Esattamente venti anni fa, a quest'ora, tornavo da scuola a casa di mia nonna (personalità straordinaria alla quale devo geneticamente molte delle mie capacità dialettico-argomentative), con la quale all'epoca vivevo.
Mia nonna mi accoglie con la notizia: "E' morto Frank Zappa".
Io rimango senza parole, colpito dalla paradossalità della scena: "Come? Non ho capito...", e lei insiste: "Frank Zappa, il cantante americano, con i capelli lunghi e i baffoni! Ma che non lo conosci? Era un pazzo, ma era geniale. Mi dispiace".
Stessa scena era avvenuta due anni prima in occasione della morte di Freddy Mercury.
Ma, comprenderete, l'impatto in questo fu ancora più paradossale, spiazzante, surreale.
In una parola zappiano.
Zappa fu (accanto a Dylan, il "Don Giovanni" di Mozart e i Velvet Underground) la colonna sonora della mia adolescenza. Il suo poster gigantesco campeggiava nella mia cameretta con un'espressione di beffarda eleganza.
Come già menzionato in questo blog, ogni sera dei miei sedici anni trovava il suo apice nella scena consueta: Lorenzo Ceccotti, Daniele Capuano (che ce lo aveva fatto amare) e il sottoscritto per i vicoli di Trastevere, a intonare ebbri integralmente almeno uno dei tre capitoli formanti la formidabile trilogia iniziale "Freak Out", "Absolutely Free" e "We're Only in it for the Money".
Se Dylan era la porta verso la poesia, la ricerca spirituale, il cantore dei sentimenti nobili e degli ideali vibranti, Zappa per me incarnava magnificamente la pars destruens (come nel prosieguo della mia formazione culturale faranno Cèline nella letteratura e Carmelo Bene nella riflessione filosofica), lo sberleffo trionfante dell'intelligenza nei confronti della sconfortante insensatezza del Brutto che ci assedia.
Senza di lui non avremmo avuto probabilmente: Prince, i Primus, Stefano Bollani, "I Simpson", "I Griffin", "South Park", Elio e le Storie Tese etc...ognuno di noi pensi quanto deve a quest'uomo.
Tale fu il debito di riconoscenza che il nostro primo tentativo editoriale fu intitolato "Lampi Grevi", in omaggio al suo primo disco solista "serio" (per quanto possa avere senso tale definizione) "Lumpy Gravy".
Eccone il formidabile tema principale, per anni inno interiore delle nostre gesta:
A quella fanzine, dalla breve ma gloriosa esistenza, collaborarono (da co-fondatori) quelle che con molto affetto definisco alcune fra "le menti migliori della mia generazione": oltre ai citati Ceccotti e Capuano, c'erano Gianluca Abate, Lucio Villani, Daniele Catalli, Mariachiara Di Giorgio come valenti disegnatori, Francesco Fava, Alessandro Caroni, Luca Cruciani, Francesco Di Giorgio come fertili menti di idee e contenuti (chiedo perdono a chi eventualmente abbia dimenticato).
Lo strambo nickname che dà il nome al blog che state leggendo ebbe origine proprio in quel periodo, esattamente dal fotoromanzo "Neve e Sangue", ambientato a S.Pietroburgo e girato alla Garbatella, partorito dalle menti geniali di Alessandro Caroni e Luca Cruciani.
Oggi, per commemorare il ventennale della scomparsa, Lucio Villani sul suo blognon a caso ha ritratto proprio la copertina di quell'album.
Zappa visto da
Lucio Villani
Come raccontare la grandezza di Zappa nella tirannica brevità di un post?!
(già sento le vostre battutine, sciocchi!)
Vorrei sottolineare aspetti meno immediatamente evidenti di quelli che chiunque può ricordare (il genio musicale, il respiro orchestrale delle sue composizioni, la provocazione oltraggiosa, lo sberleffo anti-perbenista etc.)
La prima considerazione è quella di sottolineare l'intelligenza assoluta, tutt'altro che sregolata, ma lucidissima, matematica, inesorabile del suo progetto musicale e della sua visione culturale.
A riprova di ciò, Zappa fu uno dei principali riferimenti del primo, fortunato post di questo blog (lo trovate QUI)
Come dice il titolo di uno dei suoi, se non erro, 64 dischi, Zappa & the Mothers of Invention erano davvero "Ahead of their Time": un anticipo strabiliante sui loro tempi che ora a distanza quasi di 40 anni dall'esordio dobbiamo pubblicamente riconoscere.
Solo un genio poteva architettare la più grande parodia del movimento hippy in tempo reale. "We're only in it for the money", parodia frontale del disco feticcio dei Beatles fin dalla copertina.
Un disco che dimostra (oltre che una ricchezza incontenibile di spunti musicali e acrobazie melodiche) una capacità di analisi culturale che in quegli anni forse ha avuto solo Pasolini, e Gaber poi, per rimanere in Italia.
Solo un genio poteva decostruire seduta stante il mastodontico movimento culturale di illusoria ribellione, i cui penosi strascichi scontiamo ancora oggi nella sistematica inversione di segno di tutti i suoi protagonisti (per rimanere sempre nel nostro Paese si pensi alla larga parte di militanti di "Lotta Continua" trasferitisi in blocco tra le file berlusconiane).
Solo un genio poteva creare una bomba contro l'ipocrisia yankee come "Brown shoes don't make it", cioè "American Beauty" più corrosivo e profondo fatto trent'anni prima in 7.30 minuti di genio satirico assoluto: pochi minuti in cui Zappa riesce a prendere in giro magnificamente praticamente chiunque (da Schoenberg a Jim Morrison) scoperchiando sardonico il tappeto del perbenismo W.A.S.P., e mostrando spietatamente l'immondizia morale che ne era la sostanza.
E poi, potremmo parlare ore (sono vent'anni che lo facciamo!) dell'infinita aneddotica oltraggiosa, che ha reso Zappa il monumento vivente al politicamente scorretto vero, ben più delle adorabili provocazioni di "Catholic Girls", "Bobby Brown" o "Jewish Princess" (ebbe l'infallibile prontezza di raccogliere tutti i suoi brani offensivi nell'antologia "Have i offended someone?").
Mi riferisco soprattutto ai suoi rapporti con gli altri grandi geni del rock.
Dalle scaramucce sul palco con i Velvet Underground durante il concerto del 1966 (si dice che gli introdusse più o meno: "ora suonano loro, fanno schifo", approfondimenti QUI); allo stentoreo "Fxxx You, Captain Tom" ripetuto a David Bowie, colto di sorpresa a soffiargli il chitarrista Adrian Belew (lo racconta quest'ultimo QUI); al famoso episodio con Dylan: dopo averlo accolto con giocose battute antireligiose, la leggenda narra che Zappa rispose alla proposta di fare un disco insieme (da parte ricordiamo del futuro Premio Pulitzer e più volte candidato al Premo Nobel per la Letteratura) : "Va bene Bob, ma i testi li scrivo io!" (va detto che Bob era reduce dalla trilogia cristiana ben poco affine all'ispirazione di Frank, come spiegato QUI);
Come non menzionare il colpo di teatro assoluto: la candidatura al Presidente degli Stati Uniti d'America.
Il genio.
Ora, personalmente non condivido l'iper-laicismo ideologico di Zappa, ma vederlo sbeffeggiare l'ottusità della censura perbenista americana con i suoi proclami alla Groucho Marx è uno dei grandi piaceri della vita (dato questo assunto QUI, gioitene QUI).
Questo intende essere solo un doveroso omaggio, senza nessuna pretesa esaustiva di raccontare una carriera irripetibile.
Ma soprattutto, vuole essere un invito a non confinare un artista straordinario nelle stanche etichette di "provocatore", "goliarda", "genio e sregolatezza". Frank Zappa è stato non solo uno degli artisti più eclettici e preparati della recente storia musicale americana, ma è stato una delle poche figure della cultura "pop" a manifestare la consapevolezza culturale dei grandi maestri.
Il talismano dell'intelligenza contro i condizionamenti della società.
Era anche un fulminante aforista.
Tra le innumerevoli citazioni, scelgo: "Se passi una vita noiosa e miserabile perché hai ascoltato tua madre, tuo padre, il tuo insegnante, il tuo prete o qualche tizio in tv che ti diceva come farti gli affari tuoi, allora te lo meriti." Non dimentichiamocelo mai. Grazie Frank.
Per il secondo anno consecutivo sono andato a vedere "The Musical Box", la celebre cover band dei Genesis, nella loro intatta esecuzione di "The Lamb lies down on Broadway", memorabile concept album del '74, ultimo burrascoso capitolo dell'aurea "era Gabriel" del gruppo.
Solitamente, non amo le cover band. Per quanto possano essere meritorie e filologicamente accurate nelle loro ricostruzioni (alcune impressionanti, ad esempio gli Apple Pies col primo periodo dei Beatles), scontano sempre un artificio intrinseco, soprattutto nel caso di repliche d'artisti ancora in vita. Non si va oltre l'ammirazione, eventuale, per la capacità mimetica dimostrata, ma siamo sempre di fronte a un freddo clone di un originale irraggiungibile. Un surrogato, per quanto gradevole, che non fa che rimembrarci in maniera straziante l'evidenza d'essere nati 20 anni in ritardo rispetto al Grande Rinascimento (come dice Alessandro Caroni) delle arti popolari del ventennio '60-'70.
