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giovedì 14 marzo 2013

"Tempest"- la quiete del saggio dopo la tempesta del genio



Sono passati molti mesi dalla pubblicazione di "Tempest", l'ultima opera del più grande artista popolare, a mio avviso, dell'ultimo secolo, Bob Dylan.
Mesi di ascolto quasi quotidiano, in cui antiche riflessioni e intuizioni improvvise hanno danzato nella mente, alternandosi nel più scomodo dei ruoli: essere la guida che incerta tiene la lampada ("always carry a lightbulb!") nel labirinto oscuro, irto di insidie ma gravido di tesori nascosti, della filologia dylaniana.
In molti, e con grande competenza, si sono cimentati nell'immenso sforzo di ricomporre lo sterminato mosaico di citazioni, riferimenti, omaggi al limite del furto, serissimi giochi e continui rimandi all'intera tradizione della cultura popolare, non solo, americana, che Dylan ha, stavolta più che mai, ricamato come un dispettoso cabalista.
Giunti alla fine della loro paziente ricostruzione, gli speranzosi ricercatori (a cui va tutta la nostra rispettosa solidarietà) hanno atteso l'illuminazione definitiva, trepidando nel posizionare l'ultimo, agognato tassello, che avrebbe finalmente rivelato il grande disegno d'insieme...
Ma si sono ritrovati ancora una volta davanti, come la mappa necessariamente incompleta d'un percorso infinito, l'enigma che da sempre sfidano invano, l'immagine che puntualmente li irride nel suo mistero.
 Il volto, più ambiguo della Gioconda nel suo beffardo sorriso, della Sfinge dylaniana.

Come il Nostro all'apice della sua leggenda, non ci rimane che accettare il caos, sperando che esso accetti noi. Perdersi nel labirinto, rinunciando alla mappa, danzando nella tenebra, evitando le sabbie mobili dell'esegesi, ma abbandonandosi estaticamente all'ascolto, lasciando risuonare l'eco interiore dei versi, confidando di trovare per caso, magari inciampandovi, lo scrigno magico della verità simbolica.


Più che una recensione, lo stralcio d'un diario intimo, più che una critica, appunti dettati da un ascolto interiore.




Come il volto della statua (un particolare del fiume Moldava, rappresentato come una giovane addormentata, del basamento della Pallade Atena di Vienna) lo è nel rosso della copertina, la grazia stentorea del magistero compositivo dylaniano è qui immersa nel sangue, il flusso dell'ispirazione è avvolto dalla morte, sotto lo sguardo severo e ardente della Dea della Sapienza.

La Verità testimonia, nella sua potente eterna saggezza, lo scorrere perenne della sofferenza e del dolore umano.

Già ho scritto altrove, parlando sempre di Dylan, non possiamo pretendere che il nuovo disco di un'artista della sua potenza iconica possa avere l'impatto  rivoluzionario dei suoi dischi storici. 

Se tutti hanno dovuto fare i conti con la grandezza del modello dylaniano, figuriamoci Dylan stesso (questo vale per qualsiasi genio rivoluzionario raggiunga la vetta in qualsiasi campo, da Orson Welles nel cinema a McEnroe nel tennis). Egli ha dunque dovuto combattere, come già scrissi, "con genio per non diventare il poeta alessandrino di sè stesso" (verrebbe da aggiungere col suo stesso genio, come preannunciato in uno dei suoi tanti capolavori nascosti, "Where are you tonight?": "i fought with my twin, that enemy within, 'til both of us fell by the way") .

Come ogni vero sapiente esoterico (vedasi la citazione di Carlo Tenca in calce a "Il Cimitero di Praga" di Umberto Eco, laddove si dice "...gli episodi sono pur necessari, anzi costituiscono la parte principale di un racconto storico...e...hanno il pregio di sviare più che mai la mente del lettore dal fatto principale"), Dylan ha spostato l'attenzione dall'essenza segreta del disco, consegnando alla 
storia brani destinati a una facilissima celebrazione, a divenire evento mediatico obbligatorio ("Dylan scrive una canzone di 14 minuti sul Titanic!", "Dylan scrive una canzone per John Lennon!").
Oppure, dissimulando il messaggio dirompente dietro l'innocua apparenza di un motivetto anacronistico come "Duquense Whistle".
Per me le vere gemme del disco sono altre, non "Roll on, John" (qualcuno ha mai riflettuto che l'ultima cosa che fece Lennon in pubblico fu la parodia del suo antico mito e amico Dylan appena convertito al Cristianesimo?! Questo spiegherebbe i 22 anni di riflessione...), nemmeno la title-track sul Titanic, che è in realtà una magistrale trasposizione in rima del film di Cameron.
I diamanti, oscuri e taglienti fino allo sfregio,  per me sono "Tin Angel" e, soprattutto, "Scarlet Town". La prima è una sontuosa "murder ballad", ipnotica come un richiamo infernale, in cui scorrono e confluiscono in una possente ispirazione tutte le grandi storie d'amore tragiche che hanno puntellato il cammino del grande cantautore, da "She died of Love" a "Black Jack Davey", passando per "Lily, Rosemary and the Jack of Hearts", capovolta però nel suo rovescio anti-eroico e noir.
La seconda è, accanto a "Missisipi" ed "Ain't talkin'", il brano dell'ultimo ventennio dylaniano che porrei a fianco, per intensità, ricchezza d'immagini e possesso formale, a classici assoluti come "Dirge" o "Wedding Song". Un microcosmo colmo di contraddizioni eppure perfettamente conchiuso, una Macondo per gnostici disillusi, dove il Bene e il Male si mescolano nel cuore degli uomini sotto forma di fedeltà e vizio. Una città al di là del tempo e dello spazio, che forse solo chi ha percorso fino in fondo "Desolation row" può arrivare a visitare. 
Le altre tracce non fanno altro che rendere compiuta e definitiva l'opera di costante rielaborazione che il grande cantautore fa da ormai più di 20 anni di tutta la tradizione a lui antecedente: "Early Roman Kings" come "Beyond here lies nothin'" è una variazione interessante su accordi celeberrimi; "Narrow way" e "Soon after midnight" sembrano l'evoluzione e l'aggiornamento degli omologhi brani, per genere e tematiche, di "Love and Theft" e "Modern Times"; "Long and wasted years" è un'amara riflessione sulla caducità dell'amore, come decine di notevoli precedenti da "Infidels" in poi, passando per "Oh, Mercy", fino all'ultima Trilogia del Disincanto.
Un'ultima considerazione su un aspetto che meriterebbe da solo un libro a parte (e in effetti è stato fatto, un importante libro di Alessandro Carrera "La voce di Bob Dylan -una spiegazione dell'America"!): la voce di Dylan. Quella voce irriconoscibile, ormai così luciferinamente arrochita, strozzata in un ghigno sardonico o intenerita in una ironica posa da crooner, che per anni dal vivo abbiamo maledetto come una fornace deformante che tramutava gli altissimi versi in grugniti inintellegibili, ora finalmente è  il medium perfetto, posseduto e modulato con paradossale maestria canora, per amplificare il furore veterotestamentario di questi novelli "proverbi dell'Inferno".

Ma, fedele all'assunto iniziale, non vorrei dilungarmi in sterili interstardimenti filologici, per ampliare la riflessione all'ultimo Dylan in genere.


Il disco segna una maturità raggiunta nel nuovo percorso della inesauribile creatività dylaniana.

Una creatività che ha conquistato, nel biennio '64-65, vette mai più raggiunte, per nitore, universalità e prolificità, da nessun altro artista contemporaneo. Come una reincarnazione di RimbaudDylan ha bruciato tutte le tappe della musica popolare, stracciando codici, bruciano regole, creando nuovi linguaggi, rifondando una tradizione (quella del flok e del blues) e iniziandone un'altra (quella del rock). Tutto ciò in pochi mesi, nei quali ha composto una serie di capolavori impressionante non solo per numero, ma per diversità d'ispirazione, stile e orizzonte (si pensi ad esempio a "Chimes of Freedom", "Mr. Tambourine Man" e "Like a Rolling Stone").
Uno stato di grazia artistica assoluto, per molti aspetti senza riscontri.
Un collegamento Fastweb con l'Inconscio Collettivo.
E poi, conosciamo il racconto, l'invenzione del concetto di rockstar, l'esaltazione e l'eccesso dell'ego, il Destino che gioca la carta della più facile metafora: quando si va troppo veloce si va a sbattere, e si rischia la distruzione. La parabola d'un pre-Ziggy, ma risorto, redento e trasfigurato, che ritorna dal regno dei morti per iniziare la più grande e difficile opera di decostruzione che si possa mai immaginare: quella del proprio mito.
Con la consapevolezza del predestinatoDylan sa perfettamente di aver smarrito quella connessione mistica con l' Inconscio Collettivo (magnificamente descritto come "magica fonte perpetua di creatività").  E' il tema del più grande, a mio modesto avviso, capolavoro dell'ultima stagione dylaniana: "Ain't talkin'"Già dal titolo, un richiamo al silenzio mistico, nel paradosso, da koan zen, di scrivere 18 strofe per dire che non si sta parlando (si ricordi la famosa obiezione di un poeta satirico cinese che, al famoso detto "Colui che non parla sa, colui che parla non sa", rispose che il sapiente che l'aveva detto aveva scritto un libro lunghissimo...).

