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mercoledì 4 dicembre 2013

Frank Zappa - a vent'anni dalla morte






Esattamente venti anni fa, a quest'ora, tornavo da scuola a casa di mia nonna (personalità straordinaria alla quale devo geneticamente molte delle mie capacità dialettico-argomentative), con la quale all'epoca vivevo.
Mia nonna mi accoglie con la notizia: "E' morto Frank Zappa".
Io rimango senza parole, colpito dalla paradossalità della scena: "Come? Non ho capito...", e lei insiste: "Frank Zappa, il cantante americano, con i capelli lunghi e i baffoni! Ma che non lo conosci? Era un pazzo, ma era geniale. Mi dispiace".
Stessa scena era avvenuta due anni prima in occasione della morte di Freddy Mercury.
Ma, comprenderete, l'impatto in questo fu ancora più paradossale, spiazzante, surreale.
In una parola zappiano.

Zappa fu (accanto a Dylan, il "Don Giovanni" di Mozart e i Velvet Underground) la colonna sonora della mia adolescenza. Il suo poster gigantesco campeggiava nella mia cameretta con un'espressione di beffarda eleganza.
Come già menzionato in questo blog, ogni sera dei miei sedici anni trovava il suo apice nella scena consueta: Lorenzo Ceccotti, Daniele Capuano (che ce lo aveva fatto amare) e il sottoscritto per i vicoli di Trastevere,  a intonare ebbri integralmente almeno uno dei tre capitoli formanti la formidabile trilogia iniziale "Freak Out", "Absolutely Free" e "We're Only in it for the Money".
Se Dylan era la porta verso la poesia, la ricerca spirituale, il cantore dei sentimenti nobili e degli ideali vibranti, Zappa per me incarnava magnificamente la pars destruens (come nel prosieguo della mia formazione culturale faranno Cèline nella letteratura e Carmelo Bene nella riflessione filosofica), lo sberleffo trionfante dell'intelligenza nei confronti della sconfortante insensatezza del Brutto che ci assedia.
Senza di lui non avremmo avuto probabilmente: Prince, i Primus, Stefano Bollani, "I Simpson", "I Griffin", "South Park", Elio e le Storie Tese etc...ognuno di noi pensi quanto deve a quest'uomo.


Tale fu il debito di riconoscenza che il nostro primo tentativo editoriale fu intitolato "Lampi Grevi",   in omaggio al suo primo disco solista "serio" (per quanto possa avere senso tale definizione) "Lumpy Gravy".
Eccone il formidabile tema principale, per anni inno interiore delle nostre gesta:


A quella fanzine, dalla breve ma gloriosa esistenza, collaborarono (da co-fondatori) quelle che con molto affetto definisco alcune fra "le menti migliori della mia generazione": oltre ai citati Ceccotti e Capuano, c'erano Gianluca Abate, Lucio Villani, Daniele Catalli, Mariachiara Di Giorgio come valenti disegnatori, Francesco Fava, Alessandro Caroni, Luca Cruciani, Francesco Di Giorgio come fertili menti di idee e contenuti (chiedo perdono a chi eventualmente abbia dimenticato).
Lo strambo nickname che dà il nome al blog che state leggendo ebbe origine proprio in quel periodo, esattamente dal fotoromanzo "Neve e Sangue", ambientato a S.Pietroburgo e girato alla Garbatella, partorito dalle menti geniali di Alessandro Caroni e Luca Cruciani.

Oggi, per commemorare il ventennale della scomparsa, Lucio Villani sul suo blog non a caso ha ritratto proprio la copertina di quell'album.

Zappa visto da
Lucio Villani

Come raccontare la grandezza di Zappa nella tirannica brevità di un post?!
 (già sento le vostre battutine, sciocchi!)
Vorrei sottolineare aspetti meno immediatamente evidenti di quelli che chiunque può ricordare (il genio musicale, il respiro orchestrale delle sue composizioni, la provocazione oltraggiosa, lo sberleffo anti-perbenista etc.)
La prima considerazione è quella di sottolineare l'intelligenza assoluta, tutt'altro che sregolata, ma lucidissima, matematica, inesorabile del suo progetto musicale e della sua visione culturale.

A riprova di ciò, Zappa fu uno dei principali riferimenti del primo, fortunato post di questo blog (lo trovate QUI)

Come dice il titolo di uno dei suoi, se non erro, 64 dischi, Zappa & the Mothers of Invention erano davvero "Ahead of their Time": un anticipo strabiliante sui loro tempi che ora a distanza quasi di 40 anni dall'esordio dobbiamo pubblicamente riconoscere.



Solo un genio poteva architettare la più grande parodia del movimento hippy in tempo reale.
"We're only in it for the money", parodia frontale del disco feticcio dei Beatles fin dalla copertina.
Un disco che dimostra (oltre che una ricchezza incontenibile di spunti musicali e acrobazie melodiche) una capacità di analisi culturale che in quegli anni forse ha avuto solo Pasolini, e Gaber poi, per rimanere in Italia.
Solo un genio poteva decostruire seduta stante il mastodontico movimento culturale di illusoria ribellione, i cui penosi strascichi scontiamo ancora oggi nella sistematica inversione di segno di tutti i suoi protagonisti (per rimanere sempre nel nostro Paese si pensi alla larga parte di militanti di "Lotta Continua" trasferitisi in blocco tra le file berlusconiane).
Solo un genio poteva creare una bomba contro l'ipocrisia yankee come "Brown shoes don't make it", cioè "American Beauty" più corrosivo e profondo fatto trent'anni prima in 7.30 minuti di genio satirico assoluto: pochi minuti in cui Zappa riesce a prendere in giro magnificamente praticamente chiunque (da Schoenberg a Jim Morrison) scoperchiando sardonico il tappeto del perbenismo W.A.S.P., e mostrando spietatamente l'immondizia morale che ne era la sostanza.


E poi, potremmo parlare ore (sono vent'anni che lo facciamo!) dell'infinita aneddotica oltraggiosa, che ha reso Zappa il monumento vivente al politicamente scorretto vero, ben più delle adorabili provocazioni di "Catholic Girls", "Bobby Brown" o "Jewish Princess" (ebbe l'infallibile prontezza di raccogliere tutti i suoi brani offensivi nell'antologia "Have i offended someone?").
Mi riferisco soprattutto ai suoi rapporti con gli altri grandi geni del rock.



