dell'addio, il cantautore ritorna all'inizio della sua avventura poetica, facendoci rivivere con graziosa ironia i rimbrotti dei genitori al ragazzino dalla fantasia avida di sogno, che passa la notte a leggere invece che a dormire.
La traccia è, proprio numericamente, la quadratura del cerchio delle "canzoni di notte" di Guccini, che hanno scanditole fasi della sua carriera, direbbe lui "da allora sempre diversa ed uguale".
Se la prima, ("Canzone di notte", dal disco "L'isola non trovata") era l'ingresso scanzonato e scettico nel grande mare dell'ispirazione notturna, in perfetta armonia con l'atmosfera crepuscolare del disco ("Mattino o notte, hai perso il tempo,/ la malinconia ti sembra di toccarla, ma forse è l'ora dell' avvento e chiami l' ironia per aiutarla./E forse c'è qualcuno che ora muore, e forse c'è qualcuno che ora nasce,/ qualcuno compie un crimine d' onore, passeggiano sui viali le bagasce./ Bagasce sono i tuoi ricordi che fra canzoni e vino ti disturbano,/ che ti molestano pian piano e il giorno sembra ormai così lontano,/ e il giorno sembra ormai così lontano...."); se la seconda ("Canzone di notte n.2" dallo storico album "Via Paolo Fabbri, 43") era il corrosivo e disincantato inno anarchico, che ha regalato, involontariamente, tanti slogan ai libertari di tre generazioni ("E' facile tornare con le tante/ Stanche pecore bianche./ Scusate, non mi lego a questa schiera:/ Morro' pecora nera."): se la terza ("Canzone di notte n.3" da "Signora Bovary") era l'ironico ripiego interiore di una stagione talmente colma di disillusione da rinunciare a qualsiasi orgoglio di rivalsa ("Ogni giorno è un altro giorno regalato, ogni notte è un buco nero da riempire, / ma per quanto non l' ho mai visto colmato, così per dire,/ resta solo l' urlo solito gridato, tentare e agire,/ ma si pianga solo un po' perchè è un peccato/ e si rida poi sul come andrà a finire..."; quest'ultima, definitiva "Canzone di notte n.4", partendo dal capriccio del bimbo nottambulo (le battute iniziali), e ricordando ovviamente le grandi esperienze passate ("ehi notte, larga e oscura di altre notti/ rabbiose, fatte a morsi, divorate,/ prendendo a gabbo ipocriti e bigotti/ lunghe d'inverno, eterne nelle estati/chitarra e vino e via come cazzotti,/ notti passate"), arriva a vedere la notte come porto della pace agognata, sospesa tra il tuffo nel mistero e il sempre latente cupio dissolvi ("ehi notte, che mi lasci immaginare,/ fra buio e luci quando tutto tace/ i giorni per la quiete e per lottare/ il tempo di tempesta e di bonacce/ notte tranquilla che mi fai trovare forse, la pace").
Proseguiamo con il secondo brano, "L'ultima volta": un nuovo classico della poetica gucciniana della rimembranza.
Si ritrova subito il magistero del grande autore, ormai maturo ed equilibrato.
Ci avvolge familiare quella poesia dai tratti bucolici e domestici, quel canto quasi parlato, intimo e confidenziale, tratto peculiare di recenti capolavori come "Vorrei" e "E un giorno" (anche se chi scrive ne predilige la prima parte, cioè "Culodritto", in cui il cinismo negatore dell'uomo disilluso si scioglie in giocoso stupore di fronte alla saggezza infantile)
La morte, da sempre interlocutore silente dei monologhi gucciniani, appare fin dalla prima canzone, presenza discreta e pacificante, quasi attesa con pazienza nella sua naturale ineluttabilità.
In tutto il disco (fin dal titolo), l'evocazione di quest'orizzonte misterioso, ma non minaccioso, viene declinata nei suoi vari aspetti, a seconda delle diverse ispirazioni che di volta in volta risuonano nel grande animo di questo impenitente Gemelli.
La notte, è da sempre, tempio dell'ispirazione gucciniana.
Come tutti i cantautori (e proverbialmente i poeti, anche se non tutti) Guccini attinge, o meglio quasi vive interamente la sua creatività, in una dimensione interiore, in una atmosfera psicologica ben delineata.