Lo smarrimento nel giardino deserto, abbandonato dal Giardiniere, è la più potente metafora della Caduta gnostica che un poeta (post) moderno e contemporaneo ci abbia consegnato.

Il Giardino mistico, antichissimo simbolo, non è solo, chiaramente, l'Eden, ma il Sahasrara, il loto dai mille petali della tradizione yogica e buddista, sede dell'armonia dei contrari, del contatto con il Divino, la Rosa Candida interiore, il Calice del Sè, allegoricamente il vero Graal.
Il castissimo talamo delle nozze alchemiche, definito poeticamente nelle Upanishad come la sede della Devi, il Tempio dell'intelletto illuminato dalla luce dell'Atma.  Non una metafisica Terra Promessa, non un vagheggiato Iperuranio, ma un luogo interiore.
 Come magnificamente descritto dal sublime poeta Kabir:
"Non andare al giardino dei fiori !
Oh amico! Non andarci !
E' dentro di te il giardino dei fiori !
Siediti sui mille petali del loto
E da lì contempla l'infinita bellezza."
(libera trad. mia)

Dylan ci descrive per lampi poetici, degni a tratti del suo amato Blake ("It's bright in the heavens and the wheels are flying/ Fame and honor never seem to fade/ The fire's gone out but the light is never dying/ Who says I can't get heavenly aid?"), la visione di sé stesso smarrito nel proprio Sahasrara, alla ricerca di un'illuminazione perduta. Un tema che ritorna ossessivamente fin dai tempi di "Time out of mind",  dacché in calce a tutte le composizioni dylaniane degli ultimi 20 anni si potrebbe mettere il verso: "While I’m strolling through the lonely graveyard of my mind"

  ("Can't wait"). Da questa frattura invisibile, da questo esilio spirituale, d'un viandante condannato a vagare nel proprio deserto interiore, nelle rovine della propria passata gloria, nasce l'immensa meditazione pessimista dell'ultimo Dylan.
Forse il "Never Ending Tour" è un disperato divertissement,  per sfuggire alla tortura del pensiero, per cercare d'afferrare il presente nell'attimo svanente di una variazione continua, lottando corpo a corpo ogni sera col demone gemello della propria leggenda.
Sia chiaro, per il sottoscritto queste non sono mere speculazioni. Dylan queste cose le sa.
Se non le sa, come io credo, consciamente attraverso il suo ininterrotto percorso di ricerca spirituale, che lo ha dichiaratamente condotto a visitare, almeno simbolicamente, i sibillini porti della Massoneria (si pensi alla famosa introduzione su Charlie Walker in "Theme Radio Hour", conclusa con "Preach on, my brothers"....che si riferisca a questo nella strofa "All my loyal and much-loved companions/ They approve of me and share my code/ I practice a faith that's been long abandoned/ Ain't no altars on this long and lonesome road"?!)...  se non le sa, ripeto, consciamente, le conosce nella luce della esperienza interiore, come spiegato mirabilmente da Jung in questa celebre intervista (4.39)
La perdita della connessione, la nostalgia dell'unione (spesso mascherata simbolicamente, come nel Cantico dei Cantici e nel sufismo, da desiderio amoroso) è tema che già ispirava le più riuscite composizioni degli anni'70, ad esempio nella già citata "Where are you tonight?" , o venendo tradotta sensualmente con irriverenza erotica in "Tough Mama"
Per non citare quella meravigliosa cavalcata onirica, sospesa tra iniziazione e profezia, di "Changin' of the Guards".
 Non solo come Dante e i poeti medievali che conosce e cita, ma soprattutto come la tradizione chassidica che scorre nella sue vene gli ispira, Dylan sa che la presenza del divino è (o si manifesta) nel femminile, e a questo aspetto si rivolge or come amante, or come sorella, or come madre, per saziare la sua sete di spiritualità. A volte confondendo i ruoli, 
nell' "errare-errore" che lo rende, purtroppo per lui, più che a Dante vicino a Petrarca (non a caso lo omaggerà nel racconto d'un amore impossibile eppure sempre ricercato, "Tangled up in blue":"Then she opened up a book of poems/And handed it to me/ Written by an Italian poet/ From the thirteenth century/ And every one of them words rang true/ And glowed like burning coal/ Pouring off of every page/ Like it was written in my soul from me to you"). 
Altre volte, con cristallina ispirazione, come nell'immortale "Shelter from the Storm",  dove all'apice del canto mistico confessa la sua hybris ("Now there's a wall between us something there's been lost/ I took too much for granted got my signals crossed").
Nel confuso, spesso, ma sempre fecondo sincretismo dylaniano, Iside è madre e sposa ("this is a song about marriage, it is called "Isis"!) , ed è archetipicamente anche Maria Christi sponsa (come canterà alla moglie Sara, con involontaria ironia poco prima del divorzio: "radiant jewel/mystical wife"). Se in "Ain't talkin'" rivolgeva alla Madre una preghiera sconsolata (I'm trying to love my neighbor and do good unto others! But oh, mother, things ain't going well"), all'inizio di "Tempest", album quasi omonimo d'una commedia shakespeariana ma in realtà nero come le più fosche tragedie del Bardo, nel momento del cambiamento, della crisi violenta ("when the wind of changes shift"), appare una materna nota di speranza: "I can hear a sweet voice steadily calling/ Must be the mother of our Lord".
La quiete del saggio dopo la tempesta del genio.

P.S.

Oggi con mio immenso piacere e grande onore iniziamo su questo blog una collaborazione spero duratura, con un artista che considero, oltre che ben più di un amico (un fratello d'intelletto e cuore),  non solo uno dei più grandi talenti viventi in Italia, ma anche una mente critica di rara lucidità e analisi: Lorenzo Ceccotti.
In questa sua duplice veste, ci dona l'illustrazione in testa al post, questo suo personale ritratto-riflessione, per me la più bella sintesi concettuale di Dylan mai fatta, che mostra perfettamente la ricchezza sapienziale dell'icona dylaniana.
Mi ha scritto, infatti: "In questo disegno c'è un triplo inside joke su "the answer is blowing in the wind": quelli che noi chiamiamo strumenti a fiato, o fiati, in inglese si chiamano "venti" (winds). M'ha sempre affascinato i titolo di questa canzone, cantata da un suonatore di armonica come Dylan, che con un gioco di parole da quattro soldi, me ne rendo conto, "blows into the wind". Percepire nell'aria la verità e cercare di catturarla con una melodia fatta esclusivamente della stessa aria in risonanza, distillando, attraverso l'armonica e il corpo come fosse un alambicco alchemico, l'anima in una armonia.
Ah dimenticavo: e infatti il psi (la lettera dell'alfabeto greco) che sta sull'armonica rappresenta il soffio vitale (psyche) che si ramifica nella vita, così come il soffio vitale monofonico nelle note in armonia nel disegno (da un suono a 10 suoni accordati) o come nella menorah, da uno a 7 (sempre a forma di psi), o l'albero in generale, dove da un elemento nasce una moltitudine. Che poi nell'arte è il solito concetto di lasciarsi attraversare dai significati e cercare di acchiapparli con la rete più fitta possibile, cercando di non farsi scappare nulla, nessun dettaglio."
Se siete interessati a comprarne una stampa o entrare in possesso dell'originale potete farlo qui.

sabato 15 dicembre 2012

Ancora sulla Triade e Il Maestro...