Dalle scaramucce sul palco con i Velvet Underground durante il concerto del 1966 (si dice che gli introdusse più o meno: "ora suonano loro, fanno schifo", approfondimenti QUI); allo stentoreo "Fxxx You, Captain Tom" ripetuto a David Bowie, colto di sorpresa a soffiargli il chitarrista Adrian Belew (lo racconta quest'ultimo QUI); al famoso episodio con Dylan: dopo averlo accolto con giocose battute antireligiose, la leggenda narra che Zappa rispose alla proposta di fare un disco insieme (da parte ricordiamo del futuro Premio Pulitzer e più volte candidato al Premo Nobel per la Letteratura) : "Va bene Bob, ma i testi li scrivo io!" (va detto che Bob era reduce dalla trilogia cristiana ben poco affine all'ispirazione di Frank, come spiegato QUI);

Come non menzionare il colpo di teatro assoluto: la candidatura al Presidente degli Stati Uniti d'America.
Il genio.
Ora, personalmente non condivido l'iper-laicismo ideologico di Zappa, ma vederlo sbeffeggiare l'ottusità della censura perbenista americana con i suoi proclami alla Groucho Marx è uno dei grandi piaceri della vita (dato questo assunto QUI, gioitene QUI).

Questo intende essere solo un doveroso omaggio, senza nessuna pretesa esaustiva di raccontare una carriera irripetibile.
Ma soprattutto, vuole essere un invito a non confinare un artista straordinario nelle stanche etichette di "provocatore", "goliarda", "genio e sregolatezza".
Frank Zappa è stato non solo uno degli artisti più eclettici e preparati della recente storia musicale americana, ma è stato una delle poche figure della cultura "pop" a manifestare la consapevolezza culturale dei grandi maestri.
Il talismano dell'intelligenza contro i condizionamenti della società.
Era anche un fulminante aforista.
Tra le innumerevoli citazioni, scelgo:
 "Se passi una vita noiosa e miserabile perché hai ascoltato tua madre, tuo padre, il tuo insegnante, il tuo prete o qualche tizio in tv che ti diceva come farti gli affari tuoi, allora te lo meriti."

Non dimentichiamocelo mai.
Grazie Frank.

martedì 30 aprile 2013

THE MUSICAL BOX - la Resurrezione dell'Agnello (che si stende su Broadway)





Per il secondo anno consecutivo sono andato a vedere "The Musical Box", la celebre cover band dei Genesis, nella loro intatta esecuzione di "The Lamb lies down on
Broadway", memorabile concept album del '74, ultimo burrascoso capitolo dell'aurea "era Gabriel" del gruppo.
Solitamente, non amo le cover band. Per quanto possano essere meritorie e filologicamente accurate nelle loro ricostruzioni (alcune impressionanti, ad esempio gli Apple Pies col primo periodo dei Beatles), scontano sempre un artificio intrinseco, soprattutto nel caso di repliche d'artisti ancora in vita. Non si va oltre l'ammirazione, eventuale, per la capacità mimetica dimostrata, ma siamo sempre di fronte a un freddo clone di un originale irraggiungibile. Un surrogato, per quanto gradevole, che non fa che rimembrarci in maniera straziante l'evidenza d'essere nati 20 anni in ritardo rispetto al Grande Rinascimento (come dice Alessandro Caroni) delle arti popolari del ventennio '60-'70.
Queste legittime resistenze svaniscono d'incanto di fronte all'unica eccezione dei "The Musical Box", in particolare in questo caso.
Non solo perché il gruppo in questione è probabilmente la "migliore"cover band in assoluto, cioè quella che  più riesce a ricreare in maniera magicamente identica i suoni, le movenze, i costumi, l'atmosfera del gruppo d'ispirazione (e, con tutto il rispetto, rifare dal vivo in maniera impeccabile "The Cinema Show" non è la stessa cosa che fare "In My Life").



Non solo perché gli stessi ex-membri dei Genesis li hanno a turno sostenuti ed elogiati in maniera pubblica e commovente: Tony Banks ha aperto loro l'archivio originale dei master tape per consentirgli di studiare i brani traccia per traccia; Phil Collins ha detto che eseguono i brani in questione meglio dei Genesis del'74 (confrontate voi: la cover band QUI e l'originale dal vivo QUI) e ha suonato la batteria sul brano che dà il nome al gruppo; in precedenza anche Steve Hackett aveva suonato nei bis in un concerto alla Royal Albert Hall: Peter Gabriel ha portato i suoi figli a vederli e avrebbe risposto più volte che è inutile chiedergli della riunione dei Genesis (resa ahimé ormai impossibile dai problemi di sensibilità alla mano sinistra di Phil Collins), visto che tanto ci sono "The Musical Box".



 Non solo perché Gabriel e i Genesis  hanno concesso loro, caso unico, i diritti integrali per portare in tournéé lo spettacolo originale di "The Lamb lies down on Broadway" (QUI  la fonte delle varie collaborazioni).
Non solo per questo, che già sarebbe abbastanza. Ma perché dello spettacolo originale in questione non esiste alcuna registrazione. Com'è noto, Gabriel aveva annunciato l'abbandono del gruppo prima di andare in tour, e quindi il gruppo non ritenne opportuno immortalare delle performance cariche di tristezza e tensione, che sarebbero poi state ulteriormente tormentate da continui problemi tecnici.
"The Musical Box" hanno impiegato sette anni per ricostruire, con scrupolo e pazienza da talmudisti, lo spettacolo originale attraverso la collaborazione dei loro idoli e dei tecnici dell'epoca, arrivando a recuperare addirittura lo slide-show che accompagnava la narrazione sullo sfondo, aiutandosi con immagini di repertorio  e super-8 (ovviamente senza sonoro) dei fan dell'epoca. E sono riusciti a far resuscitare, con commovente fedeltà, uno dei momenti più alti e significativi del teatro-rock.
Per cui non si tratta di uno sterile tributo, ma di un evento davvero imperdibile per gli amanti dei Genesis. Snobbarlo come un'insignificante copia,  equivarrebbe concettualmente a considerare inutile la visione dell'"Aida" all'Opera o del "Macbeth" a teatro (riguardo ciò, un giorno ci divertiremo).
.