Quella che i sapienti orientali hanno definito, con diversi nomi e sfumature a seconda della dottrina di riferimento: tamo guna, yin, lato sinistro...cioè, il cosmo interiore delle emozioni, dei ricordi, della malinconia, del rimpianto, dei sogni etc...
Guccini è poeta sommo di questo oscuro regno interiore, che tutti quanti, non solo nell'adolescenza, abbiamo visitato.
E da grande conoscitore ha saputo definirlo in versi stentorei, che ricordano la capacità d'introspezione dei grandi scrittori russi di fine ottocento. Ad esempio: "quel male a cui non si dà il nome, un' ossessione circolare fra la volontà ed il non potere". Versi definitivi, tratti da "Canzone per Anna", da sempre uno dei miei brani preferiti, che ho scoperto con meraviglia (come confermatomi dallo stesso Guccini) essere stato scritto assieme a un mio vecchio maestro e amico, Piergiuseppe Caporale, al quale con affetto dedico questo mio scritto.
http://www.youtube.com/watch?v=1oeH3URH4jE
Ma già nel brano precedente dello stesso disco ("Canzone delle domande consuete"), la riflessione sul tema si faceva perentoria e di grande saggezza:
"Rimanere così, annaspare nel niente, custodire i ricordi, carezzare le età; è uno stallo o un rifiuto crudele e incosciente del diritto alla felicità... ".
Brani presi non a caso dal disco "Quello che non...", in cui Guccini, come un teologo negativo che ha smarrito la fede, elenca tutto quello che non siamo più. Nichilismo? Disillusione post-crollo delle ideologie? Più che altro consapevolezza montaliana dell'impossibilità d'affermare il vero.
Posizione apparentemente pessimista, ma che ha le sue radici in una sapienza quasi mistica.
Qui è OBBLIGATORIO ascoltare il capolavoro "Shomèr ma mi-llailah?"
http://www.youtube.com/watch?v=UtnAm2ok6t8
Posizione apparentemente pessimista, ma che ha le sue radici in una sapienza quasi mistica.
Qui è OBBLIGATORIO ascoltare il capolavoro "Shomèr ma mi-llailah?"
http://www.youtube.com/watch?v=UtnAm2ok6t8
Del resto Montale è richiamato esplicitamente fin dal titolo ("Codesto solo oggi possiamo dirti,/ciò che non siamo, ciò che non vogliamo", versi che il suo amico Carmelo Bene diceva essere un plagio da "La Gaia Scienza" nietzcheana), ma è da sempre presenza certa nelle variazioni gucciniani sul concetto di "male di vivere".
Sul brano omonimo, c'è un dato interessante da notare: non solo la musica che accompagna l'elencazione puntigliosa del nostro non-essere è in crescendo, il cantato è pieno e fiero, ma nelle esibizioni dal vivo il Guccio è sempre sembrato energico, quasi allegro nel cantarla.
Al di là della felicità artisticà di aver cosi ben espresso la propria ispirazione, e l'orgoglio di negare ogni dogma assertivo, di qualsiasi ideologia, Guccini ci riporta al paradosso leopardiano (suo riferimento ben più di Montale), evidenziato dal De Sanctis, e già citato in queste pagine:
nel momento in cui ci dice che la vità è un crudele inganno, ci fa innamorare con entusiasmo della bellezza dell'esistenza.
Cosa che non si può sempre dire degli altri cantautori, esaminati nell'articolo precedente, De Gregori e De Andrè.
E' famoso il giudizio di Umberto Eco su Guccini: "Guccini è forse il più colto dei cantautori in circolazione, la sua è una poesia dotta. […] Guccini è omerico, procede per agglomerazioni, ha una gran sfacciataggine nell'osare una metafora dopo l'altra...la sua è poesia dotta, intarsio di riferimenti: che coraggio, far rimare "amare" con "Schopenhauer"!". E chissà se il dottissimo Eco ha notato la grande finezza di Guccini: quella rima (tratta da "Il Frate") è presente in un disco dedicato a Guido Gozzano, che nel suo capolavoro, "La Signorina Felicita", aveva fatto rimare "Nietzsche" con "camicie"...
Queste raffinatezze se le sognano gli altri cantautori.