Queste legittime resistenze svaniscono d'incanto di fronte all'unica eccezione dei "The Musical Box", in particolare in questo caso.
Non solo perché il gruppo in questione è probabilmente la "migliore"cover band in assoluto, cioè quella che più riesce a ricreare in maniera magicamente identica i suoni, le movenze, i costumi, l'atmosfera del gruppo d'ispirazione (e, con tutto il rispetto, rifare dal vivo in maniera impeccabile "The Cinema Show" non è la stessa cosa che fare "In My Life").
Non solo perché gli stessi ex-membri dei Genesis li hanno a turno sostenuti ed elogiati in maniera pubblica e commovente: Tony Banks ha aperto loro l'archivio originale dei master tape per consentirgli di studiare i brani traccia per traccia; Phil Collins ha detto che eseguono i brani in questione meglio dei Genesis del'74 (confrontate voi: la cover band QUI e l'originale dal vivo QUI) e ha suonato la batteria sul brano che dà il nome al gruppo; in precedenza anche Steve Hackett aveva suonato nei bis in un concerto alla Royal Albert Hall: Peter Gabriel ha portato i suoi figli a vederli e avrebbe risposto più volte che è inutile chiedergli della riunione dei Genesis (resa ahimé ormai impossibile dai problemi di sensibilità alla mano sinistra di Phil Collins), visto che tanto ci sono "The Musical Box".
Non solo perché Gabriel e i Genesis hanno concesso loro, caso unico, i diritti integrali per portare in tournéé lo spettacolo originale di "The Lamb lies down on Broadway" (QUI la fonte delle varie collaborazioni).
Non solo per questo, che già sarebbe abbastanza. Ma perché dello spettacolo originale in questione non esiste alcuna registrazione. Com'è noto, Gabriel aveva annunciato l'abbandono del gruppo prima di andare in tour, e quindi il gruppo non ritenne opportuno immortalare delle performance cariche di tristezza e tensione, che sarebbero poi state ulteriormente tormentate da continui problemi tecnici. "The Musical Box" hanno impiegato sette anni per ricostruire, con scrupolo e pazienza da talmudisti, lo spettacolo originale attraverso la collaborazione dei loro idoli e dei tecnici dell'epoca, arrivando a recuperare addirittura lo slide-show che accompagnava la narrazione sullo sfondo, aiutandosi con immagini di repertorio e super-8 (ovviamente senza sonoro) dei fan dell'epoca. E sono riusciti a far resuscitare, con commovente fedeltà, uno dei momenti più alti e significativi del teatro-rock.
Per cui non si tratta di uno sterile tributo, ma di un evento davvero imperdibile per gli amanti dei Genesis. Snobbarlo come un'insignificante copia, equivarrebbe concettualmente a considerare inutile la visione dell'"Aida" all'Opera o del "Macbeth" a teatro (riguardo ciò, un giorno ci divertiremo).
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Questo concerto è per me l'occasione di scrivere qualcosa sui Genesis, una delle più importanti e, per il sottoscritto, sottovalutate band della Storia del Rock.
Ovviamente, mi sto riferendo ai veri Genesis, quelli di Peter Gabriel, di cui "The Lamb lies down on Broadway" è il tumultuoso e geniale testamento. Non m'interesso della pop-band che ne ha usurpato il nome successivamente, seppellendo il tesoro inestimabile dell'abbagliante quinquennio 71-75, sotto una frana rovinosa di scioccherelle canzoncine anni '80 (salvo solo, com'è pacifico per tutti gli schieramenti sul tema, l'immediatamente seguente"A Trick of the Tail", generato però da materiale precedente).
Strano destino, quello di una band straordinaria, troppo spesso confinata nell'etichetta scolastica di "più grande gruppo progressive". Per le contorte dinamiche del mainstream, la folgorante bellezza delle loro opere è rimasta schiacciata tra la venerazione universale tributata ai Pink Floyd, l'esclusiva dei nostalgici fricchettoni accaparrata dai primi King Crimson, e la devozione della nobile ma sparuta genìa degli "esperti" di progressive-rock, condivisa con i Gentle Giant e gli ingiustamente trascurati Van der Graaf Generator.
Eppure, semplicemente osservando la storica line-up, i Genesis appaiono, a posteriori, come una impensabile super-band, un dream-team di eccellenze complementari, una "cooperativa di musicisti", come amavano definirsi, unita da una felicissima e irripetibile coincidenza astrale. Scorriamo brevemente le figure immortalate nella formazione classica, in ordine di personale ammirazione: Phil Collins, che prima di condannarsi al ruolo di Amedeo Minghi del Mondo, era una batterista magistrale, non solo tecnicamente notevole ma in grado di creare nuovi ritmi, soluzioni modernissime, variazioni volanti poi divenute preda di saccheggio metodico negli anni successivi; Mike Rutheford, compositore e musicista di grande versatilità, in grado di passare dalla iconica dodici corde alla chitarra ritmica fino a reinventarsi, dopo l'abbandono di Hackett nel'77, convincente chitarra solista; Tony Banks, abile polistrumentista e tastierista d'eccezione, severo genio compositivo dotato nelle dita dell'equilibrio melodico proprio dei classici (si pensi alla memorabile introduzione di "Firth of Fifth", agli intermezzi strumentali di "Supper's Ready", alla solennità straniante dell'intro di "Watcher of the Skies", o alla perturbante commozione delle atmosfere di "The Lamia"); Steve Hackett, uno dei chitarristi più importanti, a livello di impatto innovativo, della Storia del Rock (chiedete a Brian May), da molti indicato come l'inventore del tapping (o quantomeno colui che lo portò alla massima gloria, prima di Eddie Van Halen), consegnato all'epica popolare dagli assoli di "Dancing with moonlit Knight" e "Firth of Fifth"; e poi, ovviamente, lui, l'Arcangelo: Peter Gabriel, folletto filiforme e cangiante, paroliere visionario e barocco, frontman dal carisma teatrale ipnotico e beffardo, ma soprattutto instancabile ricercatore musicale e spirituale.
Con tutto il rispetto per la sua importante carriera solista, per il suo nobile impegno umanitario, per l'inestimabile lavoro di talent-scout di musica etnica (dobbiamo a lui la diffusione nel mondo di una delle più belle voci del Novecento, il sublime "usignolo di Allah", Nusrat Fateh Ali Khan, e conseguentemente del Qawwali, giacimento di pura bellezza della tradizione sufi)...per noi le vette della sua arte rimangono le performance da fool shakesperiano, i testi commisti di dirompente erotismo e tensione mistica, e le melodie dolenti e rinascimentaleggianti della sua militanza genesisiana.
I Genesis hanno, nel lampo accecante di pochi dischi, riassunto in nuce e portato alla massima elaborazione tutto il meglio che la musica popolare aveva fino a quel punto, e avrebbe in seguito, espresso: l'attenzione sociale e il valore poetico dei cantautori (nei testi di Gabriel, ad esempio in "The Knife" e in "Supper's Ready"); le ambizioni sinfoniche dei grandi gruppi anni '70 come i Pink Floyd e, in maniera diversa, i Queen (in tutti i brani celebri, e non solo, del gruppo,); la mimesi, la teatralità rivelatrice che verranno portate all'epitome da Bowie, ma arricchite da Gabriel di una più profonda consapevolezza simbolica; il possesso e la realizzazione della formula definitiva della canzone pop ("I Know What I Like (In your Wardrobe)"); il virtuosismo tecnico, che giustificherà di per sé l'esistenza di numerosi gruppi successivi, soprattutto negli ambiti ulteriori all'hard-rock, in questo caso assolutamente non fine a se stesso, ma messo al servizio di una ricchezza compositiva corale, in alcuni casi senza raffronti; l'anticipazione, anche qui dosata in misure e tempi magistrali, dei più entusiasmanti momenti del rock successivo, fino al metal (il famoso rullìo militare della seconda parte "One" dei Metallica è già presente in maniera molto più brillante nella stessa posizione di "The Knife"; guarda caso argomento simile, ma con abissale differenza di profondità); il recupero, poetico e musicale, delle tradizioni popolari e della mitologia, nella loro fiabesca ricchezza primordiale di racconto archetipico (linea rossa che lega tutti gli album da "Trespass" a "Selling England by the Pound");
In brani come "Supper's Ready", i Genesis hanno forse spinto le possibilità della musica rock alle massime potenzialità espressive, con un ampiezza di respiro compositivo e una universalità di messaggio che non ha, per chi scrive, davvero nulla da invidiare a celebratissimi dischi-feticcio come il "White Album" dei Beatles o "The Dark Side of the Moon" dei Pink Floyd.
Una ricchezza di stimoli culturali e intuizioni compositive, spesso perfettamente compiute, che fatico a riscontrare altrove.
Solo il leggendario disco mai realizzato insieme da Bob Dylan e Frank Zappa (quest'ultimo, genio indiscusso, pretendeva di voler scrivere lui i testi di fronte al futuro Premio Pulitzer, in seguito più volte candidato al Premio Nobel della Letteratura), considerando le potenzialità titaniche messe in campo, avrebbe potuto superarli per creatività e genio.
Mi ripropongo anche in questo caso di scriverci un libro: è una delle mie tante battaglie culturali, accanto a quella per l'eliminazione dei testi di Fabio Volo dal settore narrativa delle librerie e l'adozione di un test d'intelligenza e di cultura generale per avere accesso al diritto di voto.