Avevo cominciato a rispondere al commento di Spartaco Lombardo sul post precedente (lo trovate qui), ma siccome poneva temi molto interessanti, il discorso si è allargato e ha raggiunto le dimensioni di un post breve (almeno per i miei standard, chilometrici finora):

Caro Spartaco, grazie per la tua attenzione.
Grazie anche per darmi la possibilità di chiarire un punto cruciale (differenza e rapporto tra originalità, qualora possibile come plausibilmente tu interroghi, e "plagio" o influenza dominante). E' un tema che merita di essere sviluppato con cura, quindi ora mi limiterò a brevi cenni, mi, e ti, riprometto di affrontare presto con la dovuta attenzione la questione. Ora, in breve: nel momento in cui prendo Dylan a pietra di paragone, in realtà già dò per "scontato", o implicito, un discorso sull'impossibilità d'essere integralmente originali. Il Dylan saccheggiato da De Gregori, o che ha  influenzato pesantemente De Andrè (e mille altri) potrebbe (ad una valutazione superficiale) essere lui messo sul banco degli accusati, con imputazioni pesantissime (infatti in America lo è stato da sempre, più che mai negli ultimi tempi): è stato da giovane  il primo ad essere una sorta di "scimmietta" dei bluesmen alla Leadbelly, inventandosi la storia finta del suo viaggio da hobo, come un bambino fanfarone (azzeccata in questo senso la scelta di "I'm not there"); ha vissuto per anni nella cieca pedissequa imitazione/adorazione di Woody Guthrie; ha attinto spudoratamente all'oceano della tradizione popolare americana (e non solo, irlandese, addirittura pugliese come nel caso di "Seven Curses"), tante sue melodie popolarissime come "Don't think twice, it's alright" o "Girl from the north country", o "Wedding Song" o "Sara", derivano da brani precedenti, tradizionali o meno, per non parlare dell'incipit di "Hard Rain", etc..; ha palesemente dichiaratamente continuamente rubato musica (T.S. Eliot docet: "I poeti immaturi imitano. I poeti maturi rubano"): dai dischi che rubava agli amici, alla versione di "House of the rising sun" di Dave Van Ronk, dai dialoghi di "Confessioni di uno yakuza" alla famosa querelle dei versi di Henry Timrod (analizzata benissimo da Alessandro Carrera qui)...
il punto è che (proprio come T.S.Eliot, che però citava le fonti) dalla gigantesca conoscenza della poesia/musica precedente, dal caos primordiale di una ispirazione molteplice e ribollente, Dylan è riuscito a trovare una forma nuova, è riuscito a divenire (benedizione nell'arte, maledizione nella vita) la voce, l'icona, il simbolo di una nuova arte, di una nuova generazione etc...
La sua risposta nell'ultima grande, bellissima intervista di quest'estate a "Rolling Stone", è profondamente significativa.
Verso il termine d'una intervista piena di saggezza spirituale, all'ennesimo riproporsi della questione, ha improvvisamente fatto esplodere la frustrazione di 50 anni di fraintendimenti e etichette appiccicategli addosso (per questo poteva capire cosi bene Lenny Bruce, "They stamped him and they labeled him/ like they do with pants and shirts/ He fought a war on a battlefield where every victory hurts"): "Sono sfigati senza palle quelli che si lamentano di queste cose. E’ una cosa vecchia che fa parte della tradizione; risale a molto tempo fa. Queste persone son le stesse che mi hanno affibbiato il nome di Giuda. Giuda a me, Giuda; il nome piu’ odiato nella storia dell’uomo!
Se pensi di essere stato insultato, prova a pensare che ti venga detto quello che han detto a me. E poi, per cosa?
Per aver suonato una chitarra elettrica? Come se farlo fosse paragonabile a tradire nostro Signore e consegnarlo perche’ fosse crocifisso. Tutti quei maledetti figli di puttana devono marcire all’inferno."

Mutatis mutandi (cambiandosi, cioè, le mutande ;))), questa emancipazione dai modelli, pur ottenuta attraverso la frequentazione di essi, ancora di più vale per Guccini: cantautore dottissimo, che ha sempre citato, omaggiato addirittura provato ad imitare Dylan (oltre le citazioni in "Eskimo" e "Farewell", disse che "Noi non ci saremo" nacque dal fraintendimento di un testo dylaniano), ma che ha una sua indipendenza autoriale fortissima, una personalità creativa, un marchio compositivo che magari può risultare monotono e scostante per i non appassionati, ma immediatamente riconoscibile e soprattutto AUTENTICO, genuino, spontaneo (per quanto raffinatisimo e colto).
 Sintetizzando: Dylan ha attinto a tutto, ma poi ha scritto "Like a rolling stone", qualcosa di mai sentito prima. Guccini ha attinto a molti, ma poi ha scritto "Dio è morto", canzone che, per quanto il  titolo e l' incipit siano entrambi citazioni da frasi famosissime (l'annuncio dello Zarathustra nietzschiano e i primi versi di "Howl" di Ginsberg), almeno in Italia, non aveva precedenti. De Gregori, invece, s'ispira, diciamo eufemisticamente, a Dylan, e poi la cosa più originale che scrive è....aiutami tu:
 "La leva calcistica del'68"?! "La donna cannone"?!
Entrambe bellissime canzoni, a cui siamo tutti affezionati, ma denotano come De Gregori per essere diverso dal suo modello dominante debba rifugiarsi in un clichè ancora più convenzionale e locale, quello della canzone melodica italiana.
Ottima l'idea di scrivere su Gaber, che nel suo teatro-canzone fa un utilizzo interessante della  rielaborazione di precedenti modelli. Per esempio nei confronti di Brel, di cui prende a spunto diverse canzoni, cambiandone però il senso in maniera nuova (anche se secondo me fa un passo indietro, "Les Bourgeois" di Brel è più sottile de "I borghesi" di Gaber). Rapporto diverso con le fonti, più disinvolto di quello di De Andrè, che quando traduce Brassens o Cohen è molto bravo e fedele, mentre su Dylan è costretto a inventare per ricreare l'effetto visionario, a volte prendendo cantonate micidiali (il cambio di senso che ho criticato di "Desolation Row", tradotta con De Gregori, non è come in Gaber da Brel un consapevole utilizzo di un'opera precedente per dire cose proprie, ma è un tentativo fallito di creare lo stesso effetto dell'originale tentando soluzioni nuove).
Ho parecchie cose in cantiere, molte già richieste dai miei "venticinque lettori"
(ho citato così spesso Leopardi che per par condicio devo menzionare Don Lisander, il fraintesissimo grandissimo scrittore Alessandro Manzoni, sul quale davvero vorrei scrivere qualcosa per spazzare via i superficialissimi luoghi comuni a riguardo), e la cosa mi fa enormemente piacere, ma sicuramente Gaber è un autore che merita, per la sua splendida anomalia, di essere studiato e approfondito.

P.S:
Lo scopo dei miei scritti (come credo di molti autori) è quello proprio di creare discussioni, approfondimenti, nuove interpretazioni etc...
trattando di autori così grandi e fecondi, per evitare di scrivere 100 pagine a post a volte devo sintetizzare o limitarmi a enunciare concetti che meriterebbero maggiore elaborazione.
Per cui benvenuti gli interventi come quello di Spartaco, che torno a ringraziare, i quali consentono di esplorare maggiormente affermazioni risultate meno esplicite e argomentate nella trattazione, e che danno senso e vita a questo blog.

martedì 11 dicembre 2012

L'Ultima Thule (part III)

a Piergiuseppe Caporale



Finalmente arriviamo alla terza e ultima parte di questo tributo gucciniano, conferendo finalmente senso al titolo del trittico che lo compone.
Partiremo infatti dall'analisi dell'ultimo disco del Maestrone,  per rievocare picchi e tematiche ricorrenti nella sua ricchissima e costantemente alta produzione.