Come si sognano la profondità psicologica di "Vedi Cara", la costruzione del racconto parallelo di "Amerigo", l'erudizione sognante di "Asia", l'almanacco quasi francescano, ma di un francescanesimo profano e carnale, delle bellezze della creazione in "Canzone dei dodici mesi" (non si può non citare l'esattezza proverbiale della strofa su settembre: "Settembre è il mese del ripensamento sugli anni e sull' età,/ dopo l' estate porta il dono usato della perplessità, della perplessità.../ Ti siedi e pensi e ricominci il gioco della tua identità,/ come scintille brucian nel tuo fuoco le possibilità, le possibilità..."), etc..
Tornando al disco in oggetto, il penultimo brano è "Gli artisti", in cui l'autore tiene a ribadire la propria identità di "non artista, solo piccolo baccelliere" (da "Addio").
Una grande lezione d'umiltà ed ironia, da un artista plurilaureato ad honorem, celebrato da decenni ("io semplice essere umano,/ costretto a costretti ideali,/ sono solo un umìle artigiano e volo con piccole ali."), prima del gran finale.
Perchè di grande, degno finale si tratta.
Un' avventura finale, il culmine dell'eseperienza ulissiaca d'ogni artista autentico, nella perfetta metafora de "L'Ultima Thule", che non a caso dà il titolo all'intero album.
In questo brano, risentiamo, in una prodigiosa sintesi, tutti i pregi dei grandi capolavori gucciniani: la furia creativa della "Canzone dei dodici mesi"; la sapienza magico-filosofica di "Bisanzio" ("E qui da solo penso al mio passato,/ vado a ritroso e frugo la mia vita, /una saga smarrita ed infinita/di quel che ho fatto, di quello che è stato."); le meravigliose suggestioni, poetiche e sonore, di "Asia" ("Io che ho doppiato tre volte Capo Horn/ e ho navigato sette volte i sette mari/e ho visto mostri ed animali rari,/l’anfesibena, le sirene, l’unicorno."); la consapevolezza disillusa di "Gulliver"(Guardo le vele pendere afflosciate/ con i cordami a penzolar nel vuoto,/che sbatton lenti contro le murate/con un moto continuo, senza scopo."); l'epica della conoscenza di "Cristoforo Colombo" ("Ma ancora farò vela e partirò/io da solo, e anche se sfinito,/la prua indirizzo verso l’infinito/che prima o poi, lo so, raggiungerò.") e, ovviamente, "Odysseus" (" Le verità non vere in cui credevo/ scoppiavano spargendosi d’intorno,/ ma altre ne avevo e giorno dopo giorno/se morivo più forte rinascevo.").
Anche se il finale è opposto al grande brano dedicato all'eroe omerico ("si perderà in un’ultima canzone/
di me e della mia nave anche il ricordo."), riecheggia in questi versi l'eternità della creazione poetica.
http://www.youtube.com/watch?v=yW2Zm488hok
Cosa che non si può sempre dire degli altri cantautori, esaminati nell'articolo precedente, De Gregori e De Andrè.
E' famoso il giudizio di Umberto Eco su Guccini: "Guccini è forse il più colto dei cantautori in circolazione, la sua è una poesia dotta. […] Guccini è omerico, procede per agglomerazioni, ha una gran sfacciataggine nell'osare una metafora dopo l'altra...la sua è poesia dotta, intarsio di riferimenti: che coraggio, far rimare "amare" con "Schopenhauer"!". E chissà se il dottissimo Eco ha notato la grande finezza di Guccini: quella rima (tratta da "Il Frate") è presente in un disco dedicato a Guido Gozzano, che nel suo capolavoro, "La Signorina Felicita", aveva fatto rimare "Nietzsche" con "camicie"...
Queste raffinatezze se le sognano gli altri cantautori.
Come si sognano la profondità psicologica di "Vedi Cara", la costruzione del racconto parallelo di "Amerigo", l'erudizione sognante di "Asia", l'almanacco quasi francescano, ma di un francescanesimo profano e carnale, delle bellezze della creazione in "Canzone dei dodici mesi" (non si può non citare l'esattezza proverbiale della strofa su settembre: "Settembre è il mese del ripensamento sugli anni e sull' età,/ dopo l' estate porta il dono usato della perplessità, della perplessità.../ Ti siedi e pensi e ricominci il gioco della tua identità,/ come scintille brucian nel tuo fuoco le possibilità, le possibilità..."), etc..