Nel prossimo articolo, ci occuperemo più nel dettaglio di "The Lamb lies down on Broadway", e delle sue complesse e illuminanti possibilità d'interpretazione.
Per quanto la vulgata nichilista contemporanea, nel suo tragico avvitarsi su se stessa, dia come assunto ormai scontato che l’esistenza sia priva di senso (un mero patetico sbattersi d’ impulsi freudiani fino all’ineluttabile epilogo dell’estinzione, unica certezza), io celebro ancora a testa alta lo stupore del mistico e del fanciullo di fronte al gioco misterioso in cui tutti, dalla nascita, ci ritroviamo attori e testimoni. E’ chiaro, ad un analisi razionale, fredda e oggettiva, l’esistenza appare esattamente come magnificamente descritta da anime sublimi e menti superiori, in vette nerissime di sapienza pessimista: “un pendolo che oscilla incessantemente fra noia e dolore” (Schopenhauer), “ un racconto narrato da un idiota, pieno di strepito e furia e senza significato alcuno (Shakespeare)”, “Amaro e noia... altro mai nulla; e fango è il mondo” (Leopardi). Insomma, la nostra mente, non fa che ripeterci il mantra dell’Ecclesiaste “vanitas vanitatum”, eternato ancora da Leopardi, in una mirabile variazione: “l’infinita vanità del tutto”. Questo tragico annuncio appare spietatamente confermato dalla mera constatazione della condizione umana: sofferenza ovunque, ingiustizia trionfante, il dolore come unico sentimento universale. La stragrande maggioranza dell’umanità vive in condizioni di indigenza, o è vittima d’ingiustizie, abusi, torture. La cronaca quotidiana è un intollerabile viaggio nell’orrore per chiunque abbia un residuo seppur minimo di sensibilità ed empatia umana. In più della metà del mondo la nascita equivale ad un violento approdo in un inferno di schiavitù, inedia, abusi di ogni tipo. Le ristrette oasi del mondo cosiddetto civile, evoluto, “ felice” sono prigioni per masse forzosamente costrette ad un bivio: o costrette a un affanno continuo per sopravvivere , strozzate in ritmi assurdamente frenetici e innaturali; o, peggio, materialmente soddisfatte, ma schiave di illusori desideri imposti dall’alto. Miliardi di zombie posseduti da dogmi materialisti, ipnotizzati come grottesche marionette. Come faceva dire Pasolini a Gagarin ne il finale de “La Rabbia”, dall’alto di una contemplazione cosmica l’umanità apparirebbe come: “miliardi di miseri abbarbicati alla terra come disperati insetti” I pochi ricercatori della verità, i soli per cui questo mondo è ancora in vita, albatri baudelariani derisi dalla ciurma degli schiavi sociali, soffrono indicibilmente la leopardiana distanza siderale tra l’infinito intuito nel loro cuore e la crudele finitezza del reale. Benvenuti nel Kali-Yuga: l’era della confusione, dell’errore. Sembra proprio aver ragione il Dylan ultra pessimista degli ultimi anni: “Every moment of existence seems like some dirty trick/ Happiness can come suddenly and leave just as quick/ Any minute of the day the bubble could burst” (“Sugar Baby”), “The suffering is unending/. Every nook and cranny has its tear” (“Ain’t talkin’”) Il dolore quindi apparirebbe come l’unica forma di conoscenza, la religione un ridicolo trucco, la scienza una continua conferma della nostra precarietà, le ideologie delle trappole di massa. A livello razionale, è esattamente cosi. Innegabile. Ma è solo da trecento anni che l’uomo pensa che la mente abbia il primato tra le sua facoltà In una splendida frase (la cui bellezza rimane intatta nonostante sia divenuta uno slogan mocciano) Antoine de Saint Exupéry ammoniva: “non si vede bene che col cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi”. Lungi dall’essere una frase da Bacio Perugina, è sintesi poetica di una sapienza millenaria: il cuore è sede, per i mistici di tutte le tradizioni, dello Spirito. L’Oceano di Verità, Consapevolezza e Beatitudine. Con occhi aperti alla visione interiore la vita ci appare come un’avventura. Come diceva Chesterton: “La vita è la più bella delle avventure ma solo l'avventuriero lo scopre. “ Una Sinfonia di coincidenze rivelatrici, una mappa segreta di percorsi interiori, un codice divino di segnali e prodigi nascosto nell’apparente grigiore della quotidianità. E, una volta giunti alla visione, ci dissolviamo nella stupore infantile, al cospetto di quella che Testori cantò come “La maestà della vita”. Ma questo prodigio, lo splendore intimo dell’esistenza, solo si rivela a chi ha custodito il sacro stupore, in ridenti occhi bambini (l’innocenza è la forma più alta di saggezza) capaci ancora di meraviglia, non incrostati dal velo dell’abitudine Questo articolo non sarà dunque una recensione, ma la testimonianza di un’illuminante sincronicità.
Non c’è nulla di più nobile che l’accordo di due visioni contrapposte su un principio
universale.
Non c’è nulla di più rivelatore che l’incontro di due forme mentis affini applicate a
temi opposti, il riconoscimento di una verità raggiunta da percorsi apparentemente
paralleli e inconciliabili.
Per questo ci commuove l’episodio di Achille e Priamo: il superamento del muro
del proprio ego, inchinato di fronte ad una verità più grande. Una manifestazione
esemplare di una legge inconscia, una pausa nel massacro senza posa, un’epifania di
bellezza nella monotonia del male.
Una luce archetipica che si rinnova ritualmente, nella stretta di mano tra capitani
rivali prima di una partita, o negli omaggi reciproci tra capi di stato in conflitto.
Anche se l’abitudine svuota il rito di significato, la luce simbolica continua a
risplendere. Come dice Dylan in modalità Blake: “The fire's gone out but the light is
never dying” (“Ain’t talkin’”).
Conosco Massimo Palma da anni, pur non frequentandolo, e lo avevo sempre stimato
come brillante mente filosofica (potete verificare QUI), ma soprattutto come persona
dalla rara gentilezza d’animo (cosa per me ben più importante).
Quando ho saputo che aveva scritto un libro su Berlino, il mio cuore è stato teatro
d’un boato d’esultanza paragonabile solo a quella d’una curva sotto alla quale è stato
appena segnato un goal al 95° contro i rivali di sempre (ogni riferimento a persone e fatti è puramente voluto). Erano due giorni che senza alcun motivo ammorbavo
il prossimo, amici, parenti, anche passanti sull’autobus e vigili nei gabbiotti, con
un interrogativo che mi lasciava senza requie: “Bowie e Iggy Pop sono risorti a Berlino... il disco più bello degli U2 è stato inciso a Berlino...per non parlare di tutta
la Storia pregressa, le grandi anime, i filosofi, i poeti… Ma possibile che nessuno
ha scritto una guida, un libro su Berlino come città culturale, sullo spirito della città,
sull'atmosfera che ha ispirato capolavori in tutte le arti?!!!"
Una telefonata di un amico, una notizia en passant, un incontro casuale.
Chiariamo subito, chè il mondo è pieno di stolti e maliziosi: non scrivo che Massimo
è una mente elevata e un ottimo scrittore perché è mio amico. E’ il contrario: siccome
è una mente elevata e ha scritto un libro eccellente, io mi onoro di essere suo amico.
Anche perché…ma vogliamo parlare dei titoli che escono ora in libreria?
Negli ultimi 15 anni, di fronte allo spettacolo dei libri di Susanna Tamaro messi negli
scaffali di spiritualità, accanto a Simone Weil e Teresa d’Avila, mi sono ritrovato
più volte a sussurrare agonizzando come Mistah Kurtz: “l’orrore…l’orrore”.
E, per rimanere in tema, ogni volta che entro in una libreria e trovo all’entrata pile e pile
di libri di Fabio Volo, il Gran Nemico, con allucinato distacco chiudo gli occhi e
sogno l’odore del napalm di prima mattina (ben venga, se fosse l’odore della vittoria
dell’intelligenza sulla mediocrità).
Ma quando s’incontra un libro come “Berlino Zoo Station” ben altri automatismi
s’impongono: ci si leva il cappello come forma di rispetto, e poi lo si lancia in aria in
segno di tripudio.
Ora se, come diceva il già citato Chesterton, “la dignità dell'artista sta nel suo
dovere di tener vivo il senso di meraviglia nel mondo”, Massimo è uno scrittore
dignitosissimo.
Non è facile riconoscere il valore di un autore quando affronta temi che non
conosciamo, o che non ci hanno mai profondamente interessato. E’ difficile
apprezzarlo quando ci parla, con competenza ed entusiasmo, di cose che abbiamo
sempre osteggiato con ardore. Ma il cimento più arduo è accettare che qualcun altro
possa dire cose definitive su argomenti che si credeva di conoscere benissimo, e sui
quali ci si illudeva d’avere un punto di vista originalissimo e inedito; e più che mai
(con onesta ammirazione, tempra dei nobili, e mai con invidia, brodo esistenziale
dei mediocri) vedere come un altro possa esaurire brillantemente l’argomento , anzi,
aggiungendo pure ulteriori collegamenti ai quali non avevamo pensato.
(ad esempio sulla trilogia berlinese di Bowie qui magnificamente ritratta daTuono Pettinato per il nostro blog)
Il libro di Massimo, avrete intuito, vince con nonchalance tutte e tre le sfide.