Questo concerto è per me l'occasione di scrivere qualcosa sui Genesis, una delle più importanti e, per il sottoscritto, sottovalutate band della Storia del Rock.
Ovviamente, mi sto riferendo ai veri Genesis, quelli di Peter Gabriel, di cui "The Lamb lies down on Broadway" è il tumultuoso e geniale testamento. Non m'interesso della pop-band che ne ha usurpato il nome successivamente, seppellendo il tesoro inestimabile dell'abbagliante quinquennio 71-75, sotto una frana rovinosa di scioccherelle canzoncine anni '80 (salvo solo, com'è pacifico per tutti gli schieramenti sul tema, l'immediatamente seguente"A Trick of the Tail", generato però da materiale precedente).

Strano destino, quello di una band straordinaria, troppo spesso confinata nell'etichetta scolastica di "più grande gruppo progressive". Per le contorte dinamiche del mainstream, la folgorante bellezza delle loro opere è rimasta schiacciata tra la venerazione universale tributata ai Pink Floyd, l'esclusiva dei nostalgici fricchettoni accaparrata dai primi King Crimson, e la devozione della nobile ma sparuta genìa degli "esperti" di progressive-rock, condivisa con i Gentle Giant e gli ingiustamente trascurati Van der Graaf Generator.


Eppure, semplicemente osservando la storica line-up, i Genesis appaiono, a posteriori, come una impensabile super-band, un dream-team di eccellenze complementari, una "cooperativa di musicisti", come amavano definirsi, unita da una felicissima e irripetibile coincidenza astrale. Scorriamo brevemente le figure immortalate nella formazione classica, in ordine di personale ammirazione: Phil Collins, che prima di condannarsi al ruolo di Amedeo Minghi del Mondo, era una batterista magistrale, non solo tecnicamente notevole ma in grado di creare nuovi ritmi, soluzioni modernissime, variazioni volanti poi divenute preda di saccheggio metodico negli anni successivi; Mike Rutheford, compositore e musicista di grande versatilità, in grado di passare dalla iconica dodici corde alla chitarra ritmica fino a reinventarsi, dopo l'abbandono di Hackett nel'77, convincente chitarra solista; Tony Banks, abile polistrumentista e tastierista d'eccezione, severo genio compositivo dotato nelle dita dell'equilibrio melodico proprio dei classici (si pensi alla memorabile introduzione di "Firth of Fifth", agli intermezzi strumentali di "Supper's Ready", alla solennità straniante dell'intro di "Watcher of the Skies", o alla perturbante commozione delle atmosfere di "The Lamia"); Steve Hackett, uno dei chitarristi più importanti, a livello di impatto innovativo, della Storia del Rock (chiedete a Brian May), da molti indicato come l'inventore del tapping (o quantomeno colui che lo portò alla massima gloria, prima di Eddie Van Halen), consegnato all'epica popolare dagli assoli di "Dancing with moonlit Knight" e "Firth of Fifth"; e poi, ovviamente, lui, l'Arcangelo: Peter Gabriel, folletto filiforme e cangiante, paroliere visionario e barocco, frontman dal carisma teatrale ipnotico e beffardo, ma soprattutto instancabile ricercatore musicale e spirituale.
Con tutto il rispetto per la sua importante carriera solista, per il suo nobile impegno umanitario, per l'inestimabile lavoro di talent-scout di musica etnica (dobbiamo a lui la diffusione nel mondo di una delle più belle voci del Novecento, il sublime "usignolo di Allah", Nusrat Fateh Ali Khan, e conseguentemente del Qawwali, giacimento di pura bellezza della tradizione sufi)...per noi le vette della sua arte rimangono le performance da fool shakesperiano, i testi commisti di dirompente erotismo e tensione mistica, e le melodie dolenti e rinascimentaleggianti della sua militanza genesisiana.

I Genesis hanno, nel lampo accecante di pochi dischi, riassunto in nuce  e portato alla massima elaborazione tutto il meglio che la musica popolare aveva fino a quel punto, e avrebbe in seguito, espresso: l'attenzione sociale e il valore poetico dei cantautori (nei testi di Gabriel, ad esempio in "The Knife" e in "Supper's Ready"); le ambizioni sinfoniche dei grandi gruppi anni '70 come i Pink Floyd e, in maniera diversa, i Queen (in tutti i brani celebri, e non solo, del gruppo,); la mimesi, la teatralità rivelatrice che verranno portate all'epitome da Bowie, ma arricchite da Gabriel di una più profonda consapevolezza simbolica; il possesso e la realizzazione della formula definitiva della canzone pop ("I Know What I Like (In your Wardrobe)"); il virtuosismo tecnico, che giustificherà di per sé l'esistenza di numerosi gruppi successivi, soprattutto negli ambiti ulteriori all'hard-rock, in questo caso assolutamente non fine a se stesso, ma messo al servizio di una ricchezza compositiva corale, in alcuni casi senza raffronti; l'anticipazione, anche qui dosata in misure e tempi magistrali, dei più entusiasmanti momenti del rock successivo, fino al metal (il famoso rullìo militare della seconda parte "One" dei Metallica è già presente in maniera molto più brillante nella stessa posizione di "The Knife"; guarda caso argomento simile, ma con abissale differenza di profondità); il recupero, poetico e musicale, delle tradizioni popolari e della mitologia, nella loro fiabesca ricchezza primordiale di racconto archetipico (linea rossa che lega tutti gli album da "Trespass" a "Selling England by the Pound");



In brani come "Supper's Ready", i Genesis hanno forse spinto le possibilità della musica rock alle massime potenzialità espressive, con un ampiezza di respiro compositivo e una universalità di messaggio che non ha, per chi scrive, davvero nulla da invidiare a celebratissimi dischi-feticcio come il "White Album" dei Beatles"The Dark Side of the Moon" dei Pink Floyd.