Iniziamo dalla prima traccia, "Canzone di notte n.4", che dà subito il senso del compimento d'una carriera, raggiunto con giocosa malinconia. Nel disco dell'addio, il cantautore ritorna all'inizio della sua avventura poetica, facendoci rivivere con graziosa ironia i rimbrotti dei genitori al ragazzino dalla fantasia avida di sogno, che passa la notte a leggere invece che a dormire.
La traccia è, proprio numericamente, la quadratura del cerchio delle "canzoni di notte" di Guccini, che hanno scanditole fasi della sua carriera, direbbe lui "da allora sempre diversa ed uguale".
Se la prima, ("Canzone di notte", dal disco "L'isola non trovata") era l'ingresso scanzonato e scettico nel grande mare dell'ispirazione notturna, in perfetta armonia con l'atmosfera crepuscolare del disco ("Mattino o notte, hai perso il tempo,/ la malinconia ti sembra di toccarla, ma forse è l'ora dell' avvento e chiami l' ironia per aiutarla./E forse c'è qualcuno che ora muore, e forse c'è qualcuno che ora nasce,/ qualcuno compie un crimine d' onore, passeggiano sui viali le bagasce./ Bagasce sono i tuoi ricordi che fra canzoni e vino ti disturbano,/ che ti molestano pian piano e il giorno sembra ormai così lontano,/ e il giorno sembra ormai così lontano...."); se la seconda ("Canzone di notte n.2" dallo storico album "Via Paolo Fabbri, 43") era il corrosivo e disincantato inno anarchico, che ha regalato, involontariamente, tanti slogan ai libertari di tre generazioni ("E' facile tornare con le tante/ Stanche pecore bianche./ Scusate, non mi lego a questa schiera:/ Morro' pecora nera."): se la terza ("Canzone di notte n.3" da "Signora Bovary") era l'ironico ripiego interiore di una stagione talmente colma di disillusione da rinunciare a qualsiasi orgoglio di rivalsa ("Ogni giorno è un altro giorno regalato, ogni notte è un buco nero da riempire, / ma per quanto non l' ho mai visto colmato, così per dire,/ resta solo l' urlo solito gridato, tentare e agire,/ ma si pianga solo un po' perchè è un peccato/ e si rida poi sul come andrà a finire..."; quest'ultima, definitiva "Canzone di notte n.4", partendo dal capriccio del bimbo nottambulo (le battute iniziali), e ricordando ovviamente le grandi esperienze passate ("ehi notte, larga e oscura di altre notti/ rabbiose, fatte a morsi, divorate,/ prendendo a gabbo ipocriti e bigotti/ lunghe d'inverno, eterne nelle estati/chitarra e vino e via come cazzotti,/ notti passate"), arriva a vedere la notte come porto della pace agognata,  sospesa tra il tuffo nel mistero e il sempre latente cupio dissolvi ("ehi notte, che mi lasci immaginare,/ fra buio e luci quando tutto tace/ i giorni per la quiete e per lottare/ il tempo di tempesta e di bonacce/ notte tranquilla che mi fai trovare forse, la pace").

Proseguiamo con il secondo brano, "L'ultima volta": un nuovo classico della poetica gucciniana della rimembranza.
Si ritrova subito il magistero del grande autore, ormai maturo ed equilibrato.
Ci avvolge familiare quella poesia dai tratti bucolici e domestici, quel canto quasi  parlato, intimo e confidenziale, tratto peculiare di  recenti capolavori come "Vorrei"  e "E un giorno" (anche se chi scrive ne predilige la prima parte, cioè "Culodritto", in cui il cinismo negatore dell'uomo disilluso si scioglie in giocoso stupore di fronte alla saggezza infantile)
La morte, da sempre interlocutore silente dei monologhi gucciniani, appare fin dalla prima canzone, presenza discreta e pacificante,  quasi attesa con pazienza nella sua naturale ineluttabilità.
In tutto il disco (fin dal titolo), l'evocazione di quest'orizzonte misterioso, ma non minaccioso, viene declinata nei suoi vari aspetti, a seconda delle diverse ispirazioni che  di volta in volta risuonano nel grande animo di questo impenitente Gemelli.

Nella traccia successiva, "Su in collina" (da anni già in scaletta nei concerti), la morte torna a essere, come in un Foscolo furioso, matrice di  indignazione, e promessa di rabbiosa giustizia.
Vibra qui, certamente, il Guccini poeta civile, fieramente antifascista, testimone coraggioso dell'eroismo e accusatore indignato della violenza del potere (dalla memorabile "Primavera di Praga", ispirata al suicidio in Piazza Venceslao dello studente  Jan Palach, fino a "Piazza Alimonda", commovente ed equilibrata ricostruzione degli incidenti del G8 di Genova che portarono alla morte di Carlo Giuliani, passando per "Canzone per Silvia", j'accuse alla "nazione di bigotti" per ottenere la liberazione di Silvia Baraldini).
Ma c'è sicuramente anche il talento del grande narratore, non a caso gli avvenimenti del brano sono quasi una narrazione parallela del libro "Tango e gli altri", scritto da Guccini con Loriano Machiavelli.
Visto che ha detto che la sua principale attività d'ora in poi sarà la scrittura, vale la pena cominciare a prendere confidenza con le sue opere precedenti.
Un filo rosso lega al brano precedente "Quel giorno d'aprile", in cui la Resistenza e la Liberazione vengono visti dall'altra parte della medaglia, non nella condizione ungarettiana di foglie su un ramo d'autunno dei combattenti sui monti, ma nella gioia festosa del popolo, a guerra finita ("E l'Italia cantando ormai libera allaga le strade/ sventolando nel cielo bandiere impazzite di luce/ e tua madre prendendoti in braccio piangendo sorride/ mentre attorno qualcuno una storia o una vita ricuce").
Non poteva mancare, in questa grande parata finale dei  leit-motiv gucciniani, la risata provocatoria, lo sberleffo clownesco, la satira graffiante ed amara.
Ecco, quindi, "Il testamento del pagliaccio" (anch'essa già nota ai devoti fan dei concerti), figlia sia di "Nostra signora dell'ipocrisia" e de "Il Matto", ma con ricordi anche de "Gli Amici" e "Addio", forse un omaggio al De Andrè villoniano dei primi anni.
E qui la morte, in un atmosfera da carnasciale medievale con ovvi riferimenti all'attualità ("Vi vuole tutti, amici, al funerale/ con gli abiti migliori come a festa; /sarà civile, ma ci vuole in testa/sei politici servi e un cardinale./ Vaniloqui ed incenso siano attorno/ promesse non risolte, altri rumori,/non risparmiate amici peccatori/qualche laica bestemmia per contorno./Poi ci vorrebbe qualche "mi consenta", / uno stilista mago del sublime,/ un vip con la troietta di regime, /e chi si svende per denari trenta;/un onesto mafioso riciclato,
un duro e puro e cuore di nostalgico,/travestito da quasi democratico/ che si sente padrone dello stato./E per chiusura del mesto corteo/noi tutti fingeremo un'orazione/ricordando quel povero coglione/cantando in gregoriano "marameo"."), diventa supremo punto d'osservazione, un pò come il patibolo diviene palco privilegiato in una famosa scena, forse la più bella, de "Il Marchese del Grillo"



E, quasi, a ribadire la centralità dell'ispirazione notturna, il brano successivo si intitola "Notti".
Con la stessa abilità poetica di brani come "Acque" o "Una canzone", il cantautore è ormai espertissimo nell'elencazione delle varianti descrittive del medesimo tema ("Notti che durano non so quante ore/ cascate impetuose o gocce in un mare/ notti che bruciano su una ferita, notti boccate di vita").

La notte, è da sempre, tempio dell'ispirazione gucciniana.
Come tutti i cantautori (e proverbialmente i poeti, anche se non tutti) Guccini attinge, o meglio quasi vive interamente la sua creatività, in una dimensione interiore, in una atmosfera psicologica ben delineata.
Quella che i sapienti orientali hanno definito, con diversi nomi e sfumature a seconda della dottrina di riferimento: tamo guna, yin, lato sinistro...cioè, il cosmo interiore delle emozioni, dei ricordi, della malinconia, del rimpianto, dei sogni etc...

Guccini è poeta sommo di questo oscuro regno interiore, che tutti quanti, non solo nell'adolescenza, abbiamo visitato.
E da grande conoscitore ha saputo definirlo in versi stentorei, che ricordano la capacità d'introspezione dei grandi scrittori russi di fine ottocento. Ad esempio: "quel male a cui non si dà il nome, un' ossessione circolare fra la volontà ed il non potere". Versi definitivi, tratti da "Canzone per Anna", da sempre uno dei miei brani preferiti, che ho scoperto con meraviglia (come confermatomi dallo stesso Guccini) essere stato scritto assieme a un mio vecchio maestro e amico, Piergiuseppe Caporale, al quale con affetto dedico questo mio scritto.

http://www.youtube.com/watch?v=1oeH3URH4jE

Ma già nel brano precedente dello stesso disco ("Canzone delle domande consuete"), la riflessione sul tema si faceva perentoria e di grande saggezza:
"Rimanere così, annaspare nel niente, custodire i ricordi, carezzare le età; è uno stallo o un rifiuto crudele e incosciente del diritto alla felicità... ".