Coerente con quanto affermato, mi sono comprato apposta un cappello per levarmelo
di fronte a lui qualora dovessi incontrarlo (di quelli che costano poco ovviamente,
ma comunque di valore simbolico inalterato). Confesso senza imbarazzo che il mio
sogno un giorno è arrivare a scrivere un libro di questo livello sulle cose che amo e
studio alla follia (editori in ascolto mi propongo: Dylan e la Kabbalah? Carmelo Bene
e la mistica orientale? Bowie e David Lynch? Tarkovskij e l’iconostasi? Cèline e Di Canio? Favorite, il menu è ampio!).
Ma, insomma, di cosa parla questo libro? “Berlino Zoo Station” è la più bella guida pensabile su una delle città più affascinanti
e ricche di cultura d’Europa. La metafora dello zoo è la grande linea guida, che lega
secoli di storia e una selva di personalità leggendarie e contrastanti , in una narrazione
frastagliatissima eppure coerente. Massimo è b r a v i s s i m o nel disegnare la mappa delle interconnessioni culturali,
esplorata nel dettaglio dei più riposti anfratti semantici, nella brulicante realtà
dei vicoli più oscuri, scoprendo sorprendenti possibilità di dialogo, vertiginosi
accostamenti, stimoli continui all’approfondimento.
Il libro a livello di piacere intellettuale è l’equivalente del sogno proibito di un
adolescente, come perfettamente esplicitato dalla vignetta di Maicol qui riprodotta
ma è anche una sorgente di emozioni purissime. La mediazione dialettica è la
versione mentale, rovesciata, dell’armonia taoista. Un punto cruciale: ci torneremo tra
poco, armati fino ai denti.
Come un cicerone angelico, Massimo ci mostra dall’alto il grande disegno d’insieme
(dominando la storia e la topografia berlinese come gli angeli rilkiani di Wenders
fanno contemplare la città dall’alto in una celebre scena), per poi calarci nella più
cupa delle catabasi, aggrappati alle ali della sua conoscenza, nell’inferno animale dei
tossici, e nel cieco odio delle camicie brune, per poi riportarci sani e salvi sulle vette
del pensiero, avendo attraversato la commedia divina e diabolica degli infiniti volti
della città.
Affrontiamo ora i due grandi protagonisti, gli eroi morali, i punti cardinali, gli Alfa
e Omega del testo: un celeberrimo gruppo rock irlandese, un celeberrimo filosofo
tedesco.
Ora, francamente non posso definirmi un fan degli U2.
Ho amato (ero praticamente bambino) l’ingenuità guascona di Bono che sventolava
la bandiera bianca e si arrampicava sulle transenne, nel surreale incanto della cornice di Red Rocks, in “Under a red blood sky” .
Ai tempi di “The Joshua Tree” (facevo ancora le elementari, anche se per poco)
mi rispecchiavo anima e cuore nei loro ideali impastati di cristianesimo popolare e
genuina rabbia sociale, cosi generici da diventare, tramite la semplificazione pop,
manifesti universali. Ho mandato a memoria in pochi giorni “Achtung Baby” (di
cui il libro in oggetto è il più grande monumento pensabile), e già stavo alle medie.
(“Acrobat” rimane ancora un inno disperato, l’urlo disilluso di chi non spera più di
trovare ciò che ancora non ha trovato). Soprattutto, grazie a loro, attraverso i loro
riferimenti onestamente dichiarati, ho avuto accesso al Sancta Sanctorum: Dylan, Bowie, I Beatles del “White Album”. E come in un antico apologo buddista, la barca
che ci fa attraversare il fiume per giungere all’ambita sponda, poi non ce la portiamo
appresso nel cammino. Dal confronto con i giganti del rock, pur mantenendo grande
affetto, immediati mi sono apparsi i loro evidentissimi difetti: la faciloneria di alcune
dichiarazioni, la boria di alcune pose (in seguito stemperate da una calcolata auto-
ironia), una gigioneria spesso fuori controllo.
Artisticamente tutto ciò è riassunto dai sospiri da attempato pornodivo in difficoltà
con cui Bono, soprattutto dal vivo, deturpa dei versi bellissimi, piegando la sua voce
potente a dei vezzi da pop idol (alcuni falsetti sono da fucilazione sommaria). Per
carità, lo ringrazierò per sempre per aver scritto l’inno internazionale dei ricercatori
(“I Still Haven’t Found What i’m Looking For”).
A malincuore, devo ammettere che dobbiamo a lui la resurrezione dell’Eroe: la pubblicazione di “Oh, Mercy”. Fu Bono a recarsi in omaggio al Dylan in crisi di fine anni’80 e a fargli tirare fuori, grazie alla devozione del fan e ad alcune casse di birra, gli appunti che il Maestro depresso
aveva abbandonato nei cassetti.
Tenendo conto di questo, dei suoi indubbi meriti pregressi, nella mia mente ho
commutato la certa pena di morte in 77 nerbate sulle terga, ma date con convinzione,
per l’incomprensibile deflorazione animalesca di “I’ve got you under my skin”.
Credo Sinatra sia morto alcuni anni dopo per il dolore e la vergogna.
Accostandoli ai maestri eterni, gli U2 comunque non sfigurano del tutto (non
come ad esempio quei patetici pagliacci degli Oasis). Hanno saputo distillare il
dettato dylaniano, negli appassionati paradossi, nei giochi di parole continui, nelle
antifrasi continue e ricercate (da “Where the streets have no name” a i brani più
alti di “Achtung Baby”, fino alla confezione manierista del brano pop perfetto in "Stay").
Se, come disse Ginsberg, Dylan ha portato la poesia
nei jukebox, gli U2 l’ hanno portato negli stadi. Hanno rei-incarnato in maniera
magniloquente il cortocircuito bowieano della rockstar suicida, dell’idolo da bruciare,
nella grandiosa cattedrale postmoderna del tour “Zooropa”, dal cui pulpito infernale
scaturiva il bombardamento di significanti, ossessivi, contraddittori, ripetuti fino allo
svuotamento d’ogni significato possibile. Una sceneggiatura furba ma molto efficace,
la messinscena diabolica dello smarrimento di senso collettivo.
Ma se per i loro fan il gruppo rappresenta certamente, l’update definitivo, la sintesi
suprema dei grandi del rock, confluiti in un linguaggio semplice ed universale, per
me il loro rock-pop, potente, gradevole è una diluizione popolare, un abbassamento
di livello (pur con dei picchi di grande valore) rispetto alle sperimentazioni
rivoluzionarie di 30 anni prima.
Eh, lo so, sono un irritante misoneista, un incontentabile sapientone. Ma ho ragione.
Detto ciò, non credo abbia senso ora discettare ulteriormente su un band che da
più di 25 anni è considerata “la più grande rock ‘n roll band del mondo”. Vi rinvio
alle riflessioni di Massimo, che sul gruppo irlandese è una riconosciuta e meritata
autorità. L’esegesi dei testi di “Achtung Baby” tocca profondità che gli U2, credo,
si sarebbero sognati d’aver ispirato. Bono Vox dovrebbe tenere questo libro sul
comodino, e mandare cesti stracolmi di leccornie e prelibatezze a Natale e a Pasqua a
casa dell’autore.
Ma ben altra pirotecnica prolusione ora v’attende. Vi consiglio di andare a prendere
un bicchiere d’acqua.
Come dice Mangoniin un indimenticato classico (3.11-3.14):
FINE DELLA PRIMA PARTE, INIZIO DELLA SECONDA PARTE.
Accanto agli U2 il vero, grande protagonista, l’ispiratore, l’eroe del libro è un idolo
pop che non vi aspettate: Georg Wilhelm Friedrich Heg…scusate, devo ricompormi.
Non credevo di dover mai scrivere questo nome sul mio blog. Vabbè, avete capito
si, quello di tesi-antitesi e sintesi, dello Spirito Assoluto, il summus philosophus
dell’Accademia Danese…
Diciamo che non è esattamente il mio filosofo prediletto.
(Chi volesse approfondire il mio punto di vista può estasiarsi qui 35.53)
Provo a sviluppare il concetto.
Potrei dire che l’affermazione “La filosofia è necessariamente sistema.” ha sempre
destato in me la medesima reazione che un altro celebre tedesco aveva alla parola
“cultura”: portare istintivamente la mano alla pistola. Ma è un esempio spesso usato,
non rende giustizia alla peculiare intensità del mio sentimento.
Ecco, potrei dire che una delle poche volte che sono in disaccordo col mio amato Schopenhauer è stato quando definisce Hegel “assassino della Verità”.
(in queste note a margine invece lo ritrae come un asino)
Stavolta, diletto Arturo, oppongo un vibrante dissenso: una definizione troppo generosa
per il filosofo tedesco (per uccidere qualcosa bisogna saperla identificare, quindi
conoscerla), e ingenerosa per la vasta e variegata categoria degli assassini (che tra le
loro fila possono vantare eterni simboli di coraggio e giustizia, da Arjuna, passando
per Giuditta, fino a Ken Shiro).
Ma sento di non aver esplicitato ancora bene il mio punto di vista.
Diciamo che avrei volentieri festeggiato il mio diciottesimo compleanno, come
credo molti di voi, nelle seguenti comunissime modalità: di fronte alla Porta di Branderburgo, in guisa di Eliogabalo, al cospetto di una folla oceanica di anti-
storicisti, protetto come Luke Skywalker alla fine di Episode VI, dai Lari benevoli
di Schopenhauer,Kierkegaard e Nietzsche, offrendo alla furia purificatrice del dio Fuoco le pagine della “Fenomenologia dello Spirito”. Ca va sans dir, il tutto
circondato da Baccanti discinte che in preda ad un furore estatico avessero urlato “ciò
che è reale NON è razionale”.