Una ricchezza di stimoli culturali e intuizioni compositive, spesso perfettamente compiute, che fatico a riscontrare altrove.
Solo il leggendario disco mai realizzato insieme da Bob Dylan e Frank Zappa (quest'ultimo, genio indiscusso, pretendeva di voler scrivere lui i testi di fronte al futuro Premio Pulitzer, in seguito più volte candidato al Premio Nobel della Letteratura), considerando le potenzialità titaniche messe in campo, avrebbe potuto superarli per creatività e genio.

Mi ripropongo anche in questo caso di scriverci un libro: è una delle mie tante battaglie culturali, accanto a quella per l'eliminazione dei testi di Fabio Volo dal settore narrativa delle librerie e l'adozione di un test d'intelligenza e di cultura generale per avere accesso al diritto di voto.

Nel prossimo articolo, ci occuperemo più nel dettaglio di "The Lamb lies down on Broadway", e delle sue complesse e illuminanti possibilità d'interpretazione.



martedì 4 dicembre 2012

L'Ultima Thule (part II)


Come promesso, nella seconda parte di questa recensione, costretta dalle circostanze a ampliarsi in una riflessione più generale, inizieremo il confronto tra  i tre grandi campioni del cantautorato nostrano: Francesco De Gregori, Fabrizio De Andrè e, per l'appunto, Francesco Guccini.
Stiamo parlando di tre figure alle quali molti di noi sono legate come a feticci adolescenziali, divenute, più o meno meritatamente e più o meno volontariamente, icone artistiche di generici ideali "progressisti", cantori della ribellione, alfieri della protesta, spesso con faciloneria nobilitati dell'investitura di "poeti".
Chi scrive, come credo molti fra i lettori, conosce a memoria ogni canzone dei tre, e, in diverse fasi della propria esistenza, ne ha magari prediletto uno rispetto agli altri due. Al netto delle proiezioni personali dell'ascoltatore, è certo un fenomeno interessante, dettato probabilmente dalle differenti consonanze che lo stile e le tematiche di ciascuno dei tre artisti possono ispirare nelle diverse età interiori che ognuno attraversa.

Scontato che si potrebbero scrivere 18 libri su un tema del genere, gettiamoci senza troppi indugi in quella che vuole essere una comparazione per quanto possibile sintetica, ma non per questo superficiale.

Francesco De Gregori 
ovvero dell’ermetica furbizia

Essendo romano, e altezzosamente fiero d'esserlo, il mio campanilismo esce sinceramente frustrato dal confronto tra i tre.
De Gregori (pur non potendo negare il valore di alcune sue composizioni) è sicuramente il meno originale e autentico dei tre, il più convenzionale nella forma-canzone, il più vincolato ai modelli stranieri (nel suo caso dichiaratamente ed evidentemente, Dylan, ma non solo).
E' soprattutto (peccato gravissimo per chi scrive) il più in posa, il più "convinto", il più presuntuoso.

Dei tre, non nascondiamocelo, è anche quello il cui successo, e ruolo storico, è legato a motivazioni banalmente extra-artistiche. Il giovane De Gregori, con la sua vocetta sognante e la sua barbetta poetica, ha giocato molto sul suo personaggio da "Principe" (magari non azzurro, ma rosso), sulle cui dolci note potevano sospirare le giovani "compagne" senza sentirsi delle adolescenti cretine come le loro amiche che sentivano Baglioni (almeno lui era un onesto autore di canzoni d'amore d'ispirazione popolare, spesso con soluzioni melodiche per nulla scontate).
Alcuni esempi? "Buonanotte fiorellino", oltre a essere uno sfacciato calco da "Winterlude" di Dylan (furbescamente andò a copiare un pezzo minore e sconosciuto in fondo ad un album impopolare come “New Morning”), è sicuramente una canzone gradevole, ma non azzardatevi a chiamarla poesia  (“gli uccellini nel vento non si fanno mai male/ hanno ali più grandi di me”).

"Vabbè", si obietterà, "è una canzone d'amore...anche Dylan ha scritto versi sdolcinati.."
Per carità, in "Sara", accanto a gemme poetiche, ci sono versi imbarazzanti ("Glamorous Nymph with arrow and bow"), in "Is your love in vain?" chiede alla donna di lui innamorata se sa cucinare e cucire, negli anni più recenti "To make you feel my love" è talmente smielata da sembrare una parodia scritta dal Zappa di "Freak Out!"(ed è diventata, come molti "scarti" di Dylan, brano di successo d'altri cantanti, nella fattispecie Billy Joel)...

Addirittura, Woody Allen prese in giro il ritornello di "Just Like a Woman"in "Io e Annie", dove riesce a smontare in pochi minuti i due grandi miti intoccabili (i Beatles nella loro ingenua e modaiola devozione per i falsi guru,e Dylan nel suo sacrale status di poeta e profeta).
5.18:



Certo.
 Ma a parte, che Dylan ha esordito scrivendo grandiose canzoni d'anti-amore ("It ain't me, baby", "Don't think twice, it's alright", "I don’t believe you"), mentre ancora Lennon & Mc Cartney starnazzavano "I wanna hold your hand" (nel celebre episodio in cui li iniziò all'erba Dylan si meravigliò che non l'avessero mai provata, avendo creduto che l' "i get hiiiiigh" della canzone fosse un messaggio in codice...tortuosità del genio!)...
... però dopo ha scritto alcuni dei più alti versi d'amore, non solo del rock, in brani come  “Love Minus Zero/No Limit”, “Tomorrow is a long time”, "Wedding song"...
canzoni  che De Gregori si sogna di scrivere forse sotto l'effetto incrociato di stramonio e LSD. E lo sa benissimo, visto che le studia e rielabora da 40 anni.

Dylan, soprattutto, è autore universale (per i motivi addotti nella prima parte).
Ma non lo dico io.
 E' stato per questo omaggiato da tutti i più grandi come un modello assoluto (da Lennon a Hendrix, da Bowie Mc Cartney, dagli Stones a Lou Reed, per non parlare degli U2 e di tutti i cantautori dopo di lui in genere)
Ma è universale anche nel senso che ha scritto per tutti, da Michael Bolton ai Kiss
E quindi ha scritto di tutto.

