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martedì 2 aprile 2013

"The Next Day" - il mondo in fiamme del veggente bugiardo


Ancora una volta il Duca Bianco è tornato, “lanciando dardi negli occhi degli innamorati...”

Molto si è speculato, legittimamente, sulla copertina di
"The Next Day", ove un quadrato bianco col titolo del disco oscura il volto di Bowie, al massimo dello splendore iconico, sulla copertina di "Heroes". Il disco-simbolo, forse il vertice, della gloria artistica passata del Nostro.




Numerosi commentatori hanno interpretato questa scelta, supportati anche
dalle dichiarazioni di Tony Visconti a riguardo, non come una mera provocazione, ma come un annuncio di svolta, un invito rivolto in primo luogo alla platea globale di devoti: affrancarsi dalla nostalgia mitizzante, obliterando il volto sacralizzato dell'idolo, proiettandosi verso l'ignoto oceano delle possibilità future."Au fond de l'inconnu pour trouver du nouveau"? D'accordo, ma se di
"Invito al Viaggio" si tratta, è un'odissea interiore, quella alla quale siamo sospinti.Infatti, come è stato notato, il disco in realtà trabocca di riferimenti, nemmen tanto celati, alla indimenticabile produzione precedente. Non solo all'epocale trilogia berlinese, come esplicitamente suggerito, ma anche agli esperimenti jungle degli anni '90, al parzialmente abiurato exploit da "king of pop" di inizio anni'80, passando per le suggestioni sonore di "Scary Monsters".
Ancor di più, a mio modesto avviso, il Duca ha seminato tracce che ci riconducono addirittura ai lati oscuri di
"Hunky Dory", e alla malata bellezza di "The Man who sold the World".
Briciole di citazioni, più o meno immediatamente riconoscibili, che consentono, se raccolte ,
all'ascoltatore smarrito di ritornare a casa, "bringing it all back home", togliendo i capolavori dai mortiferi Musei del Rock, e restituendoli alla vita, trasformati in nuova creazione.
Così per il finale di
"Five Years", evidentemente ripreso da "You Feel so Lonely You Could Die", oppure per la schitarrata ritmica di "Fame" e il riff furbetto di "China Girl" ben nascosti in "Dirty Boys", e molti altri, più sottili, riferimenti, che di volta in volta richiameremo nella trattazione.
Un gioco cosi raffinato e genialmente auto-ironico da applicarsi in corso d'opera all'opera stessa: le prime note di
"Valentine's Day" ricalcano immediatamente il commovente refrain dell'appena terminata "Where are we now?"
, quasi a già consegnare il nuovo singolo ad una certa consacrazione da classico ulteriore.
Dunque, nessun impossibile colpo di spugna estetico, al contrario un complesso e introspettivo laboratorio di rigenerazione creativa.
Una resurrezione artistica che porta in dote le accecanti memorie antecedenti alla morte apparente.
Bowie aveva perfino convocato Robert Fripp, la chitarra siderale del brano-manifesto title-track dell'album evocato/rimosso fin dalla copertina. Il leader storico dei King Crimson
non solo ha declinato l'invito, è stato anche l'unico a rivelare la segretissima notizia del nuovo progetto del Duca. Ma, tale è il potere del misterioso magnetismo bowieano, nessuno gli ha creduto.
Ho già mostrato
QUI, commentando la meravigliosa sorpresa di Gennaio, l'inattesa uscita del singolo, come
Bowie da più di 30 anni sia costretto a giocare pazientemente a scacchi con la sua leggenda. Con la stessa sapienza, e più pirotecnica impertinenza, di Dylan.
Nel già citato
articolo avevo accostato i due mostri sacri (s'intenda la definizione in senso etimologico, di segno divino prodigioso che ammonisce e rivela, meraviglia e atterrisce), nella quasi necessaria affinità di de-costruire e lottare contro il Doppio demonico del proprio mito.
L'ascolto approfondito del disco ha confermato la non ingannevole intuizione.
"The Next Day" è pervaso dallo stesso soffio qohèletico che ispira gli ultimi, foschi capolavori del genio dylaniano: si pensi alla quasi diretta citazione dall'Ecclesiaste in "Love is Lost" ("You know so much, it's making you cry"), o ai versi quasi villoniani di "I'd Rather Be High" ("I stumble to the graveyard and I/ Lay down by my parents, whisper/ Just remember duckies/ Everybody gets got"). Del resto, il Padre di tutti i Cantautori Moderni "with a voice like sand and glue" è citato più o meno direttamente almeno in un paio di occorrenze: come stella più luminosa del firmamento del Greenwich Village inizio anni'60 in "(You Will) Set the World on Fire", e nella gemma finale "Heat", proprio nel gioco tra "Love" e "Theft" (non a caso più critici hanno paragonato questo sontuoso ritorno di Bowie proprio al precedente dylaniano del 2001).
La vena scaturisce potente fin dal primo brano, la title-track:
Bowie si presenta come un Caligola medievale, alla fine del suo regno di decadenza, linciato dal popolo inferocito. Ma, con rasputiniana insolenza, sentenzia nel ritornello "Here i am/ not quite dying", miglior modo possibile per ripresentarsi al cospetto del mondo (e anche qui non possono non venir mente i versi relativamente recenti del Dylan di "Spirit on the water"
: "You think, I'm over the hill/ Think, I'm past my prime/ Let me see what you got/ We can have a whoppin' good time").
All'inizio del secondo brano,
"Dirty Boys"
, corredato dalle già segnalate auto-citazioni, sembra di ascoltare un crooner dai toni morrisoniani improvvisare su un motivo del Tom Waits di “Swordfishtrombones". Molti hanno qui colto un omaggio al magnifico "The Idiot", prodotto e creato assieme all'amico/fratello/amante Iggy Pop nei leggendari Hansa Studios di Berlino, durante l'irripetibile stagione creativa di fine anni '70. Personalmente, invece vi ho letto un altro riferimento, forse inconscio, ma obbligatorio quando si parla di Bowie e Berlino. La strofa "I will buy a feather hat/ I will steal a cricket bat/ Smash some windows, make a noise/ We will run with Dirty Boys" mi ha fatto immediatamente venire in mente una celebre scena. Quella di "Christiane F.-Noi i ragazzi dello Zoo di Berlino" in cui, sulle note di "Heroes", i ragazzi all'inizio del film si abbandonano, con paradossale innocenza, all'ebbrezza liberatrice del vandalismo.