Si, mi rendo conto, è un’idea banale, tutti ci abbiamo pensato almeno una volta.
Per carità, poi, si sa, Hegel è un gigante della filosofia, un mastodonte del pensiero,
colui che dopo Platone e accanto a Kant ha elevato la riflessione ad altezze…ma
basta col politicamente corretto, lo odio!!!!
Eppure, vi giuro con la mano, non dico sulla “Bhagavad Gita” (mai giurare su ciò
che è veramente sacro), ma su ciò che più mi è umanamente caro (il vinile di “Freak Out!” o la maglia di Mihajlovic del 2000, scegliete voi)….ho provato seriamente un
paio d’anni fa a leggerlo.
Mi sono detto: “Adriano, non essere sciocco, non fare il bambino, hai letto milioni di
libri, non puoi non leggere un filosofo così importante…se tante persone intelligenti
lo amano avrà una sua grandezza, no?!”
E vi prometto in ginocchio, o Corte Suprema dei miei lettori, un paio d’anni fa mi ci
sono messo, onestamente, ho voluto fare tabula rasa dei miei pregiudizi, ho svuotato
la coppa del mio ego…e con animo sereno e mente aperte ho dischiuso le pagine
sulla dialettica servo-padrone.
Un grande classico del pensiero, una delle vette della filosofia moderna. Certo.
Una volta raggiunto il quarto paragrafo… non ricordo più nulla…solo di essermi
svegliato, dopo, altrove, su un lettino, con un forte senso di oppressione, le braccia
forzatamente incrociate, e di aver distinto tra la nebbia dei narcolettici solo un foglio
con alcuni numeri: il conto dei danni per la biblioteca messa a fuoco.
Eppure, eppure, eppure, cari fratelli della Loggia“Estrema Irratio”, tale è la passione,
l’intelligenza, la profondità con cui Massimo ci parla di Hegel che me lo ha fatto
diventare perfino simpa…vabbè, non esageriamo…interessante!
E’ un esercizio di straordinaria apertura mentale (più che mai pertinente considerando
il titolo di questo blog) vedere colui che abbiamo sempre visto come l’incarnazione
del tronfio atteggiamento occidentale di forzatura razionale del reale, come
l’emblema della sapienza accademica sterile , della nozione mentale contrapposta
alla vera sapienza, dell’inganno menzognero della nostra mente eretto a sistema
opprimente…ebbene, lo dico: vederlo sotto tutta altra luce. Hegel nelle pagine di Massimo, non solo è una rockstar (e fin qui, visto il successo
ottenuto in vita che faceva imbestialire Schopenhauer, ci poteva stare…come lo
stesso autore ricorda Bowie disse la stessa cosa, e per molti versi purtroppo a ragione,
di Hitler!), ma è proprio l’opposto di come lo abbiamo sempre percepito: uno
studente goliarda e disperato, un filosofo anticonvenzionale, stufo dei triti luoghi
comuni, mosso dal desiderio di rendere la filosofia qualcosa di reale, vivo, concreto,
posseduto e ossessionato dal purissimo desiderio di trovare la verità e diffonderla, di
liberare l’umanità dall’inganno e dall’ignoranza.
Un animo equilibrato tra l’intuizione poetica del suo amico Holderlin (che per noi
nell’ approdo pre-nietzscheano alla follìa si avvicinò molto di più dell’amico filosofo
al vero; diremmo di lui come egli stesso scrisse in uno dei suoi ultimi appunti di Edipo, “accecato, ha forse un occhio in più”, aperto alla visione interiore) e gli slanci
trascendentali dell’altro amico Schelling (che, stiamo schematizzando, non poteva
accettare la sua pretesa di spiegare e razionalizzare tutto).
Una mente aperta e vivacissima, dal respiro geniale, in grado di capovolgere l’onda
del conformismo culturale con la forza della sua indipendenza intellettuale.
Uno di noi, insomma. Un ricercatore che ce l’ha fatta. Un’intelligenza straordinaria
che ha speso la sua intera esistenza per dare senso alla vita di tutti. Più alto di Kant,
più risolutore di Marx, più felice di Nietzsche, più definitivo di Spinoza.
Nel libro Massimo ripete, più che come un mantra come un leit-motiv (è proprio lui
a dire che il filosofo puntava a realizzare “l’opera d’arte totale” della filosofia), che Hegel aveva capito tutto. Da sempre io dico che è vero, con una piccola correzione:
ha capito tutto (le sue intuizioni sul ritmo ternario dell’esistenza e sul manifestarsi
progressivo dello Spirito sono luminosamente vicine alle verità della rivelazione
mistica orientale), ma al contrario (pretendo di aggredire il reale attraverso i limiti
della razionalità, di trovare la sintesi nella dialettica, e non cercando il ritorno
all’Uno attraverso la via interiore, dantesca, gnostica dei mistici e degli artisti)!
Per me l’idealismo hegeliano è un Advaita Vedanta scomposto e ricomposto
artificiosamente, una risalita al di fuori dell’inferno del dubbio, in cui però il
filosofi che escono “a riveder le stelle” non si rendono conto che stanno ammirando
un fondale di cartapesta. Parafrasando il sublime Rumi, noi non siamo gocce
nell’oceano, ma “l’oceano in una goccia”. Il dissolvimento nell’unità primordiale
avviene al superamento di ogni dialettica, nell’estinzione dell’illusorietà, dunque
anche dell’attività mentale, nel superamento del superamento stesso della
sintesi….vabbè, Massimo poi ne parliamo davanti a un caffè…
Comunque, sei riuscito a farmi parlare di Hegel senza conati e tafferugli, manda il
curriculum all’Onu: puoi risolvere il conflitto in Palestina.
Ma nel libro, non si parla solo degli U2 e di Hegel. Massimo riesce a parlare, in maniera puntuale, esauriente ed originale, di tutte le
figure che hanno attraversato Berlino negli ultimi due secoli.
Aspettate. Rileggete questa frase che ho scritto. Pensateci un attimo. Realizzate
quanto è difficile.
Ora possiamo andare avanti.
Potrei scrivere un altro libro come guida-commento al testo (come per l'"Ulisse" di Joyce) per la mole di spunti, stimoli e collegamenti che m’ispira. Ogni riga è un
precipitato di riflessione, che s’intuisce su certi temi almeno ventennale, impreziosita
da un accostamento inedito, da un gioco di parole rivelatore, da uno squarcio di
pensiero illuminante. Non c’è una considerazione superflua, non c’è un’apparizione
che non ritorni, in un intreccio complesso e raffinato come quello di una cravatta da
dandy, nel compimento del suo ruolo all’interno della babelica mappa berlinese.
La qualità forse più notevole del libro è che in questo immenso gioco di
riferimenti, citazioni, salti continui di tempo e di spazio, di tono e argomento, tutto,
narrativamente si tiene. Come complessità e felicità di riuscita stiamo ai livelli della
sceneggiatura di “Lost”, almeno fino alla quinta serie (poi un giorno scatenerò il
putiferio parlando del finale, che a me tutto sommato è piaciuto, massa di miscredenti
che non siete altro!). Come uno sfrontatissimo acrobata Massimo cento volte rischia
l’accostamento eccessivo, la battuta fuori luogo, il paragone sacrilego, ma con
l’eleganza di Nureyev sfugge, con precisi riferimenti e ferree argomentazioni, ai
tentacoli voraci e ovunque presenti del banale.
Non resisto, devo fare una rapida carrellata delle personalità principali(a parte
quelle già lungamente introdotte) che vengono presentate nel libro, tanto per darvi
una vaga idea della ricchezza del testo (prendetelo come il trailer sbrigativo di un
film da vedere e rivedere): stupenda è l’apparizione di Rilke, i cui angeli tremendi
sono l’altissimo modello letterario di quelli divenuti ormai icona cinematografica
grazie a Wim Wenders; Lou Reed e i Velvet Underground sono comparse oscure e sfuggenti,
ma rese in una luce indimenticabile, proprio come lo sono stati nella storia del
Rock; definitive per me le pagine sul rapporto tra Bowie e Berlino, un argomento
per me così interessante da tornarci nella breve vita di questo blog già tre volte;
profondissime e di dolente sapienza sono le riflessioni su Christiane F., la cui
vicenda è giustamente studiata ed approfondita nel suo violento impatto di simbolo
generazionale, con grande sensibilità umana; Walter Benjamin (su cui Massimo ha
scritto cose pregevoli, ad esempio QUI) ha il posto che gli spetta, tra le grandissime, profetiche
intelligenze del secolo scorso; Christopher Isherwood vede finalmente riconosciuto il
valore più profondo del suo “Cabaret”, e il suo ruolo di svolta cruciale nella carriera
del Duca Bianco; Carl Schmitt si guadagna la fama di “uomo più cattivo del mondo”;
vengono svelati i trucchi, vecchissimi, delle tesi-shock di Fukuyama sulla fine della
Storia; si omaggia in tempi non sospetti l’inquieto fantasma di Delmore Schwartz;
persino Patti Smith è omaggiata di un meritato cameo nel finale, dominato però
da un crescendo commovente che non vi svelo….in tutto questo si esplorano non
solo metodicamente tutti i quartieri e le strade principali di Berlino (che Massimo
credo conosca molto meglio di quanto, che ne so, un nome a caso? Alemanno, per
esempio, conosca Roma), ma anche gli impulsi sotterranei che hanno mosso con
violenza e fragore la storia europea degli ultimi duecento anni.
