Qualche giorno fa sulla colonna destra della prima pagina del sito di “Repubblica” spiccava, tra i goal di Ibrahimovic in modalità Mazinga e le foto dell’arresto settimanale di Linsday Lohan, il ritratto d’una testa mozzata da un forcone, deturpata dai segni di mille torture, rapita in un’espressione d’orrificato stupore.
Era il link alla pagina di XL, dove poter effettuare il download gratuito dell’ebook di “Trama” di Ratigher, uno degli autori più interessanti degli ultimi anni.
E’ un evento degno di nota.
Parliamone.
E’ difficile fare una recensione sulle opere Ratigher, addirittura forse inutile.
Non solo perché egli nei suoi comunicati e nelle sue interviste, dietro il velo della sua paradossale ironia, si mostra un brillante e quasi definitivo critico di sé stesso:
Ma, soprattutto, perché egli sa infondere questa sintesi critica nei personaggi chiave delle sue storie, rendendoli talmente pregni di autocoscienza da diventare la migliore esegesi di se stessi.
Proviamo dunque a dire le cose meno sceme possibile che ci vengono in mente dopo la lettura di “Trama”, senza la pretesa di essere esaurienti o definitivi, ma seguendo il filo delle associazioni che un testo del genere ispira.
Prima cosa da sottolineare è che a Ratigher è riuscito un gioco di prestigio talmente spettacolare da sfiorare la dimensione mistica del miracolo.
Egli prende una trama vista e rivista, letta e riletta, saputa e risaputa, mangiata e digerita in dieci fumetti, cento libri, mille film (in questo senso il titolo è supremamente ironico, quasi si trattasse di una trama talmente nota da divenire la “Trama” per definizione), e riesce a renderla qualcosa di nuovo, originale, insieme commovente e inquietante.
Non è esattamente una cosa facile.
Come quoziente di difficoltà credo equivalga è un triplo salto mortale su una corda di nylon tesa sul pozzo di Sarlacc.
Data la mia intollerabile presunzione, credo d’essere in grado di svelare l’ingrediente segreto che rende possibile l’incantesimo stilistico di Ratigher.
E’ qualcosa che appartiene al tessuto primordiale delle fiabe popolari, e che è stato custodito da pochissimi autori negli ultimi anni (Calvino, Borges, Cortazar ad esempio)
Curiosi, eh?!
Chi ama i tre autori citati sopra avrà già capito…
Anche nell’irrespirabile crescendo ansiogeno, nell’acme della scena più disturbante, nel materializzarsi dell’incubo horror, sempre si avverte il dono di una straniante leggerezza, un distacco narrativo che ricorda la mitezza irreale di Bunuel.
Determinante in questo, è il sapiente uso del flashforward, che sospende (o a volte aumenta) la tensione narrativa, trasfigurando la dinamica degli eventi da inferno vivente a memoria quasi onirica.
Anche qui il miglior commento critico è dell’autore stesso:
“È un espediente che costringe a rileggere il libro e a darne un’interpretazione propria; non è niente di complicato ma credo che questo piccolo sforzo ripaghi il lettore rendendolo maggiormente partecipe. Lo spiego in breve: alla fine di ognuno dei nove capitoli c’è una tavola che “anticipa” il futuro, fino ad arrivare all’ultimo salto temporale che conduce oltre la fine della storia disegnata. Nella prima stesura della sceneggiatura questo “trucco” non c’era; concludevo ogni capitolo con un climax che spingesse il lettore a non poter interrompere la lettura. Uno stratagemma antico che a me ha sempre catturato. Ho inserito anche i salti temporali perché volevo che la storia fosse pienamente raccontabile solo con il mezzo fumetto. Se venisse infatti tradotto il libro in qualsivoglia altra forma narrativa sono convinto che l’espediente non funzionerebbe altrettanto bene. Del nuovo interesse che gravita intorno alle graphic novel e compagnia bella trovo che l’aspetto più fecondo sia un rinnovato interrogarsi da parte degli autori sulle possibilità esclusive della narrazione a fumetti; ho dato il mio contributo.”
Questo accorgimento determina uno strano effetto di accelerazione narrativa, che dà quasi per scontato lo sviluppo della vicenda principale, per differire il mistero su ciò che accadrà dopo.
(in realtà un trucco adoperato già nella altrettanto famosa scena della visione di Bob che attacca la cugina di Laura Palmer in “Twin Peaks” e che si ritroverà anche in “Inland Empire”).
Ratigher ha una capacità magistrale di catturare il tedio, il senso di vuoto nel quotidiano, lo strisciante disgusto dell’esistenza, che in molti abbiamo esperito, specialmente chi fra noi è stato timbrato con l’ingombrante etichetta di “bambino precoce”.