Brani presi non a caso dal disco "Quello che non...", in cui Guccini,  come un teologo negativo che ha smarrito la fede, elenca tutto quello che non siamo più. Nichilismo? Disillusione post-crollo delle ideologie? Più che altro consapevolezza montaliana dell'impossibilità d'affermare il vero.
 Posizione apparentemente pessimista, ma che ha le sue radici in una sapienza quasi mistica.
Qui è OBBLIGATORIO ascoltare il capolavoro "Shomèr ma mi-llailah?"

  http://www.youtube.com/watch?v=UtnAm2ok6t8

 Del resto Montale è richiamato esplicitamente fin dal titolo ("Codesto solo oggi possiamo dirti,/ciò che non siamo, ciò che non vogliamo", versi che il suo amico Carmelo Bene diceva essere un plagio da "La Gaia Scienza" nietzcheana), ma è da sempre presenza certa nelle variazioni gucciniani sul concetto di "male di vivere".
Sul brano omonimo, c'è un dato interessante da notare: non solo la musica che accompagna l'elencazione puntigliosa del nostro non-essere è in crescendo, il cantato è pieno e fiero, ma nelle esibizioni dal vivo il Guccio è sempre sembrato energico, quasi allegro nel cantarla.
Al di là della felicità artisticà di aver cosi ben espresso la propria ispirazione, e l'orgoglio di negare ogni dogma assertivo, di qualsiasi ideologia, Guccini ci riporta al paradosso leopardiano (suo riferimento ben più di Montale), evidenziato dal De Sanctis, e già citato in queste pagine:
nel momento in cui ci dice che la vità è un  crudele inganno, ci fa innamorare con entusiasmo della bellezza dell'esistenza.
Cosa che non si può sempre dire degli altri cantautori, esaminati nell'articolo precedente, De Gregori e De Andrè.
E' famoso il giudizio di Umberto Eco su Guccini: "Guccini è forse il più colto dei cantautori in circolazione, la sua è una poesia dotta. […] Guccini è omerico, procede per agglomerazioni, ha una gran sfacciataggine nell'osare una metafora dopo l'altra...la sua è poesia dotta, intarsio di riferimenti: che coraggio, far rimare "amare" con "Schopenhauer"!". E chissà se il dottissimo Eco ha notato la grande finezza di Guccini: quella rima (tratta da "Il Frate") è presente in un disco dedicato a Guido Gozzano, che nel suo capolavoro, "La Signorina Felicita", aveva fatto rimare "Nietzsche" con "camicie"...
Queste raffinatezze se le sognano gli altri cantautori.
Come si sognano la profondità psicologica di "Vedi Cara", la costruzione del racconto parallelo di "Amerigo", l'erudizione sognante di "Asia", l'almanacco quasi francescano, ma di un francescanesimo profano e carnale, delle bellezze della creazione in "Canzone dei dodici mesi" (non si può non citare l'esattezza proverbiale della strofa su settembre:  "Settembre è il mese del ripensamento sugli anni e sull' età,/ dopo l' estate porta il dono usato della perplessità, della perplessità.../ Ti siedi e pensi e ricominci il gioco della tua identità,/ come scintille brucian nel tuo fuoco le possibilità, le possibilità..."), etc..

Tornando al disco in oggetto, il penultimo brano è "Gli artisti", in cui l'autore tiene a ribadire la propria identità di "non artista, solo piccolo baccelliere" (da "Addio").
Una grande lezione d'umiltà ed ironia, da un artista plurilaureato ad honorem, celebrato da decenni ("io semplice essere umano,/ costretto a costretti ideali,/ sono solo un umìle artigiano e volo con piccole ali."), prima del gran finale.
Perchè di grande, degno finale si tratta.
Un' avventura finale, il culmine dell'eseperienza ulissiaca d'ogni artista autentico, nella perfetta metafora de "L'Ultima Thule", che non a caso dà il titolo all'intero album.
In questo brano, risentiamo, in una prodigiosa sintesi, tutti i pregi dei grandi capolavori gucciniani: la furia creativa della "Canzone dei dodici mesi"; la sapienza magico-filosofica di "Bisanzio" ("E qui da solo penso al mio passato,/ vado a ritroso e frugo la mia vita, /una saga smarrita ed infinita/di quel che ho fatto, di quello che è stato.");  le meravigliose suggestioni, poetiche e sonore, di "Asia" ("Io che ho doppiato tre volte Capo Horn/ e ho navigato sette volte i sette mari/e ho visto mostri ed animali rari,/l’anfesibena, le sirene, l’unicorno."); la consapevolezza disillusa di "Gulliver"(Guardo le vele pendere afflosciate/ con i cordami a penzolar nel vuoto,/che sbatton lenti contro le murate/con un moto continuo, senza scopo."); l'epica della conoscenza di "Cristoforo Colombo" ("Ma ancora farò vela e partirò/io da solo, e anche se sfinito,/la prua indirizzo verso l’infinito/che prima o poi, lo so, raggiungerò.") e, ovviamente, "Odysseus" (" Le verità non vere in cui credevo/ scoppiavano spargendosi d’intorno,/ ma altre ne avevo e giorno dopo giorno/se morivo più forte rinascevo.").
Anche se il finale è opposto al grande brano dedicato all'eroe omerico ("si perderà in un’ultima canzone/
di me e della mia nave anche il ricordo."), riecheggia in questi versi l'eternità della creazione poetica.

http://www.youtube.com/watch?v=yW2Zm488hok

Chi s'aspettava il disco d'un vecchio stanco, disilluso e malinconico, si ritrova un eterno bambino, curioso e adorabilmente disobbediente.
E' bello che il più grande cantautore italiano concluda il suo testamento enunciando a testa alta i suoi versi, e non con un commovente malinconico silenzio.
 Il disco si conclude con un tuono (al contrario dei versi celebri di un poeta da lui amato e spesso citato, il T.S.Eliot  di "The hollow men": "Questo è il modo in cui finisce il mondo/ Non con uno scoppio ma con un piagnucolio.").


E il rimbombo del tuono (che in India rappresenta l'annuncio della Verità) solenne si spegne nel mistero.

martedì 4 dicembre 2012

L'Ultima Thule (part II)


Come promesso, nella seconda parte di questa recensione, costretta dalle circostanze a ampliarsi in una riflessione più generale, inizieremo il confronto tra  i tre grandi campioni del cantautorato nostrano: Francesco De Gregori, Fabrizio De Andrè e, per l'appunto, Francesco Guccini.
Stiamo parlando di tre figure alle quali molti di noi sono legate come a feticci adolescenziali, divenute, più o meno meritatamente e più o meno volontariamente, icone artistiche di generici ideali "progressisti", cantori della ribellione, alfieri della protesta, spesso con faciloneria nobilitati dell'investitura di "poeti".
Chi scrive, come credo molti fra i lettori, conosce a memoria ogni canzone dei tre, e, in diverse fasi della propria esistenza, ne ha magari prediletto uno rispetto agli altri due. Al netto delle proiezioni personali dell'ascoltatore, è certo un fenomeno interessante, dettato probabilmente dalle differenti consonanze che lo stile e le tematiche di ciascuno dei tre artisti possono ispirare nelle diverse età interiori che ognuno attraversa.

Scontato che si potrebbero scrivere 18 libri su un tema del genere, gettiamoci senza troppi indugi in quella che vuole essere una comparazione per quanto possibile sintetica, ma non per questo superficiale.

Francesco De Gregori 
ovvero dell’ermetica furbizia

Essendo romano, e altezzosamente fiero d'esserlo, il mio campanilismo esce sinceramente frustrato dal confronto tra i tre.
De Gregori (pur non potendo negare il valore di alcune sue composizioni) è sicuramente il meno originale e autentico dei tre, il più convenzionale nella forma-canzone, il più vincolato ai modelli stranieri (nel suo caso dichiaratamente ed evidentemente, Dylan, ma non solo).
E' soprattutto (peccato gravissimo per chi scrive) il più in posa, il più "convinto", il più presuntuoso.

Dei tre, non nascondiamocelo, è anche quello il cui successo, e ruolo storico, è legato a motivazioni banalmente extra-artistiche. Il giovane De Gregori, con la sua vocetta sognante e la sua barbetta poetica, ha giocato molto sul suo personaggio da "Principe" (magari non azzurro, ma rosso), sulle cui dolci note potevano sospirare le giovani "compagne" senza sentirsi delle adolescenti cretine come le loro amiche che sentivano Baglioni (almeno lui era un onesto autore di canzoni d'amore d'ispirazione popolare, spesso con soluzioni melodiche per nulla scontate).
Alcuni esempi? "Buonanotte fiorellino", oltre a essere uno sfacciato calco da "Winterlude" di Dylan (furbescamente andò a copiare un pezzo minore e sconosciuto in fondo ad un album impopolare come “New Morning”), è sicuramente una canzone gradevole, ma non azzardatevi a chiamarla poesia  (“gli uccellini nel vento non si fanno mai male/ hanno ali più grandi di me”).

"Vabbè", si obietterà, "è una canzone d'amore...anche Dylan ha scritto versi sdolcinati.."
Per carità, in "Sara", accanto a gemme poetiche, ci sono versi imbarazzanti ("Glamorous Nymph with arrow and bow"), in "Is your love in vain?" chiede alla donna di lui innamorata se sa cucinare e cucire, negli anni più recenti "To make you feel my love" è talmente smielata da sembrare una parodia scritta dal Zappa di "Freak Out!"(ed è diventata, come molti "scarti" di Dylan, brano di successo d'altri cantanti, nella fattispecie Billy Joel)...