E' vero, qualche volta anche De Andrè ha scritto cose melense, ma dobbiamo risalire a fine anni'60.
Guccini, ad esempio non ne ha scritte (o pubblicate) mai (a essere cattivi forse "Lui e Lei", che ha comunque una sua dignità di ritratto d'amore giovanile).

Cohen addirittura è caduto nell'eccesso opposto, canzonando sardonicamente i ritornelli idioti delle canzoni d'amore, e delle ciance sentimentali da coppia in crisi ("I need you, I don't need you").
 Parliamo di "Chelsea hotel #2” (trovate la traduzione, approssimativa a mio modesto giudizio, qui:http://cohen.altervista.org/drupal/?q=node/31 ), indelicatissimo ricordo della scomparsa Janis Joplin.
Un pezzo inspiegabilmente cinico e volgare,  da parte di un signore dei sentimenti nobili, cantore spregiudicato, eppure colmo di pudore, della sensualità, un poeta quasi in mistico raccoglimento davanti alla bellezza femminile




Insomma non è da tutti, ma soprattutto non è da un gentiluomo quale senza dubbio Cohen è, ricordare una ex amante appena morta (oltreché celebre) iniziando la canzone col ricordo delle sue gesta orali, e poi terminare dicendo di non pensarci in realtà molto spesso.

Ma, per non essere accusato di critiche capziose, vorrei estendere l'accusa di banalità, o quantomeno di facile furbizia, anche ad uno dei grandi "capolavori" di De Gregori
Dico, avete presente "Viva l'Italia", l'inno patriottico dell’intellighenzia “de sinistra”?!!
Vi domando io: se il verso “viva l'italia che s'innamora" l'avesse cantato Toto Cutugno o Mino Reitano, sarebbe entrato nelle antologie scolastiche, o comunque sarebbe mai stato accostato anche solo ad una delle lettere che formano la parola: "poesia civile"!?!
Va detta però una cosa: se è vero che De Gregori ha sempre, se non copiato, attinto a mani basse dalla miniera dylaniana (ma nei '70 anche da Cohen e Simon & Garfunkel), bisogna riconoscere che l'ha sempre ammesso, riconosciuto, dichiarato, dalle interviste al look, dagli accordi ai testi,  fino addirittura al modo di cantare.
Non parlo solo del vezzo dylaniano, ripreso anche da Lou Reed, di massacrare dal vivo i propri classici rendendoli irriconoscibili, per impedire alla gente di cantarli in coro come fossero in chiesa.
E' addirittura imbarazzante il tentativo di imitare la pronuncia nasale e smangiucchiata del Dylan classico, in alcuni concerti, che rende quasi inintelleggibile, nella versione live di “Musica Leggera”, il testo di "Pablo".
Una canzone sopravvalutatissima, scritta con Dalla, che ebbe la fortuna d'uscire per caso la settimana dopo la morte di Neruda, diventando così del tutto casualmente un inno politico.

Una fedeltà, quella di De Gregori al modello dylaniano,  premiata da  in occasione della cover di “If you see her, say hello” (“Non dirle che non è così”), inserita da Dylan nella colonna sonora di “Masked & Anonymous”, con tanto di nota in cui il cantautore romano viene definito dal Maestro “italian folk hero”.

Possiamo tagliar corto affermando che il De Gregori migliore è quello che applica, da bravo scolaretto, la lectio dylaniana, variando sulle corde del sarcasmo, del disprezzo, 
dell'indignazione: si pensi a "Vecchi amici" (che è praticamente “Positevly 4 yh street” con il refrain di "Like a rolling stone"), a "Scacchi e tarocchi", a "Vai in Africa Celestino"  (praticamente la traduzione di "Everything is broken"), brani in cui il veleno dylaniano è distillato in un dettato aspro e chioccio, molto efficace.
Pregio presente anche in "Bambini venite parvulos", in generale in tutto "Miramare 19.4.89" 
Nel caso di un altro ottimo album, "Canzoni d'amore"l'omaggio al modello, chissà se inconscio, è stato per una volta più sottile.
 Intitolando così un disco improntato quasi solo all'indignazione civile,  De Gregori ha operato il gioco inverso a quello di Dylan, che a chi chiedeva canzoni di protesta rispondeva intonando canzoni d'amore non corrisposto. Due esempi a memoria:  lo fece nel ’65 con sarcasmo provocatorio  ai fan inglesi. che gli avrebbero gridato "Judas!", con la beffarda"Leopard- skin pill-box hat”, dieci anni dopo, con più complice ironia, con la commovente "Oh, sister".

Concludendo su De Gregori, nel migliore dei casi, abbiamo un ottimo allievo di un grande maestro, in ritardo però di almeno 20 anni.
Nel peggiore, un saccente scolaretto che gioca a fare Dylan che giocava a fare Rimbaud, con risultati nettamente inferiori.

Tocchiamo qui un capitolo dolente: l'ermetismo dei cantautori anni'70. Vale a dire, il diritto di poter scrivere (con la scusa della licenza poetica) dei testi sostanzialmente senza senso.
Una sorta di quadro bianco d'artista moderno improvvisato in forma di canzone. 
Siccome non voglio fare la figura della moglie di Alberto Sordi che alla Biennale si siede sulla sedia à là Duchamp  in "Vacanze intelligenti", è opportuno fare dei distinguo, come se ne dovrebbero fare tra Francis Bacon e un qualsiasi cretino che buchi le tele o in-techi (e non mantechi) i propri escrementi.
Un conto sono le "catene di immagini lampeggianti" che Ginsberg invidiava a Dylan, in cui dall’ accostamento sperimentale d’inedite associazioni d’idee potevano nascere illuminazioni poetiche.
Altro conto è scrivere la prima cosa che ti viene in mente e dargli un tono poetico.
 Per affermare la differenza abissale basterebbe menzionare un verso solo:
 "the sky cracked its poems in naked wonder"
 tratto da “Chimes of Freedom “(canto di liberazione universale per cui veramente His Bobbiness si meriterebbe un Nobel) .
Ma prendiamo anche il Dylan più oscuro, lisergico, apparentemente incomprensibile: 
“The harmonicas play the skeleton keys and the rain”
 alla fine di “Visions of Johanna”.
E’ un verso pieno di suggestioni sonore, oltreché visionarie, che è superiore per musicalità e potenza ai deliri di Ginsberg, a tutti i beat, e tanta poesia americana ignara o indifferente verso gli equilibri formali classici.