In “Paura della morte”, le tavole del bimbo (non ancora trasformato nel personaggio di cui tratteremo tra poco) che ascolta in spiaggia il dialogo della sua baby- sitter e del suo rude boyfriend, hanno per me la statura del classico (QUI)
Proprio per questa grande abilità icastica dell’autore, ho trovato, tra le scene più interessanti di “Trama”, quelle paradossalmente escluse dal flusso narrativo. Le poche tavole, cioè, in cui viene rappresentato il party degli amici ricchi (meta e salvezza mancata dei protagonisti).
In pochi tratti Ratigher mostra la crudele spensieratezza della mondanità opulenta, la cui vuota allegria fa da controcanto all’incubo del filone narrativo principale, e riesce a rendere in tre passaggi tre (!) l’aberrante superficialità di un mondo che ci appare degno d’essere distrutto.
Sia l’approccio che l’esito dello sguardo ratigheriano sul mondo dei ricchi si configurano come forze eguali e contrarie alla testimonianza classica di F.Scott Fitzgerald.
Qui le dinamiche sono opposte ai racconti del grande autore americano: disgusto invece di fascinazione, furia invece di desiderio.
Qui abbiamo i personaggi che escono da quel mondo a seguito di una traumatica, allucinata consapevolezza, al contrario degli antieroi fitzgeraldiani, che invece se ne innamorano irreparabilmente e fanno di tutto per entrarvi, in preda a un sogno ingannevole.
Le conclusioni, però, sono medesime: disperazione e tragedia.
Lungi dall’essere il semplice cantore dell’età del Jazz (sarebbe come ridurre Stendhal a descrittore di paesaggi italiani), Fitzgerald è un gigante della letteratura del Novecento.
E’ uno dei pochi autori la cui grandezza forse non si intuisce alla soglia dei vent’anni, ma appare mastodontica superata quella dei trenta.
Egli è l’autore che ha disvelato il crudele inganno del benessere, l’abisso interiore della società consumistica, vivendone, dopo averne incarnato la bellezza e il fascino, nella propria anima le cicatrici feroci dell’ illusione.
Uno dei tratti del suo genio è quello di rendere l'orrore per la desolante povertà interiore dei “ricchi”, l'ingiustizia fondamentale e la paradossale alienazione della loro condizione, descrivendole dal di dentro della ricchezza.
F.Scott Fitzgerald |
Uno dei tratti del suo genio è quello di rendere l'orrore per la desolante povertà interiore dei “ricchi”, l'ingiustizia fondamentale e la paradossale alienazione della loro condizione, descrivendole dal di dentro della ricchezza.
Leggetevi “Il diamante grande come il Ritz”, in cui la paranoia, il delirio, l’arbitrio crudele della violenza provengono tutti dalla parte dei “ricchi”.
In questo racconto, Fitzgerald realizza la meravigliosa centratura, taglia il nodo invisibile del più grande inganno, denuda il trucco tragico dell'American Dream.
Contemplate il finale grandioso, quasi un delirio pagano in cui il fallimento dei personaggi è esposto sotto l’evidentissima metafora della montagna/diamante, l’apocalisse del materialismo che sprofonda nel suo stesso gorgo.
Fitzgerald, come i suoi personaggi, non aveva bisogno del Bimbo Fango come giudice, come specchio crudele e ineluttabile della propria vanità.
Lo specchio davanti alla sua putrida deformità lo mise davanti a tutto il mondo, pubblicando nel 1936 sull’”Esquire” i saggi poi raccolti in “The Crack-up”.
Appunto, il Bimbo Fango.
E’ questa la creazione cruciale delle storie di Ratigher.
L’autore lo ha definito “ un monito per tutti noi”.
Non dirò nulla sulla genesi del personaggio, per chi non ha letto (c’è il link sopra) “Paura oltre la morte”, più che uno spoiler sarebbe un crimine contro l’umanità.
Però darò per scontato che ne conosciate i tratti fondamentali.
Bimbo Fango crocifigge i personaggi alla loro meschinità, li avvolge nello stesso destino al quale è stato condannato, facendone schiavi eternamente torturati dal loro pavido egoismo.
E’ l’Incarnazione del senso di colpa
Egli si manifesta contaminando il prossimo del senso del peccato, di cui egli è il marchio vivente.
Bimbo Fango è la gogna ambulante pronta a farsi specchio deforme ma limpidissimo d’ognuno (“io vi indosso. La mia pelle è fatta di colpa”).
La sua presenza spietata, sardonica, beffarda diventa, sotto il ricatto della paura e della violenza, un auspicabilissimo obbligo all'introspezione.