Addirittura, Woody Allen prese in giro il ritornello di "Just Like a Woman"in "Io e Annie", dove riesce a smontare in pochi minuti i due grandi miti intoccabili (i Beatles nella loro ingenua e modaiola devozione per i falsi guru,e Dylan nel suo sacrale status di poeta e profeta).
5.18:



Certo.
 Ma a parte, che Dylan ha esordito scrivendo grandiose canzoni d'anti-amore ("It ain't me, baby", "Don't think twice, it's alright", "I don’t believe you"), mentre ancora Lennon & Mc Cartney starnazzavano "I wanna hold your hand" (nel celebre episodio in cui li iniziò all'erba Dylan si meravigliò che non l'avessero mai provata, avendo creduto che l' "i get hiiiiigh" della canzone fosse un messaggio in codice...tortuosità del genio!)...
... però dopo ha scritto alcuni dei più alti versi d'amore, non solo del rock, in brani come  “Love Minus Zero/No Limit”, “Tomorrow is a long time”, "Wedding song"...
canzoni  che De Gregori si sogna di scrivere forse sotto l'effetto incrociato di stramonio e LSD. E lo sa benissimo, visto che le studia e rielabora da 40 anni.

Dylan, soprattutto, è autore universale (per i motivi addotti nella prima parte).
Ma non lo dico io.
 E' stato per questo omaggiato da tutti i più grandi come un modello assoluto (da Lennon a Hendrix, da Bowie Mc Cartney, dagli Stones a Lou Reed, per non parlare degli U2 e di tutti i cantautori dopo di lui in genere)
Ma è universale anche nel senso che ha scritto per tutti, da Michael Bolton ai Kiss
E quindi ha scritto di tutto.

E' vero, qualche volta anche De Andrè ha scritto cose melense, ma dobbiamo risalire a fine anni'60.
Guccini, ad esempio non ne ha scritte (o pubblicate) mai (a essere cattivi forse "Lui e Lei", che ha comunque una sua dignità di ritratto d'amore giovanile).

Cohen addirittura è caduto nell'eccesso opposto, canzonando sardonicamente i ritornelli idioti delle canzoni d'amore, e delle ciance sentimentali da coppia in crisi ("I need you, I don't need you").
 Parliamo di "Chelsea hotel #2” (trovate la traduzione, approssimativa a mio modesto giudizio, qui:http://cohen.altervista.org/drupal/?q=node/31 ), indelicatissimo ricordo della scomparsa Janis Joplin.
Un pezzo inspiegabilmente cinico e volgare,  da parte di un signore dei sentimenti nobili, cantore spregiudicato, eppure colmo di pudore, della sensualità, un poeta quasi in mistico raccoglimento davanti alla bellezza femminile




Insomma non è da tutti, ma soprattutto non è da un gentiluomo quale senza dubbio Cohen è, ricordare una ex amante appena morta (oltreché celebre) iniziando la canzone col ricordo delle sue gesta orali, e poi terminare dicendo di non pensarci in realtà molto spesso.

Ma, per non essere accusato di critiche capziose, vorrei estendere l'accusa di banalità, o quantomeno di facile furbizia, anche ad uno dei grandi "capolavori" di De Gregori
Dico, avete presente "Viva l'Italia", l'inno patriottico dell’intellighenzia “de sinistra”?!!
Vi domando io: se il verso “viva l'italia che s'innamora" l'avesse cantato Toto Cutugno o Mino Reitano, sarebbe entrato nelle antologie scolastiche, o comunque sarebbe mai stato accostato anche solo ad una delle lettere che formano la parola: "poesia civile"!?!
Va detta però una cosa: se è vero che De Gregori ha sempre, se non copiato, attinto a mani basse dalla miniera dylaniana (ma nei '70 anche da Cohen e Simon & Garfunkel), bisogna riconoscere che l'ha sempre ammesso, riconosciuto, dichiarato, dalle interviste al look, dagli accordi ai testi,  fino addirittura al modo di cantare.
Non parlo solo del vezzo dylaniano, ripreso anche da Lou Reed, di massacrare dal vivo i propri classici rendendoli irriconoscibili, per impedire alla gente di cantarli in coro come fossero in chiesa.
E' addirittura imbarazzante il tentativo di imitare la pronuncia nasale e smangiucchiata del Dylan classico, in alcuni concerti, che rende quasi inintelleggibile, nella versione live di “Musica Leggera”, il testo di "Pablo".
Una canzone sopravvalutatissima, scritta con Dalla, che ebbe la fortuna d'uscire per caso la settimana dopo la morte di Neruda, diventando così del tutto casualmente un inno politico.

Una fedeltà, quella di De Gregori al modello dylaniano,  premiata da  in occasione della cover di “If you see her, say hello” (“Non dirle che non è così”), inserita da Dylan nella colonna sonora di “Masked & Anonymous”, con tanto di nota in cui il cantautore romano viene definito dal Maestro “italian folk hero”.

Possiamo tagliar corto affermando che il De Gregori migliore è quello che applica, da bravo scolaretto, la lectio dylaniana, variando sulle corde del sarcasmo, del disprezzo, 
dell'indignazione: si pensi a "Vecchi amici" (che è praticamente “Positevly 4 yh street” con il refrain di "Like a rolling stone"), a "Scacchi e tarocchi", a "Vai in Africa Celestino"  (praticamente la traduzione di "Everything is broken"), brani in cui il veleno dylaniano è distillato in un dettato aspro e chioccio, molto efficace.
Pregio presente anche in "Bambini venite parvulos", in generale in tutto "Miramare 19.4.89" 
Nel caso di un altro ottimo album, "Canzoni d'amore"l'omaggio al modello, chissà se inconscio, è stato per una volta più sottile.
 Intitolando così un disco improntato quasi solo all'indignazione civile,  De Gregori ha operato il gioco inverso a quello di Dylan, che a chi chiedeva canzoni di protesta rispondeva intonando canzoni d'amore non corrisposto. Due esempi a memoria:  lo fece nel ’65 con sarcasmo provocatorio  ai fan inglesi. che gli avrebbero gridato "Judas!", con la beffarda"Leopard- skin pill-box hat”, dieci anni dopo, con più complice ironia, con la commovente "Oh, sister".

Concludendo su De Gregori, nel migliore dei casi, abbiamo un ottimo allievo di un grande maestro, in ritardo però di almeno 20 anni.
Nel peggiore, un saccente scolaretto che gioca a fare Dylan che giocava a fare Rimbaud, con risultati nettamente inferiori.

Tocchiamo qui un capitolo dolente: l'ermetismo dei cantautori anni'70. Vale a dire, il diritto di poter scrivere (con la scusa della licenza poetica) dei testi sostanzialmente senza senso.
Una sorta di quadro bianco d'artista moderno improvvisato in forma di canzone. 
Siccome non voglio fare la figura della moglie di Alberto Sordi che alla Biennale si siede sulla sedia à là Duchamp  in "Vacanze intelligenti", è opportuno fare dei distinguo, come se ne dovrebbero fare tra Francis Bacon e un qualsiasi cretino che buchi le tele o in-techi (e non mantechi) i propri escrementi.
Un conto sono le "catene di immagini lampeggianti" che Ginsberg invidiava a Dylan, in cui dall’ accostamento sperimentale d’inedite associazioni d’idee potevano nascere illuminazioni poetiche.
Altro conto è scrivere la prima cosa che ti viene in mente e dargli un tono poetico.
 Per affermare la differenza abissale basterebbe menzionare un verso solo:
 "the sky cracked its poems in naked wonder"
 tratto da “Chimes of Freedom “(canto di liberazione universale per cui veramente His Bobbiness si meriterebbe un Nobel) .
Ma prendiamo anche il Dylan più oscuro, lisergico, apparentemente incomprensibile: 
“The harmonicas play the skeleton keys and the rain”
 alla fine di “Visions of Johanna”.
E’ un verso pieno di suggestioni sonore, oltreché visionarie, che è superiore per musicalità e potenza ai deliri di Ginsberg, a tutti i beat, e tanta poesia americana ignara o indifferente verso gli equilibri formali classici.

Prendiamo invece una strofa del De Gregori classico, quello di “Rimmel”.
“Sig. Hood”, canzone dedicata (“con autonomia”) al Marco Pannella dei tempi eroici, appena reduce dalla vittoria del referendum sul divorzio:
“E adesso anche quando piove,/ lo vedi sempre con le spalle al sole, /con un canestro di parole nuove calpestare nuove aiuole, /con un canestro di parole nuove calpestare nuove aiuole. /E tutti lo chiamavano Signor Hood /ma il suo vero nome era spina di pesce,/ E tutti lo chiamavano Signor Hood”.