Prendiamo invece una strofa del De Gregori classico, quello di “Rimmel”.
“Sig. Hood”, canzone dedicata (“con autonomia”) al Marco Pannella dei tempi eroici, appena reduce dalla vittoria del referendum sul divorzio:
“E adesso anche quando piove,/ lo vedi sempre con le spalle al sole, /con un canestro di parole nuove calpestare nuove aiuole, /con un canestro di parole nuove calpestare nuove aiuole. /E tutti lo chiamavano Signor Hood /ma il suo vero nome era spina di pesce,/ E tutti lo chiamavano Signor Hood”.

No comment.

Su questo devo scomodare un genio contemporaneo (è un'anticipazione di un omaggio a venire), un disegnatore che amo con trasporto quasi erotico (le sue opere, intendo): il magistrale Tuono Pettinato.
C'è una striscia pubblicata da XL per i 60 anni di Bowie, in cui egli sfotte, con sapiente ironia, la seconda strofa di "Life on mars?!" :
"It's on Amerika's tortured brow/ That Mickey Mouse has grown up a cow/ Now the workers have struck for fame/'Cause Lennon's on sale again/ See the mice in their million hordes/ From Ibeza to the Norfolk Broads/ Rule Britannia is out of bounds/To my mother, my dog, and clowns". ( "E' sulla fronte torturata dell'America/ Che Topolino è diventato una mucca/ Ora i lavoratori hanno scioperato per la fama/Perché Lennon è di nuovo in vendita/ Guardate i topi nelle loro milioni di orde/ Da Ibiza alle Norfolk Broads/"Rule Britannia" è stato messo al bando/ Per mia madre, il mio cane e i clown" , traduzione tratta da http://www.velvetgoldmine.it/testi/hunkydory.html dove trovate anche note esplicative)


Versi apparentemente senza senso, ma che ne acquistano pensando che Bowie sta elencando i pensieri confusi della bambina protagonista della canzone,  mescolando con la sua lunare fantasia ricordi distorti e frasi fraintese dal megafono straniante dei media.
Ma la stoccata funziona. C'è un'altra storia di Tuono Pettinato  ("Buckethead e la Malasanità") che è pertinente. La trovate in "Apocalypso, Tuono Pettinato-gli anni dozzinali", opera che sta al Nostro come "The piper at the gates of dawn" sta ai Pink Floyd .
Questa storia è la nemesi dei cantautori che vengono per sempre etichettati come l'opposto di quello che vorrebbero essere, inchiodati alla loro canzone più famosa (es. Dylan con "Blowin'in the wind",  Guccini con la "Locomotiva"). 
Questo karma artistico viene conclamato in una spassosa vignetta, dove Pino Daniele paga il fio del suo recente sputtanamento commerciale, vedendo la sua "Tazzulella 'è caffè", che nasceva come satira al vetriolo dei luoghi comuni su Napoli, proprio come emblema di quegli intollerabili stereotipi .
Ben gli sta, per aver scritto il distico peggiore della storia di tutte le letterature: "Che Dio ti benedica/che f..." , scusate non voglio scriverlo!
Come gli ammiratori hanno detto d’ogni personalità forte ed esuberante (da Cesare a Napoleone, da Mussolini a Chinaglia), Tuono Pettinato anche quando apparentemente sbaglia, alla fine ha sempre ragione!!

Una delle, tante, benedizioni artistiche di Guccini, è che questo sterile vezzo ermetico non lo ha mai avuto.
L'utilizzo della forma classica della ballata lo avrà reso apparentemente monotono, ma lui certo non ha mai avuto bisogno di rifugiarsi negli sperimentalismi ambigui.
Un vizio a tratti anche di De Andrè,  soprattutto a metà anni'70,  guarda caso proprio durante la collaborazione con De Gregori, nel disco “Volume 8”.
Si dice che De Andrè temesse d'aver ricevuto dal collega romano gli scarti dei testi di "Rimmel".
Riposa in pace, Fabrizio.
Non è che:
 “Vorrei sapere, quanto è grande il verde /come è bello il mare, quanto dura una stanza/ 
è troppo tempo che guardo il sole, mi ha fatto male " (“Oceano” da “Volume 8”)
 sia tanto peggio di:
“Ma mio padre è un ragazzo tranquillo/ la mattina legge molti giornali è convinto di avere delle idee/ e suo figlio è una nave pirata/ e suo figlio è una nave pirata” 
(“Le storie di ieri”, presente sia in “Rimmel “ cantata da De Gregori, che in “Volume 8” cantata da De Andrè)


Fabrizio De Andrè
il cantore dei cattivi divenuto santino dei buoni

De Andrè: snobbato per anni e dopo la morte divenuto un santino anarchico, anche lui vittima della potenza delle sue parole, più forti della suo essere selvaticamente refrattario a miti e bandiere.

Al colmo delle esagerazioni, Fernanda Pivano, lo definì il “più grande poeta del Novecento italiano”.
Del resto, c'è chi ha accostato la Silvia di Leopardi a "Albachiara" di Vasco.
E qui mi fermo, altrimenti contraddirei il mio primo post in cui ho affermato di essere contrario alle bestemmie...

Vogliamo tutti bene alla Pivano, che tradusse Lee Masters,  Fitzgerald, i beat e Dylan  in italiano, ma era certo una persona facile alle iperboli.
 Definì’ Dylan “L’Omero del XX secolo”, per poi dire "sarebbe necessario che invece di dire che Fabrizio De André è il Bob Dylan italiano si dicesse che Bob Dylan è il Fabrizio De André americano", facendo commuovere il cantautore genovese.
Nella parabola della simpatica scrittrice c’è tutta la decadenza della cultura di sinistra in Italia.
Una carriera iniziata con Pavese, continuata incontrando Hemingway,  Kerouac  e Burroughs ,  e finita incensando Ligabue.