Introspezione non solo del malcapitato individuo, ma intesa come analisi implacabile della società-inferno tutta, pullulata di comunissimi inconsapevoli mostri (al rampollo nel dialogo iniziale Bimbo Fango dice “Normale sono io!”)
La mostruosità deforme del Bimbo Fango (orribile, sadico, delatore) non solo è nulla rispetto alla violenza ferina e insensata della gang dei camionisti, ma è soprattutto nulla rispetto alla mostruosità vera, al deserto morale dei “ricchi drogati”, persi nell'”infinita vanità del tutto”.
Un confronto che, se certo non ci fa simpatizzare per gli odiosi camionisti torturatori, sicuramente dà al giudizio inflessibile e spietato del Bimbo Fango una più alta dignità spirituale.
Egli non è solo una super sintesi raffinatissima dei fantasmi horror, è più una versione grottesca e disperante dell’Angelo Sterminatore.
Non a caso, ancora Bunuel.
(a proposito, tutti citano, Woody Allen compreso, la trama del film omonimo come esempio del surrealismo bunuealiano. ma l’idea che l’ha ispirato è di Jose Bergamin…si si proprio, lui, il genio che ha scritto “Decadenza dell’analfabetismo”!)
Straordinariamente interessante è anche il motivo della condanna/trasfigurazione di Bimbo Fango: la sua sincerità.
Sono paradossalmente la sua innocenza e il suo candore a confessarne la colpa. Egli è condannato perché si dichiara colpevole, e si dichiara colpevole poiché è innocente.
C’è un racconto di Villiers De L'Isle-Adam, molto amato da Carmelo Bene (come quelli del già citato Fitzgerald), “Il desiderio di essere un uomo”, in cui il protagonista, un vecchio attore a fine carriera stufo di vivere artificialmente emozioni altrui, vuole togliersi l’immorale capriccio di provare davvero intensamente il rimorso. Per questo, mette a fuoco un quartiere di Parigi, moltiplica stragi, incidenti…eppure nulla s’affaccia a turbare il suo animo.
In uno dei suoi interventi più neri (e discutibili), Bene chiosando sul raccontino, conclude:
“L’etica non ha senso di colpa, ne rimorsi.”(lo trovate QUI)
Perdonate ora una digressione, o meglio un approfondimento, ma siamo arrivati ad un nodo cruciale.
Il senso di colpa è talmente penetrato, come un morbo purulento, nella nostra cultura, da farci credere che esso sia sempre esistito, sia connaturato all’essere umano, alla sua psiche, alla sua coscienza.
E’invece un prodotto a tavolino, scientemente realizzato da menti raffinatissime.
Il brevetto è della premiata ditta Paolo e Agostino (rispettivamente di Tarso e d’Ippona): il primo ha installato il software, il secondo, secoli dopo, ha realizzato l’upgrade.
E’ evidente a chiunque usi il cervello come il senso di colpa sia in realtà solo un fardello inutile, una comoda giustificazione per continuare a sbagliare, a non affrontar noi stessi e le proprie debolezze, con la nobile scusa di riconoscersi peccatori.
Un cappio untuoso e soffocante, che c’impedisce di ergerci nella nostra maestà d’esseri liberi.
Un marchio che ha ustionato le coscienze come vacche da macello per la grande fattoria globale dell’ impero della Chiesa.
Se la religione è l’oppio dei popoli, il senso di colpa e' la pipa che lo rende inalabile a tutti.
Ma non vale per tutti.
Guardiamo all’Oriente.
Ad esempio, ad un'arrogante mente occidentale la religiosita' indiana può apparire, col suo complicato e colorato pantheon di caste deita', poco più di una fiaba infantile, dai tratti allegorici elementari
Però, a parte l’orrore anacronistico delle caste e alcune discutibili pratiche folkloristiche concernenti il darsi fuoco in caso di vedovanza, l’ impianto teologico dell’ induismo ha mantenuto una purezza spirituale sostanzialmente intatta.
Si potrà obiettare che il popolo è mantenuto nell’ignoranza, ma lo è nella semplicità d’ una devozione spontanea colma di poesia e stupore.
Senza incubi infernali.
Senza il ricatto continuo del senso di colpa.
Non sto parlando di differenza culturali in senso alto, accademico.
Non mi riferisco fatto che noi abbiamo avuto i cupi Paolo e Agostino e loro il divino Shankara. O meglio questa differenza non ha segnato solo la storia e l’indirizzo delle rispettive teologie.
Parlo di un abisso che segna profondamente la cultura, i codici, i comportamenti, in breve l’identità di un popolo, anche nel quotidiano.
Non so quanti di voi abbiano avuto occasione di visitare Mumbai, al cui confronto i Quartieri Spagnoli di Napoli sembrano il centro di Lugano.