No comment.

Su questo devo scomodare un genio contemporaneo (è un'anticipazione di un omaggio a venire), un disegnatore che amo con trasporto quasi erotico (le sue opere, intendo): il magistrale Tuono Pettinato.
C'è una striscia pubblicata da XL per i 60 anni di Bowie, in cui egli sfotte, con sapiente ironia, la seconda strofa di "Life on mars?!" :
"It's on Amerika's tortured brow/ That Mickey Mouse has grown up a cow/ Now the workers have struck for fame/'Cause Lennon's on sale again/ See the mice in their million hordes/ From Ibeza to the Norfolk Broads/ Rule Britannia is out of bounds/To my mother, my dog, and clowns". ( "E' sulla fronte torturata dell'America/ Che Topolino è diventato una mucca/ Ora i lavoratori hanno scioperato per la fama/Perché Lennon è di nuovo in vendita/ Guardate i topi nelle loro milioni di orde/ Da Ibiza alle Norfolk Broads/"Rule Britannia" è stato messo al bando/ Per mia madre, il mio cane e i clown" , traduzione tratta da http://www.velvetgoldmine.it/testi/hunkydory.html dove trovate anche note esplicative)


Versi apparentemente senza senso, ma che ne acquistano pensando che Bowie sta elencando i pensieri confusi della bambina protagonista della canzone,  mescolando con la sua lunare fantasia ricordi distorti e frasi fraintese dal megafono straniante dei media.
Ma la stoccata funziona. C'è un'altra storia di Tuono Pettinato  ("Buckethead e la Malasanità") che è pertinente. La trovate in "Apocalypso, Tuono Pettinato-gli anni dozzinali", opera che sta al Nostro come "The piper at the gates of dawn" sta ai Pink Floyd .
Questa storia è la nemesi dei cantautori che vengono per sempre etichettati come l'opposto di quello che vorrebbero essere, inchiodati alla loro canzone più famosa (es. Dylan con "Blowin'in the wind",  Guccini con la "Locomotiva"). 
Questo karma artistico viene conclamato in una spassosa vignetta, dove Pino Daniele paga il fio del suo recente sputtanamento commerciale, vedendo la sua "Tazzulella 'è caffè", che nasceva come satira al vetriolo dei luoghi comuni su Napoli, proprio come emblema di quegli intollerabili stereotipi .
Ben gli sta, per aver scritto il distico peggiore della storia di tutte le letterature: "Che Dio ti benedica/che f..." , scusate non voglio scriverlo!
Come gli ammiratori hanno detto d’ogni personalità forte ed esuberante (da Cesare a Napoleone, da Mussolini a Chinaglia), Tuono Pettinato anche quando apparentemente sbaglia, alla fine ha sempre ragione!!

Una delle, tante, benedizioni artistiche di Guccini, è che questo sterile vezzo ermetico non lo ha mai avuto.
L'utilizzo della forma classica della ballata lo avrà reso apparentemente monotono, ma lui certo non ha mai avuto bisogno di rifugiarsi negli sperimentalismi ambigui.
Un vizio a tratti anche di De Andrè,  soprattutto a metà anni'70,  guarda caso proprio durante la collaborazione con De Gregori, nel disco “Volume 8”.
Si dice che De Andrè temesse d'aver ricevuto dal collega romano gli scarti dei testi di "Rimmel".
Riposa in pace, Fabrizio.
Non è che:
 “Vorrei sapere, quanto è grande il verde /come è bello il mare, quanto dura una stanza/ 
è troppo tempo che guardo il sole, mi ha fatto male " (“Oceano” da “Volume 8”)
 sia tanto peggio di:
“Ma mio padre è un ragazzo tranquillo/ la mattina legge molti giornali è convinto di avere delle idee/ e suo figlio è una nave pirata/ e suo figlio è una nave pirata” 
(“Le storie di ieri”, presente sia in “Rimmel “ cantata da De Gregori, che in “Volume 8” cantata da De Andrè)


Fabrizio De Andrè
il cantore dei cattivi divenuto santino dei buoni

De Andrè: snobbato per anni e dopo la morte divenuto un santino anarchico, anche lui vittima della potenza delle sue parole, più forti della suo essere selvaticamente refrattario a miti e bandiere.

Al colmo delle esagerazioni, Fernanda Pivano, lo definì il “più grande poeta del Novecento italiano”.
Del resto, c'è chi ha accostato la Silvia di Leopardi a "Albachiara" di Vasco.
E qui mi fermo, altrimenti contraddirei il mio primo post in cui ho affermato di essere contrario alle bestemmie...

Vogliamo tutti bene alla Pivano, che tradusse Lee Masters,  Fitzgerald, i beat e Dylan  in italiano, ma era certo una persona facile alle iperboli.
 Definì’ Dylan “L’Omero del XX secolo”, per poi dire "sarebbe necessario che invece di dire che Fabrizio De André è il Bob Dylan italiano si dicesse che Bob Dylan è il Fabrizio De André americano", facendo commuovere il cantautore genovese.
Nella parabola della simpatica scrittrice c’è tutta la decadenza della cultura di sinistra in Italia.
Una carriera iniziata con Pavese, continuata incontrando Hemingway,  Kerouac  e Burroughs ,  e finita incensando Ligabue.

Una differenza fondamentale nella personalità creativa di De Andrè lo fa il rapporto con le influenze, nel suo caso molteplici e tutte d'alto livello.
Il De Andrè degli anni '60 è senza dubbio sotto l'influenza  dei cantautori in lingua francese, Brel e Brassens sopra tutti, ma anche Cohen (Dylan lo scoprirà relativamente tardi)

Ora, se siete arrivati fino a qui avrete capito che amo le digressioni, e probabilmente non vi dispiacciono molto, altrimenti mi avreste già inviato mail piene di sputi telematici.
E' obbligatorio un omaggio a uno dei più grandi artisti popolari del Novecento (non solo come cantautore ma anche come interprete): Jacques Brel.
Non francese, ma fieramente belga.

Brel, come si suol dire, dà una pista (ma di quelle da maratona) a la stragrande maggioranza dei cantautori a lui contemporanei (in tutto il mondo).
Ribelle vero in tempi non sospetti (parliamo degli anni '50), fu creatore di melodie indimenticabili, dal respiro popolare eppure dalla raffinata composizione. 
Rinomata è la precisione maniacale dei testi, traboccanti della capacità autenticamente poetica di cogliere oscuri nodi interiori ed restituirli in versi memorabili.
Fu soprattutto una creatura poetica, un uomo in cui ogni fremito nervoso, ogni intensa espressione facciale esprimevano sentimenti profondi, reali, ardenti.
Un'artista fonte di verità umana.
Nemico d'ogni improvvisazione, del mito romantico dell'ispirazione, in questo d'accordo con Baudelaire, Brel era un artista dalla rara consapevolezza creativa:



Brel ha scritto forse la preghiera d'amore più bella del mondo:  "Ne me quitte pas".
Se è vero che Gigi Proietti lo ha magnificamente canzonato come 
emblema dell'esistenzialismo intellettualoide francese:



è pure vero come diceva il già citato Baudelaire: “Creare luogo comune è genio”.
Chissà che avrebbe pensato il grande poeta , lui che negli stessi appunti di questo aforisma, divideva  l'umanità in  due categorie: uomini e belgi …

E poi, l'incontenibile, drammatica, inarrivabile presenza sul palco di Brel. In confronto alla sua intensità dal vivo, Iggy Pop (che infatti lo ama) è un composto pianista da “Piano bar” (ah, altra canzonetta di De Gregori...).
Basti confrontare le due versioni di "Amsterdam"
quella straziante e travolgente di Brel




con quella, pur degna, del cantante che ha portato all'epitome la teatralità nel rock, cioè Bowie, così intelligente da studiarlo e omaggiarlo:

Pagato il giusto tributo all'amato Jacques, torniamo al buon Faber.
Il legame di De Andrè con la canzone francese è così profondo da approdare e legarsi alla tradizione letteraria delle ballate medievali di Francois Villon (“La ballata degli impiccati” e “Il testamento”) ma anche da raschiare dal barile dei moralisti del '600.
In tanti anni, pochi si sono accorti di come il verso forse più bello e proverbiale di "Bocca di Rosa" (“Si sa che la gente dà buoni consigli/ quando non può più dare cattivo esempio”) sia un furto dal moralista supremo, La Rochefocauld.  Furto astutamente attenuato dal "si sa,."...