Una differenza fondamentale nella personalità creativa di De Andrè lo fa il rapporto con le influenze, nel suo caso molteplici e tutte d'alto livello.
Il De Andrè degli anni '60 è senza dubbio sotto l'influenza  dei cantautori in lingua francese, Brel e Brassens sopra tutti, ma anche Cohen (Dylan lo scoprirà relativamente tardi)

Ora, se siete arrivati fino a qui avrete capito che amo le digressioni, e probabilmente non vi dispiacciono molto, altrimenti mi avreste già inviato mail piene di sputi telematici.
E' obbligatorio un omaggio a uno dei più grandi artisti popolari del Novecento (non solo come cantautore ma anche come interprete): Jacques Brel.
Non francese, ma fieramente belga.

Brel, come si suol dire, dà una pista (ma di quelle da maratona) a la stragrande maggioranza dei cantautori a lui contemporanei (in tutto il mondo).
Ribelle vero in tempi non sospetti (parliamo degli anni '50), fu creatore di melodie indimenticabili, dal respiro popolare eppure dalla raffinata composizione. 
Rinomata è la precisione maniacale dei testi, traboccanti della capacità autenticamente poetica di cogliere oscuri nodi interiori ed restituirli in versi memorabili.
Fu soprattutto una creatura poetica, un uomo in cui ogni fremito nervoso, ogni intensa espressione facciale esprimevano sentimenti profondi, reali, ardenti.
Un'artista fonte di verità umana.
Nemico d'ogni improvvisazione, del mito romantico dell'ispirazione, in questo d'accordo con Baudelaire, Brel era un artista dalla rara consapevolezza creativa:



Brel ha scritto forse la preghiera d'amore più bella del mondo:  "Ne me quitte pas".
Se è vero che Gigi Proietti lo ha magnificamente canzonato come 
emblema dell'esistenzialismo intellettualoide francese:



è pure vero come diceva il già citato Baudelaire: “Creare luogo comune è genio”.
Chissà che avrebbe pensato il grande poeta , lui che negli stessi appunti di questo aforisma, divideva  l'umanità in  due categorie: uomini e belgi …

E poi, l'incontenibile, drammatica, inarrivabile presenza sul palco di Brel. In confronto alla sua intensità dal vivo, Iggy Pop (che infatti lo ama) è un composto pianista da “Piano bar” (ah, altra canzonetta di De Gregori...).
Basti confrontare le due versioni di "Amsterdam"
quella straziante e travolgente di Brel




con quella, pur degna, del cantante che ha portato all'epitome la teatralità nel rock, cioè Bowie, così intelligente da studiarlo e omaggiarlo:

Pagato il giusto tributo all'amato Jacques, torniamo al buon Faber.
Il legame di De Andrè con la canzone francese è così profondo da approdare e legarsi alla tradizione letteraria delle ballate medievali di Francois Villon (“La ballata degli impiccati” e “Il testamento”) ma anche da raschiare dal barile dei moralisti del '600.
In tanti anni, pochi si sono accorti di come il verso forse più bello e proverbiale di "Bocca di Rosa" (“Si sa che la gente dà buoni consigli/ quando non può più dare cattivo esempio”) sia un furto dal moralista supremo, La Rochefocauld.  Furto astutamente attenuato dal "si sa,."...


Ma poi, a differenza di De Gregori, pur procedendo a tentoni tra varie influenze, il cantautore genovese ha saputo creare una propria forte e inconfondibile personalità autoriale.
E’ stato, soprattutto, sempre coerente e integrato con la sua poetica, incentrata su l'identificazione col diverso, in tutte le sue più grottesche e tragiche declinazioni: l’ oppresso, l’  umiliato e offeso,  l'alienato, “sfruttato represso calpestato odiato” (insomma tutti gli aggettivi del fratello figlio unico di Rino Gaetano).
Una sorta di “Desolation Row” (da lui tradotta miseramente sempre con De Gregori, fino a cambiarne addirittura il senso) lunga tutta una carriera, un microcosmo anti-borghese abitato da icone popolari quali il matto, il tossico, il fallito, la puttana,  il trans, il nano, quest'ultimo anche nelle sue versioni meno apprezzabili: il nano che si vende la madre, (anzi compra quella altrui),  il nano giudice infame.

Nel primo caso il riferimento ovviamente è a una delle più riuscite "commedie umane" balzachiane in tre minuti del primo De Andrè: “La città vecchia”.
Canzone nata non solo come atto d’amore per il porto malfamato di Genova, ma per divenire ritratto e manifesto dell’umanità che popolava quei vicoli brulicanti di vita e peccato.

Nel secondo caso,( “Un giudice” ) assistiamo alla vetta espressiva dell'odio di De Andrè verso l'autorità in genere,.
Un tema ricorrente  (si pensi a “Il Bombarolo" o a "Il pescatore”),  espresso stupendamente nel verso di un'altra canzone dello stesso album,  "Un medico"
"un giudice, un giudice con la faccia da uomo".
Differenza antropologica dei giudici...ricordate chi l'ha detto?!!
Del resto Silvio e Faber cantavano sulle navi insieme...

Fa ridere come tale atteggiamento di rivolta contro la giustizia istituzionale abbia come padri nobili Bakunin e Malatesta, e  come ignobili eredi attuali Sallusti e la Santanchè.
Torniamo  al rovesciamento pasoliniano operato dal Potere, analizzato nel primo post:
gli opinion leader dell’opposizione localizzati a sinistra parlano di autorità e legalità;
Travaglio, De Magistris, Di Pietro (nel suo caso fin dal nome del partito),  in un paese normale sarebbero figure di destra, di una destra liberale e legalitaria;  la destra, invece, attacca la Giustizia e predica la “libertà”, con rivendicazioni e linguaggio da anarchici, non da ex-fascisti, men che mai da moderati.
Qui mi è imposto il richiamo al più grande analista politico degli ultimi 20 anni.
Ovviamente, Corrado Guzzanti:




L'originalità e la grandezza di De Andrè sono molto nell' aver cantato la cruda realtà dei sottofondi, con una simbiotica aderenza formale.
Pur attingendo, come visto, a destra e a manca (ma il tesoro della canzone popolare è stato ed è, oggi più che mai, saccheggiato a piene mani dallo stesso Dylan), De Andrè è stato in grado di creare, e incarnare, dei "tòpoi" validi per il cantautorato mondiale.
Se ci pensiamo  un attimo, “Where the wild roses grow" è la versione dark e omicida de
 “La Canzone di Marinella”.
Tornando a Baudelaire, nella misura in cui Faber ha creato qualche luogo comune, dobbiamo riconoscerli un certo genio.