Tornando al disco in oggetto, il penultimo brano è "Gli artisti", in cui l'autore tiene a ribadire la propria identità di "non artista, solo piccolo baccelliere" (da "Addio").
Una grande lezione d'umiltà ed ironia, da un artista plurilaureato ad honorem, celebrato da decenni ("io semplice essere umano,/ costretto a costretti ideali,/ sono solo un umìle artigiano e volo con piccole ali."), prima del gran finale.
Perchè di grande, degno finale si tratta.
Un' avventura finale, il culmine dell'eseperienza ulissiaca d'ogni artista autentico, nella perfetta metafora de "L'Ultima Thule", che non a caso dà il titolo all'intero album.
In questo brano, risentiamo, in una prodigiosa sintesi, tutti i pregi dei grandi capolavori gucciniani: la furia creativa della "Canzone dei dodici mesi"; la sapienza magico-filosofica di "Bisanzio" ("E qui da solo penso al mio passato,/ vado a ritroso e frugo la mia vita, /una saga smarrita ed infinita/di quel che ho fatto, di quello che è stato."); le meravigliose suggestioni, poetiche e sonore, di "Asia" ("Io che ho doppiato tre volte Capo Horn/ e ho navigato sette volte i sette mari/e ho visto mostri ed animali rari,/l’anfesibena, le sirene, l’unicorno."); la consapevolezza disillusa di "Gulliver"(Guardo le vele pendere afflosciate/ con i cordami a penzolar nel vuoto,/che sbatton lenti contro le murate/con un moto continuo, senza scopo."); l'epica della conoscenza di "Cristoforo Colombo" ("Ma ancora farò vela e partirò/io da solo, e anche se sfinito,/la prua indirizzo verso l’infinito/che prima o poi, lo so, raggiungerò.") e, ovviamente, "Odysseus" (" Le verità non vere in cui credevo/ scoppiavano spargendosi d’intorno,/ ma altre ne avevo e giorno dopo giorno/se morivo più forte rinascevo.").
Anche se il finale è opposto al grande brano dedicato all'eroe omerico ("si perderà in un’ultima canzone/
di me e della mia nave anche il ricordo."), riecheggia in questi versi l'eternità della creazione poetica.
http://www.youtube.com/watch?v=yW2Zm488hok
Chi s'aspettava il disco d'un vecchio stanco, disilluso e malinconico, si ritrova un eterno bambino, curioso e adorabilmente disobbediente.
E' bello che il più grande cantautore italiano concluda il suo testamento enunciando a testa alta i suoi versi, e non con un commovente malinconico silenzio.
Il disco si conclude con un tuono (al contrario dei versi celebri di un poeta da lui amato e spesso citato, il T.S.Eliot di "The hollow men": "Questo è il modo in cui finisce il mondo/ Non con uno scoppio ma con un piagnucolio.").
E il rimbombo del tuono (che in India rappresenta l'annuncio della Verità) solenne si spegne nel mistero.
Ottimo e interessantissimo saggio trittico. Anche se non concordo sui giudizi troppo severi su De André e soprattutto De Gregori, riconosco la lucidità delle argomentazioni.
RispondiEliminaUn appunto su quest'ultima parte: la prima canzone dell'album è "Canzone di notte n.4", "L'ultima volta" la seconda.
Grazie, Tommaso. I complimenti di chi ha un punto.di vista diverso fanno ancora piu' piacere. Effettivamente hai ragione sulla tracklist:-)
EliminaHo corretto la svista, Tommaso, grazie per averla segnalata
RispondiEliminaNel concordare su molti aspetti della tua analisi su testi musiche e influenze dei Cantautori che hai "esaminato", ma nel discordare anch'io sulla penalizzazione di alcune assonanze o influenze (non credo nell'originalità in senso totale o preponderante nella creazione artistica o comunque a volte trovo più interessante un buon "rielaboratore" che non un artista dallo stile fortemente personale o innovativo), ti chiedo cosa ne pensi fenomeno Gaber e se nel caso farai una analisi o un post anche sui suoi (e ovviamente di Luporini) lavori. Ti ringrazio
RispondiEliminaGrazie Spartaco, ti rispondo nel post successivo.
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