Ma chi c’è stato potrà confermare ciò che sto per dire.
Un indiano può tranquillamente provare a rubarti il portafoglio, e una volta scoperto, invitarti col sorriso a venire a prendere un the a casa sua.
Non ha senso di colpa. Proprio non c’è, non sanno cosa sia.
Il senso di colpa è una maledizione tutta nostra.
E vero che senza di esso non avremmo avuto Dostoevskij, ma è pure vero che forse Fedor avrebbe avuto una vita più felice.
Tornando a “Trama”, visto che abbiamo parlato di violenza e rimorsi, è il caso di evidenziare una grande finezza formale.
E’ apprezzabilissima la scelta di non mostrare la violenza.
Finalmente qualcuno che ha capito che è molto più inquietante farne intuire prima il terrore crescente, e dopo mostrarne i segni devastanti.
Una scelta opposta a tanto finto iperrealismo di moda, che ci imbottisce gli occhi di bruttezza e gratuiti orrori.
Una scelta apparentemente simile, ma che nella sostanza si pone agli antipodi da Haneke, e il suo voyeurismo malato (e camuffato), mascherato da denuncia sociologica.
Una scelta di stile e d’intelligenza classica, che libera “Trama” dall’equivoco horror, e la restituisce, come dice l’autore,
alla tradizione del thriller.
Secondo me, però, ci sono radici più alte e nobili.
Ratigher ha imparato una lezione importante da un grande maestro, spesso saccheggiato in silenzio.
La lezione è quella, insuperata, de “Lo straniero” di Albert Camus: mostrare l'assurdo, fino alle sue estreme conseguenze, con uno sguardo calmo, compassato, quasi olimpicamente indifferente.
Albert Camus |
Qualcuno già ha correttamente riconosciuto (QUI) l’influenza di Albert Camus su alcuni importanti autori di fumetti contemporanei, ad esempio Daniel Clowes:
In realtà, io credo che se Clowes avesse letto bene “Lo straniero”, beh, avrebbe scritto “Trama”.
Daniel Clowes |
Siccome non mi piacciono le frasi provocatorie ad effetto, mi spiego meglio.
Ora, tutti conosciamo il talento eccezionale del fumettista di Chicago (definito meravigliosamente da Lorenzo Ceccotti “il perfetto incrocio tra Woody Allen e David Lynch”). Pochi come lui (non solo nel fumetto, ma anche nel cinema e nella letteratura) hanno saputo mostrare con elegante ironia i tic dell’America, il disagio esistenziale, le crisi adolescenziali, lo smarrimento generazionale etc… senza però scadere in compiacimenti banali, al contrario annientandoli con affilatissimo umorismo.
C’è sicuramente qualcosa di Clowes, come c’è senza dubbio molto Charles Burns, in “Trama” di Ratigher.
La differenza è che in Clowes si parte sempre (con risultati spesso aurei) da un’ispirazione autobiografica.
Il perfetto cosmo delle storie di Clowes nasce e si conclude in una consapevole autoreferenzialità.
Non solo riferita alle proprie esperienze personali, ma in generale alla propria cultura di riferimento, cioè a quella popolare americana.
In “Trama”, come in quasi tutte le opere di Ratigher, avvertiamo invece quel dono cui abbiamo accennato all’inizio: la grazia del distacco. La capacità di esporre anche la storia più cruda, disturbante, soffocante, con la calma onnisciente del cantastorie eterno.
Dalla prima tavola di “Trama” si avverte l’indifferenza cosmica, quasi meditativa, che si respira nell’ultima pagina del romanzo di Camus.
Agisce in “Trama”, come in tutte le storie del Bimbo Fango, un potente contrappasso, una legge morale senza redenzione, un Ultimo Giudizio in cui l’unica destinazione possibile è l’Inferno.
Per questo il Camus di riferimento è quello de “Lo straniero” e non quello, forse superiore, de “La Peste” (in cui comunque, come nell’ultimo Leopardi, c’è forse una risposta al Male nella solidarietà fra gli uomini).
L’assurdo della vita si manifesta e ci inchioda alle nostre colpe, delle quali siamo inconsapevoli, nella grigia indifferenza del tutto.
L’unico modo per uscire dall’incubo è dis-indentificarsi con sé stessi, e rivoltarci (sempre Camus) contro tutto ciò che ci hanno insegnato e che noi stessi abbiamo rappresentato.
Qui siamo di fronte a un messaggio profondo, raccontato benissimo.
Dunque: una storia di profonda intelligenza nei contenuti,
formalmente impeccabile, narrativamente magistrale.
E’ pure gratis. Leggetela.
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