Broadway", memorabile concept album del '74, ultimo burrascoso capitolo dell'aurea "era Gabriel" del gruppo.
Solitamente, non amo le cover band. Per quanto possano essere meritorie e filologicamente accurate nelle loro ricostruzioni (alcune impressionanti, ad esempio gli Apple Pies col primo periodo dei Beatles), scontano sempre un artificio intrinseco, soprattutto nel caso di repliche d'artisti ancora in vita. Non si va oltre l'ammirazione, eventuale, per la capacità mimetica dimostrata, ma siamo sempre di fronte a un freddo clone di un originale irraggiungibile. Un surrogato, per quanto gradevole, che non fa che rimembrarci in maniera straziante l'evidenza d'essere nati 20 anni in ritardo rispetto al Grande Rinascimento (come dice Alessandro Caroni) delle arti popolari del ventennio '60-'70.
Queste legittime resistenze svaniscono d'incanto di fronte all'unica eccezione dei "The Musical Box", in particolare in questo caso.
Non solo perché il gruppo in questione è probabilmente la "migliore"cover band in assoluto, cioè quella che più riesce a ricreare in maniera magicamente identica i suoni, le movenze, i costumi, l'atmosfera del gruppo d'ispirazione (e, con tutto il rispetto, rifare dal vivo in maniera impeccabile "The Cinema Show" non è la stessa cosa che fare "In My Life").
Non solo perché Gabriel e i Genesis hanno concesso loro, caso unico, i diritti integrali per portare in tournéé lo spettacolo originale di "The Lamb lies down on Broadway" (QUI la fonte delle varie collaborazioni).
Non solo per questo, che già sarebbe abbastanza. Ma perché dello spettacolo originale in questione non esiste alcuna registrazione. Com'è noto, Gabriel aveva annunciato l'abbandono del gruppo prima di andare in tour, e quindi il gruppo non ritenne opportuno immortalare delle performance cariche di tristezza e tensione, che sarebbero poi state ulteriormente tormentate da continui problemi tecnici.
"The Musical Box" hanno impiegato sette anni per ricostruire, con scrupolo e pazienza da talmudisti, lo spettacolo originale attraverso la collaborazione dei loro idoli e dei tecnici dell'epoca, arrivando a recuperare addirittura lo slide-show che accompagnava la narrazione sullo sfondo, aiutandosi con immagini di repertorio e super-8 (ovviamente senza sonoro) dei fan dell'epoca. E sono riusciti a far resuscitare, con commovente fedeltà, uno dei momenti più alti e significativi del teatro-rock.
Per cui non si tratta di uno sterile tributo, ma di un evento davvero imperdibile per gli amanti dei Genesis. Snobbarlo come un'insignificante copia, equivarrebbe concettualmente a considerare inutile la visione dell'"Aida" all'Opera o del "Macbeth" a teatro (riguardo ciò, un giorno ci divertiremo).
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Questo concerto è per me l'occasione di scrivere qualcosa sui Genesis, una delle più importanti e, per il sottoscritto, sottovalutate band della Storia del Rock.
Ovviamente, mi sto riferendo ai veri Genesis, quelli di Peter Gabriel, di cui "The Lamb lies down on Broadway" è il tumultuoso e geniale testamento. Non m'interesso della pop-band che ne ha usurpato il nome successivamente, seppellendo il tesoro inestimabile dell'abbagliante quinquennio 71-75, sotto una frana rovinosa di scioccherelle canzoncine anni '80 (salvo solo, com'è pacifico per tutti gli schieramenti sul tema, l'immediatamente seguente"A Trick of the Tail", generato però da materiale precedente).
Strano destino, quello di una band straordinaria, troppo spesso confinata nell'etichetta scolastica di "più grande gruppo progressive". Per le contorte dinamiche del mainstream, la folgorante bellezza delle loro opere è rimasta schiacciata tra la venerazione universale tributata ai Pink Floyd, l'esclusiva dei nostalgici fricchettoni accaparrata dai primi King Crimson, e la devozione della nobile ma sparuta genìa degli "esperti" di progressive-rock, condivisa con i Gentle Giant e gli ingiustamente trascurati Van der Graaf Generator.