Una parola sullo stile: chi mi legge sa bene, con dolorosa pazienza, quanto il
sottoscritto ami i voli pindarici, l’ellissi barocche, i collegamenti volanti, gli ossimori
improvvisi.
E’ molto interessante notare come Massimo non giochi con gli sbalzi di tono, non
contrapponga sacro e profano, ma al contrario li assuma subito come pari, li assorba
in uno stile equilibrato, in cui la contrapposizione è già mediata, dialetticamente
sciolta, hegelianamente risolta.
Il rigore accademico con cui si accosta alle pagine più complesse dell’idealismo
tedesco è il medesimo con cui decripta le influenze dei Joy Division sui gruppi
successivi, mescolandole con spregiudicata disinvoltura, ed eguale serietà. Passaggi
come “la variante hegeliana di Achtung Baby, la Fenomenologia dello spirito”
sono da T.S.O., ma solo per organizzare una festa a sorpresa con bacio accademico
sull’ambulanza.
E quindi, come ultimo, supremo omaggio non posso che proclamare il mio
“sì”dionisiaco, e nell’accettazione totale accettare anche l’Aufhebung (concetto
hegeliano traducibile con “sublimazione”, superamento della contraddizione, una
tensione dialettica, ad esempio riscontabile nel rapporto servo-padrone, in cui
si “superano conservando” i due termini della contrapposizione nel divenire del
progresso dialettico). E, quindi, spezzando le manette anche della mia di mente, tale
è la mia ammirazione per questo testo che arrivo a l’impensabile. Chioserò il mio
omaggio dedicando a Massimo le parole, perfette in questo caso, del mio antico
nemico Hegel: ”Il sì della conciliazione, in cui i due Io dismettono la loro
opposta esistenza, è l’esistenza dell’Io esteso fino al due, l’Io che resta qui uguale a
sé e che nella sua completa alienazione e nel suo contrario ha la certezza di se stesso;
– è il dio che appare in mezzo a loro”.
Per dirla con un verso di un autore a me molto più caro (i poeti, si sa, intuiscono e
sintetizzano ciò che i filosofi rendono complicato): “we always did feel the same/ we
just saw it from a different point of view” (Bob Dylan, “Tangled up in blue”).
La più lieta agnizione avviene però alla chiusura del volume.
L’intuizione sopravviene come una battuta geniale capita in ritardo, e ancora più
deflagrante nella sua detonazione comica.
In realtà, il complesso intarsio di connessioni interculturali, la grandiosa visione
d’insieme che l’autore ha disegnato come un raffinato esercizio enigmistico, era già
li, presente, viva, offerta a tutti nel suo miracoloso splendore. Un mosaico già pronto.
Bastava solo osservare. Massimo ne ha solo scoperto l’evidenza, e sollevato il velo con la curiosa semplicità
di un bambino che gioca, ricalcando i contorni della mappa, e consegnandocela come
un dono, fatto in primo luogo a se stesso, un premio meritatissimo alla fine di una
ricerca entusiasmante.
Ma questo prodigio, lo splendore intimo dell’esistenza, solo si rivela a chi ha custodito il sacro stupore, in ridenti occhi bambini (l’innocenza è la forma più alta di saggezza) capaci ancora di meraviglia, non incrostati dal velo dell’abitudine.
Ancora una volta il Duca Bianco è tornato, “lanciando dardi negli occhi degli innamorati...” Molto si è speculato, legittimamente, sulla copertina di "The Next Day", ove un quadrato bianco col titolo del disco oscura il volto di Bowie, al massimo dello splendore iconico, sulla copertina di "Heroes". Il disco-simbolo, forse il vertice, della gloria artistica passata del Nostro.
Numerosi commentatori hanno interpretato questa scelta, supportati anche dalle dichiarazioni di Tony Visconti a riguardo, non come una mera provocazione, ma come un annuncio di svolta, un invito rivolto in primo luogo alla platea globale di devoti: affrancarsi dalla nostalgia mitizzante, obliterando il volto sacralizzato dell'idolo, proiettandosi verso l'ignoto oceano delle possibilità future."Au fond de l'inconnu pour trouver du nouveau"? D'accordo, ma se di "Invito al Viaggio" si tratta, è un'odissea interiore, quella alla quale siamo sospinti.Infatti, come è stato notato, il disco in realtà trabocca di riferimenti, nemmen tanto celati, alla indimenticabile produzione precedente. Non solo all'epocale trilogia berlinese, come esplicitamente suggerito, ma anche agli esperimenti jungle degli anni '90, al parzialmente abiurato exploit da "king of pop" di inizio anni'80, passando per le suggestioni sonore di "Scary Monsters". Ancor di più, a mio modesto avviso, il Duca ha seminato tracce che ci riconducono addirittura ai lati oscuri di "Hunky Dory", e alla malata bellezza di "The Man who sold the World". Briciole di citazioni, più o meno immediatamente riconoscibili, che consentono, se raccolte , all'ascoltatore smarrito di ritornare a casa, "bringing it all back home", togliendo i capolavori dai mortiferi Musei del Rock, e restituendoli alla vita, trasformati in nuova creazione. Così per il finale di "Five Years", evidentemente ripreso da "You Feel so Lonely You Could Die", oppure per la schitarrata ritmica di "Fame" e il riff furbetto di "China Girl" ben nascosti in "Dirty Boys", e molti altri, più sottili, riferimenti, che di volta in volta richiameremo nella trattazione. Un gioco cosi raffinato e genialmente auto-ironico da applicarsi in corso d'opera all'opera stessa: le prime note di "Valentine's Day" ricalcano immediatamente il commovente refrain dell'appena terminata "Where are we now?", quasi a già consegnare il nuovo singolo ad una certa consacrazione da classico ulteriore. Dunque, nessun impossibile colpo di spugna estetico, al contrario un complesso e introspettivo laboratorio di rigenerazione creativa. Una resurrezione artistica che porta in dote le accecanti memorie antecedenti alla morte apparente.Bowie aveva perfino convocato Robert Fripp, la chitarra siderale del brano-manifesto title-track dell'album evocato/rimosso fin dalla copertina. Il leader storico dei King Crimson non solo ha declinato l'invito, è stato anche l'unico a rivelare la segretissima notizia del nuovo progetto del Duca. Ma, tale è il potere del misterioso magnetismo bowieano, nessuno gli ha creduto. Ho già mostrato QUI, commentando la meravigliosa sorpresa di Gennaio, l'inattesa uscita del singolo, come Bowie da più di 30 anni sia costretto a giocare pazientemente a scacchi con la sua leggenda. Con la stessa sapienza, e più pirotecnica impertinenza, di Dylan. Nel già citato articolo avevo accostato i due mostri sacri (s'intenda la definizione in senso etimologico, di segno divino prodigioso che ammonisce e rivela, meraviglia e atterrisce), nella quasi necessaria affinità di de-costruire e lottare contro il Doppio demonico del proprio mito. L'ascolto approfondito del disco ha confermato la non ingannevole intuizione. "The Next Day" è pervaso dallo stesso soffio qohèletico che ispira gli ultimi, foschi capolavori del genio dylaniano: si pensi alla quasi diretta citazione dall'Ecclesiaste in "Love is Lost" ("You know so much, it's making you cry"), o ai versi quasi villoniani di "I'd Rather Be High" ("I stumble to the graveyard and I/ Lay down by my parents, whisper/ Just remember duckies/ Everybody gets got"). Del resto, il Padre di tutti i Cantautori Moderni "with a voice like sand and glue" è citato più o meno direttamente almeno in un paio di occorrenze: come stella più luminosa del firmamento del Greenwich Village inizio anni'60 in "(You Will) Set the World on Fire", e nella gemma finale "Heat", proprio nel gioco tra "Love" e "Theft" (non a caso più critici hanno paragonato questo sontuoso ritorno di Bowie proprio al precedente dylaniano del 2001). La vena scaturisce potente fin dal primo brano, la title-track: Bowie si presenta come un Caligola medievale, alla fine del suo regno di decadenza, linciato dal popolo inferocito. Ma, con rasputiniana insolenza, sentenzia nel ritornello "Here i am/ not quite dying", miglior modo possibile per ripresentarsi al cospetto del mondo (e anche qui non possono non venir mente i versi relativamente recenti del Dylan di "Spirit on the water": "You think, I'm over the hill/ Think, I'm past my prime/ Let me see what you got/ We can have a whoppin' good time"). All'inizio del secondo brano, "Dirty Boys", corredato dalle già segnalate auto-citazioni, sembra di ascoltare un crooner dai toni morrisoniani improvvisare su un motivo del Tom Waits di “Swordfishtrombones". Molti hanno qui colto un omaggio al magnifico "The Idiot", prodotto e creato assieme all'amico/fratello/amante Iggy Pop nei leggendari Hansa Studios di Berlino, durante l'irripetibile stagione creativa di fine anni '70. Personalmente, invece vi ho letto un altro riferimento, forse inconscio, ma obbligatorio quando si parla di Bowie e Berlino. La strofa "I will buy a feather hat/ I will steal a cricket bat/ Smash some windows, make a noise/ We will run with Dirty Boys" mi ha fatto immediatamente venire in mente una celebre scena. Quella di "Christiane F.-Noi i ragazzi dello Zoo di Berlino" in cui, sulle note di "Heroes", i ragazzi all'inizio del film si abbandonano, con paradossale innocenza, all'ebbrezza liberatrice del vandalismo.