Ma poi, a differenza di De Gregori, pur procedendo a tentoni tra varie influenze, il cantautore genovese ha saputo creare una propria forte e inconfondibile personalità autoriale.
E’ stato, soprattutto, sempre coerente e integrato con la sua poetica, incentrata su l'identificazione col diverso, in tutte le sue più grottesche e tragiche declinazioni: l’ oppresso, l’  umiliato e offeso,  l'alienato, “sfruttato represso calpestato odiato” (insomma tutti gli aggettivi del fratello figlio unico di Rino Gaetano).
Una sorta di “Desolation Row” (da lui tradotta miseramente sempre con De Gregori, fino a cambiarne addirittura il senso) lunga tutta una carriera, un microcosmo anti-borghese abitato da icone popolari quali il matto, il tossico, il fallito, la puttana,  il trans, il nano, quest'ultimo anche nelle sue versioni meno apprezzabili: il nano che si vende la madre, (anzi compra quella altrui),  il nano giudice infame.

Nel primo caso il riferimento ovviamente è a una delle più riuscite "commedie umane" balzachiane in tre minuti del primo De Andrè: “La città vecchia”.
Canzone nata non solo come atto d’amore per il porto malfamato di Genova, ma per divenire ritratto e manifesto dell’umanità che popolava quei vicoli brulicanti di vita e peccato.

Nel secondo caso,( “Un giudice” ) assistiamo alla vetta espressiva dell'odio di De Andrè verso l'autorità in genere,.
Un tema ricorrente  (si pensi a “Il Bombarolo" o a "Il pescatore”),  espresso stupendamente nel verso di un'altra canzone dello stesso album,  "Un medico"
"un giudice, un giudice con la faccia da uomo".
Differenza antropologica dei giudici...ricordate chi l'ha detto?!!
Del resto Silvio e Faber cantavano sulle navi insieme...

Fa ridere come tale atteggiamento di rivolta contro la giustizia istituzionale abbia come padri nobili Bakunin e Malatesta, e  come ignobili eredi attuali Sallusti e la Santanchè.
Torniamo  al rovesciamento pasoliniano operato dal Potere, analizzato nel primo post:
gli opinion leader dell’opposizione localizzati a sinistra parlano di autorità e legalità;
Travaglio, De Magistris, Di Pietro (nel suo caso fin dal nome del partito),  in un paese normale sarebbero figure di destra, di una destra liberale e legalitaria;  la destra, invece, attacca la Giustizia e predica la “libertà”, con rivendicazioni e linguaggio da anarchici, non da ex-fascisti, men che mai da moderati.
Qui mi è imposto il richiamo al più grande analista politico degli ultimi 20 anni.
Ovviamente, Corrado Guzzanti:




L'originalità e la grandezza di De Andrè sono molto nell' aver cantato la cruda realtà dei sottofondi, con una simbiotica aderenza formale.
Pur attingendo, come visto, a destra e a manca (ma il tesoro della canzone popolare è stato ed è, oggi più che mai, saccheggiato a piene mani dallo stesso Dylan), De Andrè è stato in grado di creare, e incarnare, dei "tòpoi" validi per il cantautorato mondiale.
Se ci pensiamo  un attimo, “Where the wild roses grow" è la versione dark e omicida de
 “La Canzone di Marinella”.
Tornando a Baudelaire, nella misura in cui Faber ha creato qualche luogo comune, dobbiamo riconoscerli un certo genio.

Anche qui, già che ci siamo, spazziamo via un pò di stereotipi.

De Andrè, rinomato per i toni depressivi e funebri, ha in realtà aperto le porte della satira nel cantautorato, componendo col suo grande amico Paolo Villaggio la famosa parodia di Carlo Martello (graziosa anche l'altra composizione dei due, "Il fannullone").
Gustatevi quando avete tempo i suoi cattivissimi e divertentissimi ricordi.

                                        

Altro grande merito storico, è quello d'aver messo  l'attenzione sui "Vangeli Apocrifi", nel disco "La Buona Novella", anche se operando un'umanizzazione della storia evangelica troppo facile. Un rovesciamento che può si deliziare gli anti-teisti, ma oltre ad essere disturbante per i credenti, è debole e forzoso anche per gli atei onesti.

Il limite di De Andrè è stato quello (comune a tanti grandi artisti "contro") di ridursi alla "pars destruens", e quindi ad esaltare sempre comunque ciò che è oscuro, diverso, illegale.
Certo,  nell' Italia ipocrita e democristiana ipnotizzata dal benessere, benedette le voci coraggiose e discordanti che hanno mostrato l'altra faccia della medaglia.
Ma ora, con distacco storico, possiamo riconoscere che si tratta d'un vizio romantico, di un limite di visione. Per contestare ciò che formalmente è Bene, si simpatizza, spesso forzosamente, per ciò che è Male.
Del resto, il rapporto di De Andrè con la spiritualità è stato alterno, non sempre fecondo, viziato da filtri ideologici (o antideologici che dir si voglia).
Parlo dell'opera, non della santità laica sfiorata nel perdono ai rapitori che lo avevano sottoposto ad un umiliante prigionia assieme alla moglie (rievocata nella fin troppo celebrata "Hotel Supramonte").

E' da sottolineare, osservando la sua lunga produzione, un paradosso illuminante.
De Andrè è sempre stato un autore irriverente, irreligioso, anticlericale, spesso blasfemo.
A volte gratuitamente come in "Coda di Lupo", a volte programmaticamente come ne "Il Testamento di Tito" (brano in cui il rovesciamento polemico dei Dieci Comandamenti  non appare sempre convincente).
Però, se andiamo a vedere la prima traccia del primo disco e l'ultima dell'ultimo sono entrambe "preghiere".

La prima ("Preghiera in gennaio" si dice ispirata dalla morte di Luigi Tenco) così commovente e intensa da vincere  l'effetto datato degli archi e del birignao.

(A PROPOSITO, VI  SVELO UN SEGRETO:
se amate fare parodie oscene di canzoni famose, De Andrè è una manna dal cielo: il tono serio e malinconico, la pronuncia lenta e staccata delle sillabe, la voce impostata, il susseguirsi di rime interne e baciate, tutto congiura a creare tempi comici devastanti.
Usate questo consiglio con cura preziosa, mi raccomando.)

La seconda, "Smisurata preghiera", è il vero testamento spirituale di De Andrè.
E' uno dei vertici della sua maturità poetica.
Una sintesi finale dei diversi stili della sua carriera, dove c'è l'abilità di intagliare versi perentori e perfetti, da manifesto eterno:
 "per chi viaggia in direzione ostinata e contraria/ col suo marchio speciale di speciale disperazione/ e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi/ per consegnare alla morte una goccia di splendore / di umanità, di verità".

Una "Chimes of Freedom" senza visione, un auspicio sospeso tra pessimismo e scaramanzia, ma comunque una preghiera di giustizia. Giustizia che nel finale, coerente con lo scetticismo d'una intera vita, viene considerata, quasi gnosticamente, "un'anomalia".
Una carriera di bestemmie circolarmente conchiusa da due preghiere.


Ma va riconosciuto a De Andrè soprattutto il grande valore di essersi reinventato, con grande lungimiranza,  a inizio anni'80. Prima che i suoi grandi modelli  (come Dylan e Cohen) flirtassero, registrando alterni esiti, con videoclip e sintetizzatori, De Andrè  con "Creuza de ma" mostrava la via dell'l'impasto etnico e  strumentale, donando alta dignità poetica al vernacolo genovese.
In anticipo netto (come riconosciuto da tutti) sul Paul Simon di "Graceland" e su quell' artista benedetto di Peter Gabriel, in uno dei suoi capolavori, "Passion" (Dio lo abbia in gloria anche, solo per il semplice motivo d'aver fatto conoscere all'Occidente la più bella voce in natura, Nusrat Fateh Ali Khan!)

Dobbiamo concedere a De Andrè il dono di aver saputo estrarre dal magma di una ispirazione spesso approssimativa e limitata (la poetica degli esclusi), comunque, dei versi di grande potenza e di profonda incisività, degni d'essere entrati nella memoria collettiva.

Sottovalutato per anni, esageratamente incensato dopo, De Andrè rimane un cantautore importante, che ci lasciato in dono alcuni brani d'intatta bellezza, e che anche nei suoi esperimenti meno riusciti, ha mantenuto alta la barra della ricerca.
Un esempio di coerenza e di perfetta aderenza tra forma e contenuto.
Negli ultimi scampoli di questo infernale Kali Yuga, merita d'essere messo sull'altare.

E Guccini?
Al Guccio (a ai motivi della sua superiorità!) sarà interamente dedicata la terza parte del nostro discorso.
Vi posso solo anticipare questo:
 De Gregori lo amavo a 13 anni, De Andrè a 20. 
Guccini ora, e per sempre.