Eppure, semplicemente osservando la storica line-up, i Genesis appaiono, a posteriori, come una impensabile super-band, un dream-team di eccellenze complementari, una "cooperativa di musicisti", come amavano definirsi, unita da una felicissima e irripetibile coincidenza astrale. Scorriamo brevemente le figure immortalate nella formazione classica, in ordine di personale ammirazione: Phil Collins, che prima di condannarsi al ruolo di Amedeo Minghi del Mondo, era una batterista magistrale, non solo tecnicamente notevole ma in grado di creare nuovi ritmi, soluzioni modernissime, variazioni volanti poi divenute preda di saccheggio metodico negli anni successivi; Mike Rutheford, compositore e musicista di grande versatilità, in grado di passare dalla iconica dodici corde alla chitarra ritmica fino a reinventarsi, dopo l'abbandono di Hackett nel'77, convincente chitarra solista; Tony Banks, abile polistrumentista e tastierista d'eccezione, severo genio compositivo dotato nelle dita dell'equilibrio melodico proprio dei classici (si pensi alla memorabile introduzione di "Firth of Fifth", agli intermezzi strumentali di "Supper's Ready", alla solennità straniante dell'intro di "Watcher of the Skies", o alla perturbante commozione delle atmosfere di "The Lamia"); Steve Hackett, uno dei chitarristi più importanti, a livello di impatto innovativo, della Storia del Rock (chiedete a Brian May), da molti indicato come l'inventore del tapping (o quantomeno colui che lo portò alla massima gloria, prima di Eddie Van Halen), consegnato all'epica popolare dagli assoli di "Dancing with moonlit Knight" e "Firth of Fifth"; e poi, ovviamente, lui, l'Arcangelo: Peter Gabriel, folletto filiforme e cangiante, paroliere visionario e barocco, frontman dal carisma teatrale ipnotico e beffardo, ma soprattutto instancabile ricercatore musicale e spirituale.
Con tutto il rispetto per la sua importante carriera solista, per il suo nobile impegno umanitario, per l'inestimabile lavoro di talent-scout di musica etnica (dobbiamo a lui la diffusione nel mondo di una delle più belle voci del Novecento, il sublime "usignolo di Allah", Nusrat Fateh Ali Khan, e conseguentemente del Qawwali, giacimento di pura bellezza della tradizione sufi)...per noi le vette della sua arte rimangono le performance da fool shakesperiano, i testi commisti di dirompente erotismo e tensione mistica, e le melodie dolenti e rinascimentaleggianti della sua militanza genesisiana.
I Genesis hanno, nel lampo accecante di pochi dischi, riassunto in nuce e portato alla massima elaborazione tutto il meglio che la musica popolare aveva fino a quel punto, e avrebbe in seguito, espresso: l'attenzione sociale e il valore poetico dei cantautori (nei testi di Gabriel, ad esempio in "The Knife" e in "Supper's Ready"); le ambizioni sinfoniche dei grandi gruppi anni '70 come i Pink Floyd e, in maniera diversa, i Queen (in tutti i brani celebri, e non solo, del gruppo,); la mimesi, la teatralità rivelatrice che verranno portate all'epitome da Bowie, ma arricchite da Gabriel di una più profonda consapevolezza simbolica; il possesso e la realizzazione della formula definitiva della canzone pop ("I Know What I Like (In your Wardrobe)"); il virtuosismo tecnico, che giustificherà di per sé l'esistenza di numerosi gruppi successivi, soprattutto negli ambiti ulteriori all'hard-rock, in questo caso assolutamente non fine a se stesso, ma messo al servizio di una ricchezza compositiva corale, in alcuni casi senza raffronti; l'anticipazione, anche qui dosata in misure e tempi magistrali, dei più entusiasmanti momenti del rock successivo, fino al metal (il famoso rullìo militare della seconda parte "One" dei Metallica è già presente in maniera molto più brillante nella stessa posizione di "The Knife"; guarda caso argomento simile, ma con abissale differenza di profondità); il recupero, poetico e musicale, delle tradizioni popolari e della mitologia, nella loro fiabesca ricchezza primordiale di racconto archetipico (linea rossa che lega tutti gli album da "Trespass" a "Selling England by the Pound");
In brani come "Supper's Ready", i Genesis hanno forse spinto le possibilità della musica rock alle massime potenzialità espressive, con un ampiezza di respiro compositivo e una universalità di messaggio che non ha, per chi scrive, davvero nulla da invidiare a celebratissimi dischi-feticcio come il "White Album" dei Beatles o "The Dark Side of the Moon" dei Pink Floyd.
Una ricchezza di stimoli culturali e intuizioni compositive, spesso perfettamente compiute, che fatico a riscontrare altrove.
Solo il leggendario disco mai realizzato insieme da Bob Dylan e Frank Zappa (quest'ultimo, genio indiscusso, pretendeva di voler scrivere lui i testi di fronte al futuro Premio Pulitzer, in seguito più volte candidato al Premio Nobel della Letteratura), considerando le potenzialità titaniche messe in campo, avrebbe potuto superarli per creatività e genio.
Mi ripropongo anche in questo caso di scriverci un libro: è una delle mie tante battaglie culturali, accanto a quella per l'eliminazione dei testi di Fabio Volo dal settore narrativa delle librerie e l'adozione di un test d'intelligenza e di cultura generale per avere accesso al diritto di voto.
Nel prossimo articolo, ci occuperemo più nel dettaglio di "The Lamb lies down on Broadway", e delle sue complesse e illuminanti possibilità d'interpretazione.