Un momento entusiasmante alla prima visione, ma straziante se rivisto in seguito: i gioiosi teppisti che nell'euforia della fuga scivolano, inciampando l'uno sull'altro, non sono consapevoli di vivere una sardonica premonizione, la più precisa metafora del loro destino. Saranno loro stessi, all'inizio quasi impercettibilmente, poi via via con ineluttabile accelerazione, a trascinarsi l'un l'altro come reciproche sabbie mobili nell'inferno dell'abiezione. Uno strazio reso ancora più dolente dal controcanto ironicamente eroico del celebre brano di Bowie: il canto fiero e disperato d’una impossibile rivolta romantica, è colonna sonora della perdita dell’innocenza d’una intera generazione.
Il terzo brano, “The Stars (Are Out Tonight)” è il secondo singolo, lanciato dal videoclip di Floriana Sigismondi, a cui certo un artista iper-consapevole come Bowie ha affidato una delle possibili chiavi di lettura del suo ritorno. Nel brano, possente e accattivante, il mondo fatato del jet-set, delle star, non desta più le proiezioni dello stupore infantile, come in “Life on Mars?”, o la trasfigurazione nel fascino del proibito, come in “Starman”. La leggenda vivente che ha passato tutta la vita sotto i riflettori dipinge l’ambito status con minacciosa inquietudine (“They burn you with their radiant smiles/ Trap you with their beautiful eyes”). Già 14 anni fa, nel video di ”Thursday’s Child” il gioco metaforico del Doppio era stato affrontato, ma in maniera abbastanza lineare. Il Bowie maturo, stanco, alla fine del giorno prima delle abluzioni notturne, in un sussulto d’introspezione intravedeva dall’altra parte dello specchio se stesso giovane, ardente di oscura bellezza, rivivendo in un attimo straniante l’impossibile emozione del passato, per poi tornare bruscamente alla “normalità” delle abitudini quotidiane (significativi i versi: “Something about me stood apart/ A whisper of hope that seemed to fail”, sussurati nei momenti precedenti alla visione).
Lo stesso gioco ora si moltiplica e rifrange in una raffinata complessità di livelli di interpretazione. Un gioco condotto con spiazzante auto-ironia, fino a un illuminante capovolgimento dei ruoli. Bowie, l’icona oltraggiosa e conturbante del diverso, dell’alieno, del trasgressivo, si presenta nei panni di un innocuo borghese, appagato dalla sua fin troppo serena vita di coppia accanto alla moglie, interpretata da Tilda Swinton. E qui c’è la prima apparizione del Doppio, complice l’impressionante somiglianza fra i due protagonisti. I due appaiono per la prima volta officiando il rituale materialista della quotidianità borghese: facendo la spesa insieme in un supermercato. Una scena che sembra il finale di “Eyes Wide Shut” al contrario: se nel controverso testamento di Kubrick la coppia trovava nell’eros una liberazione e una riconquista della propria identità (per chi scrive, un abbaglio freudiano), qui assistiamo alla resa totale ai condizionamenti della società. Bowie scambia un paio di battute qualunquiste col commesso, il quale, gli addita con sdegno una coppia di star sregolate sulla copertina di una rivista di gossip (in cui si vede il cantante stesso come l’alieno Thomas Jerome Newton ne "L'Uomo che cadde sulla Terra"). Bowie sembrerebbe provare simpatia e fascino per la vitalità delle “twisted antics” (le “contorte buffonate”), ma viene subito ripreso dalla moglie che lo riporta al comandamento della normalità sociale: “We have a nice life”, frase che egli ripete meccanicamente con malcelata rassegnazione. Il matrimonio, nella sua versione falsa e convenzionale, invece di essere il congiungimento delle energie archetipiche, è l'istituzionalizzazione della schizofrenia: l’Androgino si è diviso, l’unità primordiale smarrita. Ma al termine della scena, vediamo i due spiati e inseguiti dalle star della copertina: due presenze conturbanti, demoni dell’apparenza. In “Mulholland Drive” le presenze demoniache, che inducevano nel finale da incubo la protagonista al suicidio, erano i fantasmi lillipuziani degli anziani sorridenti, che all’inizio del film la accoglievano benevoli nell’inganno dorato dell’American Dream, arconti del crudele regno dell’apparenza. Non possiamo a questo punto non ricordare come lo stesso Lynch abbia scelto proprio Bowie come protagonista di una enigmatica scena chiave di “Fuoco cammina con me”, fondata sempre sullo sdoppiamento e sulla perdita dell’identità. Qui i demoni hanno le fattezze patinate di due fotomodelle, anch’esse androgine, dalla nervosa sensualità, fantasmi di algida bellezza (per Leopardi la moda è “sorella della morte”). Una di esse è il palese alter-ego femminile (lo yin? l’es? il dionisiaco? l’ombra junghiana?) di Bowie, la cui inquietante bellezza, nel prologo del video, viene spiata dalla moglie, con sospetto e ripulsa, nascondendosi dietro le tende di casa. Tornati a casa, Bowie e la Swinton stanno celebrando l’altro grande rito della “nice life”,intrattenendosi amabilmente davanti alla tv, quando vengono disturbati dal chiasso dei vicini. Il buon marito borghese si alza per lamentarsi, per pretendere il rispetto delle regole convenute, ma presto intuisce, ri-conosce che dall’altra parte si trova la propria controparte femminile. Il proprio alter-ego, nella totale scissione interiore della vita moderna, non è più un’ombra in cui specchiarsi, bensì un chiassoso dirimpettaio da mettere a tacere. I due volti ci vengono mostrati simmetricamente in ascolto l’uno dell’altro, ma separati irrimediabilmente da un muro (un’ennesima allusione a Berlino?). Tale è l’incomunicabilità col proprio sé interiore, che non desta più nostalgia o desiderio, ma solo disturbo e inquietudine. Lo specchio è divenuto muro. Sarà la moglie, custode dei vuoti rituali sociali, a cedere all’influenza tentatrice, come una grottesca marionetta posseduta dagli spasmi dell'eros e dai capricci della vanita'. In uno speculare cortocircuito, sarà invece Bowie a rifuggire spaventato dai fantasmi della trasgressione e del successo, che lui stesso ha per tutta la vita incarnato a livello di coscienza collettiva. Un gioco di sdoppiamenti raddoppiati che si concluderà con la definitiva inversione dei ruoli tra le due coppie (le presenze tentatrici diverranno i due sul divano davanti alla tv, e, mutatis mutandi, viceversa). Lontano dalle velleità del suo amico Mick Jagger, che a 70 anni ancora gioca a fare il sex-symbol, Bowie si conferma artista supremamente intelligente, in grado di anticipare e neutralizzare, con le armi intatte della sensibilità e dell’ironia, qualsiasi possibile luogo comune.
Il disco prosegue con “Love is Lost”, brano di grande tensione poetico-musicale, in cui il tema abusatissimo del disagio giovanile assurge a puro paradigma della dolente condizione umana, in violento contrasto con la fatuità delle esteriorità sociali (“Your country's new, your friends are new/ Your house, and even your eyes are new/ Your maid is new, and your accent, too/ But your fear is as old as the world”). Su “Where are we now?”, sulla sua importanza e sulla pura commozione che m’ispira, già mi sono diffusamente espresso QUI.“Valentine’s Day” ha secondo me un illustre precedente in “Running Gun Blues”. Ma se nel disturbante brano di “The Man who Sold the World” i pensieri del serial-killer venivano narrati attraverso la parodia delle canzoni di protesta, qui, con antifrasi più sottile ma non meno interessante, vengono affidati all’apparente gradevolezza di un rassicurante brano pop. “If You Can See Me” è chiaramente, in questa grande rivisitazione della propria carriera, il brano che si rifà al periodo sperimentale, per il sottoscritto discutibile, di “Earthling”. In “I’d Rather Be High” si coglie invece l’eco di “All the Madmen”, altro diamante nero di “The Man who Sold the World”. Basti confrontare il ritornello del primo ("I'd rather be dead/ Or out of my head/ Than training these guns on the men in the sand") con gli antichi versi ("...I'd rather stay here/ With all the madmen/ Than perish with the sadmen roaming free"). Ma anche qui Bowie inverte il suo ruolo storico: da vittima predestinata in quanto diverso, a nolente e disgustato carnefice.I due volti, apparentemente contrapposti, della schiavitù contemporanea. Gli altri brani continuano lo svolgimento del discorso principale, riecheggiando ambiguamente sonorità e tematiche che hanno puntellato tutte le rinascite della vita artistica bowieana. Vorremmo soffermarci però sugli ultimi due brani, per noi i più importanti accanto al primo singolo, in cui il Duca ha nascosto magistralmente i suoi tesori.