Anche qui, già che ci siamo, spazziamo via un pò di stereotipi.

De Andrè, rinomato per i toni depressivi e funebri, ha in realtà aperto le porte della satira nel cantautorato, componendo col suo grande amico Paolo Villaggio la famosa parodia di Carlo Martello (graziosa anche l'altra composizione dei due, "Il fannullone").
Gustatevi quando avete tempo i suoi cattivissimi e divertentissimi ricordi.

                                        

Altro grande merito storico, è quello d'aver messo  l'attenzione sui "Vangeli Apocrifi", nel disco "La Buona Novella", anche se operando un'umanizzazione della storia evangelica troppo facile. Un rovesciamento che può si deliziare gli anti-teisti, ma oltre ad essere disturbante per i credenti, è debole e forzoso anche per gli atei onesti.

Il limite di De Andrè è stato quello (comune a tanti grandi artisti "contro") di ridursi alla "pars destruens", e quindi ad esaltare sempre comunque ciò che è oscuro, diverso, illegale.
Certo,  nell' Italia ipocrita e democristiana ipnotizzata dal benessere, benedette le voci coraggiose e discordanti che hanno mostrato l'altra faccia della medaglia.
Ma ora, con distacco storico, possiamo riconoscere che si tratta d'un vizio romantico, di un limite di visione. Per contestare ciò che formalmente è Bene, si simpatizza, spesso forzosamente, per ciò che è Male.
Del resto, il rapporto di De Andrè con la spiritualità è stato alterno, non sempre fecondo, viziato da filtri ideologici (o antideologici che dir si voglia).
Parlo dell'opera, non della santità laica sfiorata nel perdono ai rapitori che lo avevano sottoposto ad un umiliante prigionia assieme alla moglie (rievocata nella fin troppo celebrata "Hotel Supramonte").

E' da sottolineare, osservando la sua lunga produzione, un paradosso illuminante.
De Andrè è sempre stato un autore irriverente, irreligioso, anticlericale, spesso blasfemo.
A volte gratuitamente come in "Coda di Lupo", a volte programmaticamente come ne "Il Testamento di Tito" (brano in cui il rovesciamento polemico dei Dieci Comandamenti  non appare sempre convincente).
Però, se andiamo a vedere la prima traccia del primo disco e l'ultima dell'ultimo sono entrambe "preghiere".

La prima ("Preghiera in gennaio" si dice ispirata dalla morte di Luigi Tenco) così commovente e intensa da vincere  l'effetto datato degli archi e del birignao.

(A PROPOSITO, VI  SVELO UN SEGRETO:
se amate fare parodie oscene di canzoni famose, De Andrè è una manna dal cielo: il tono serio e malinconico, la pronuncia lenta e staccata delle sillabe, la voce impostata, il susseguirsi di rime interne e baciate, tutto congiura a creare tempi comici devastanti.
Usate questo consiglio con cura preziosa, mi raccomando.)

La seconda, "Smisurata preghiera", è il vero testamento spirituale di De Andrè.
E' uno dei vertici della sua maturità poetica.
Una sintesi finale dei diversi stili della sua carriera, dove c'è l'abilità di intagliare versi perentori e perfetti, da manifesto eterno:
 "per chi viaggia in direzione ostinata e contraria/ col suo marchio speciale di speciale disperazione/ e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi/ per consegnare alla morte una goccia di splendore / di umanità, di verità".

Una "Chimes of Freedom" senza visione, un auspicio sospeso tra pessimismo e scaramanzia, ma comunque una preghiera di giustizia. Giustizia che nel finale, coerente con lo scetticismo d'una intera vita, viene considerata, quasi gnosticamente, "un'anomalia".
Una carriera di bestemmie circolarmente conchiusa da due preghiere.


Ma va riconosciuto a De Andrè soprattutto il grande valore di essersi reinventato, con grande lungimiranza,  a inizio anni'80. Prima che i suoi grandi modelli  (come Dylan e Cohen) flirtassero, registrando alterni esiti, con videoclip e sintetizzatori, De Andrè  con "Creuza de ma" mostrava la via dell'l'impasto etnico e  strumentale, donando alta dignità poetica al vernacolo genovese.
In anticipo netto (come riconosciuto da tutti) sul Paul Simon di "Graceland" e su quell' artista benedetto di Peter Gabriel, in uno dei suoi capolavori, "Passion" (Dio lo abbia in gloria anche, solo per il semplice motivo d'aver fatto conoscere all'Occidente la più bella voce in natura, Nusrat Fateh Ali Khan!)

Dobbiamo concedere a De Andrè il dono di aver saputo estrarre dal magma di una ispirazione spesso approssimativa e limitata (la poetica degli esclusi), comunque, dei versi di grande potenza e di profonda incisività, degni d'essere entrati nella memoria collettiva.

Sottovalutato per anni, esageratamente incensato dopo, De Andrè rimane un cantautore importante, che ci lasciato in dono alcuni brani d'intatta bellezza, e che anche nei suoi esperimenti meno riusciti, ha mantenuto alta la barra della ricerca.
Un esempio di coerenza e di perfetta aderenza tra forma e contenuto.
Negli ultimi scampoli di questo infernale Kali Yuga, merita d'essere messo sull'altare.

E Guccini?
Al Guccio (a ai motivi della sua superiorità!) sarà interamente dedicata la terza parte del nostro discorso.
Vi posso solo anticipare questo:
 De Gregori lo amavo a 13 anni, De Andrè a 20. 
Guccini ora, e per sempre.