In "You Feel So Lonely You Could Die", Bowie continua il magnifico prodigio alchemico sulla canzone pop innervando una ballata dal titolo rubato a Elvis con dolente poesia esistenziale. Aleggiano ancora i fantasmi dello Zoo di Berlino (presto dedichero' le mie riflessioni a un eccellente libro sul tema), in versi che potrebbero benissimo essere dedicati a Christiane F.: "You’ve got the dangerous part./ You stole their trust, their moon, their sun./ There'll come an assassin's needle/ On a crowded train./ I bet you´ll feel so lonely you could die./ Buildings crammed with people./ Landscape filled with wrath./ Grey concrete city./ Rain has wet the street./ I want to see you clearly/ Before you close the door./ A room of blood history./ you made sure of that./ I can see you as a corpse/ Hanging from a beam./I can read you like a book./ I can feel you falling./I here you moaning in your room.". Ma il vero capolavoro del disco, forse, almeno il brano più significativo, degno di essere posto accanto alle ballate classiche, è proprio l'ultimo brano, l'abissale "Heat". Era, forse, da i tempi di “I Can’t Read”, che Bowie non scriveva un brano così profondo e autentico. Il Duca chiude il cerchio della sua bruciante parabola, riscrivendo una nuova "Space Oddity", brano evidentemente citato negli arrangiamenti. Ma stavolta, come accennato, l'odissea è nel proprio spirito. Dopo la vana esplorazione del cosmo esteriore, sfociata nella decadenza morale dei "sordidi dettagli" in "Ashes to Ashes" (con dinamica uguale e contraria l'alieno Bowie-Jerome finira' alcoolizzato sulla Terra), Major Tom al fine del suo peregrinare si smarrisce nel piu' vasto degli universi: l'impero della propria interiorita' (l'autentico "Inland Empire"). Ma piu' che Lynch, ancora una volta sovviene Kubrick (amato e citato ogni sera in apertura dei concerti dell'era Ziggy), nel maestoso finale di "2001-Odissea nello Spazio" (proprio il film che ispiro' il celebre brano d'esordio).
Al termine del viaggio psichedelico al di la' tempo e dello spazio, sorta di ultra-moderno "folle volo" dantesco, passata l'effetto illusorio della folle ubriacatura tecnologica l'Uomo si ritrova, inerme e agonizzante, nudo nella sua miseria ontologica al cospetto del nero Monolite, significante assoluto del Mistero. Il ritornello rivelatore (“and i tell myself/ i don’t know who i am”) ricorda quello famoso di “Quicksand” (“I ain’t got the power anymore”). Una reminiscenza non casuale, il grande manifesto negativo (quello di “Don’t believe in yourself”), in cui, all’epitome della falsa conoscenza, Bowie riusciva ad omaggiare in una strofa due figure diversamente demoniache (Himmler e Crowley). Lontano dal compiacimento originario di “Changes” (“So I turned myself to face me/ But I've never caught a glimpse/ Of how the others must see the faker/ I'm much too fast to take that test”), Bowie getta la…o meglio le, infinite, maschere: ”I am seer/ and i am a liar”. Identificando il proprio potere psichico, la propria visione, con la menzogna, egli confessa il suo tragico fallimento, il mancato raggiungimento dell’obiettivo di ogni ricerca spirituale: gnosi seauton, conosci te stesso.
La ricerca dell’identità interiore, differita negli innumerevoli travestimenti, parodiata nelle maschere cangianti, camuffata nel gioco schizofrenico degli alter-ego, si è alfine smarrita, nel più colossale, e disperante, dei divertissement. Il momento magico (“one magical moment from Kether to Malkuth”) evocato in “Station to Station” (la prima apparizione del Duca Bianco!) si è rivelato un trucco effimero e beffardo, lasciando solo le pornografiche macchie bianche dell’inganno crowleyano a contaminare l’anima (chi volesse conoscere il vero volto del satanico pagliaccio si affidasse al ritratto donatoci da W.S. Maugham ne “Il Mago”). Accanto a tale pericolosa guida, il percorso cabalistico, evocato nel verso citato, da Kether a Malkuth, invece di condurre alla manifestazione della Shekinah (la Divina Presenza di Dio, Suo aspetto femminile per alcuni filoni della Qabbalah), ha costretto Bowie a materializzare i suoi stessi incubi. Invece di portare (come nell’originario intento mistico) l’invisibile luce dello Spirito nella creazione, il tragitto è stato una rovinosa discesa dall’illuminazione alla morsa infernale dei sensi e delle dipendenze. La Sposa non è apparsa, e le Stazioni della Croce hanno condotto a un calvario senza Resurrezione. Il brano si chiude sul rintocco kafkiano di “My father ran the prison/ My father ran the prison”.
Ora, chi scrive considera Freud un dannosissimo cialtrone, e la psicanalisi (prima di Jung) una delle maledizioni del Kali-Yuga. Ma stiamo parlando di Bowie. Un artista che ha fondato la sua Weltanschauung sull’unheimlich (per chi non ama il tedesco: ha fondato la sua visione del mondo su ciò che è perturbante, spaesante, sinistro, su ciò che non è ci è familiare e che non ci mette a nostro agio). Non credo, dunque, sia una forzatura peregrina leggere in questi versi un richiamo a quello che, psicanaliticamente, è quasi luogo comune: accostare, a livello inconscio, la figura del Padre a quella di Dio. L’intera creazione, ci rivelerebbe inconsciamente Bowie, si configura come una prigione universale, una gabbia per l’Angelo Ribelle, un esilio crudele per l’alieno luciferino, reso cieco ad ogni visione superiore (come ne "L'Uomo che cadde sulla Terra"), inchiodato alla eterna punizione della sua hybris. E per un ricercatore della Verità la più tremenda Nemesi è non poter più conoscere se stessi.
P.S. Come anche il precedente, questo articolo è impreziosito da un ritratto (per me tra i più belli e significativi mai realizzati sul tema) dell'artista in questione realizzato dal genio fraterno di di LRNZ (Lorenzo Ceccotti). E, anche in questo caso, Lorenzo ci "illustra" la sua illustrazione, donandoci una riflessione quanto mai pertinente, che sottoscrivo parola per parola:
"Oggi parliamo di questo disegnino su David Bowie. (DEVID BOIV, per gli intenditori fumettari, quello che un occhio è...) L'ho fatto di gusto. Mi ha sempre annoiato tutto questo sfaccendare per ingraziarsi il diavolo. Stare dalla parte dei cattivi è una roba pallosa, ed è molto più facile, visto che sono SEMPRE tutti d'accordo che è figo essere tasgressivi col diavolo, pochissimi ad esserlo con il bene, con ciò che è equilibrato, con quello che è bello e difficile: costruire. Non è un caso che mi piacciano da impazzire Moebius nel disegno, o gli Autechre nella musica: devono molto a questo percorso di ricerca solitaria, ascetica in una continua trasgressione nel perfetto. Capirete quindi che oltre a annoiarmi mi colpisce molto la condizione infantile e frustrata in cui vive buona parte del mondo dei musicisti rock: venerare il male per essere venerati da chi non ce la fa neanche a trasgredire in prima persona. Mi ha colpito anche di più questa situazione paradossale in cui si è trovato uno dei padri del Rock, Jimmy Page. Jimmy Page era amico di Bowie, ed era un fervente seguace di Aleister Crowley, come tutti i protometallari. Ora Bowie nel suo progetto musicale si è ritrovato a dover far fronte ad un successo che molto deve a fattori insondabili endemici del suo corpo: gli occhi così incredibili, il suo aspetto androgino, la perfezione nel portamento di una diva, una voce decisamente maschile avvolgente e purissima, Bowie incarnava in un momento di rivoluzione culturale totale, tutto quello che c'era di trasgressivo, con la promiscuità sessuale (inteso nel senso di una sempre più modernamente labile distinzione fra uomo e donna) in cima alla lista, condita con la contaminazione fisica delle droghe. Rappresentava la decadenza, la celebrazione dell'appassire di una bellezza effimera. Un sabotaggio all'idea popolare di cosa dovesse essere un uomo modello, della forza, di una star. Rappresentava lo svanire inafferrabile di una perfezione sovrumana, irraggiungibile con la volontà. Era un capolavoro corrotto, dalla nascita. Ecco quindi che se proprio devo trovare un fascino autentico nel "male", inteso come lato oscuro dell'esistenza e non come una banale voglia adolescenziale di sfasciare tutto, la trovo in Bowie, visto che Bowie E' Lucifero: è la cosa che gli si è avvicinata di più nella storia della musica (e al Ryo di Devilman, si). E ha rappresentato con la sua musica, principescamente semplice e nostalgica, proprio questo aspetto scurissimo della perdita della incorruttibilità angelica, in una caduta libera dalla candida rosa inziata 40 anni fa e che ancora non ha fine, testimoni noi che lo vediamo consumarsi nella zona più buia del suo viaggio. Si racconta che Jimmy Page desiderasse conservare i liquidi corporei di Bowie, per poter svolgere i suoi riti (e che Bowie, ne fosse abbondantemente terrorizzato, e vorrei vedè!). Forse non si era neanche accorto che per quanto cercasse la trasgressione e l'affrancamento da una vita misera venerando il diavolo durante i suoi sabba virilissimi, il vero inafferrabile spirito dell'eversione, la vera stella nera, la luce che brilla nel buio portando il seme della trasgressione aveva già scelto il suo corpo da molto tempo, lasciando al rock "deviato" giusto la possibilità di fare rumorosissime e omologatissime festicciole invocando la venuta di una creatura aliena che stava già cadendo consumandosi senza protezioni in un solitario viaggio verso il punto più oscuro dell'inferno."
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