 Un momento entusiasmante alla prima visione, ma straziante se rivisto in seguito: i gioiosi teppisti che nell'euforia della fuga scivolano, inciampando l'uno sull'altro, non sono consapevoli di vivere una sardonica premonizione, la più precisa metafora del loro destino. Saranno loro stessi, all'inizio quasi impercettibilmente, poi via via con ineluttabile accelerazione, a trascinarsi l'un l'altro come reciproche sabbie mobili nell'inferno dell'abiezione. Uno strazio reso ancora più dolente dal controcanto ironicamente eroico del celebre brano di
Bowie: il canto fiero e disperato d’una impossibile rivolta romantica, è colonna sonora della perdita dell’innocenza d’una intera generazione.

Il terzo brano, “The Stars (Are Out Tonight)” è il secondo singolo, lanciato dal videoclip di Floriana Sigismondi, a cui certo un artista iper-consapevole come Bowie ha affidato una delle possibili chiavi di lettura del suo ritorno. Nel brano, possente e accattivante, il mondo fatato del jet-set, delle star, non desta più le proiezioni dello stupore infantile, come in “Life on Mars?”, o la trasfigurazione nel fascino del proibito, come in “Starman”. La leggenda vivente che ha passato tutta la vita sotto i riflettori dipinge l’ambito status con minacciosa inquietudine (“They burn you with their radiant smiles/ Trap you with their beautiful eyes”). Già 14 anni fa, nel video di ”Thursday’s Child” il gioco metaforico del Doppio era stato affrontato, ma in maniera abbastanza lineare.  Il Bowie maturo, stanco, alla fine del giorno prima delle abluzioni notturne, in un sussulto d’introspezione intravedeva dall’altra parte dello specchio se stesso giovane, ardente di oscura bellezza, rivivendo in un attimo straniante l’impossibile emozione del passato, per poi tornare bruscamente alla “normalità” delle abitudini quotidiane (significativi i versi: “Something about me stood apart/ A whisper of hope that seemed to fail”, sussurati nei momenti precedenti alla visione).





Lo stesso gioco ora si moltiplica e rifrange in una raffinata complessità di livelli di interpretazione.
Un gioco condotto con spiazzante auto-ironia, fino a un illuminante capovolgimento dei ruoli.

Bowie, l’icona oltraggiosa e conturbante del diverso, dell’alieno, del trasgressivo, si presenta nei panni di un innocuo borghese, appagato dalla sua fin troppo serena vita di coppia accanto alla moglie, interpretata da Tilda Swinton. E qui c’è la prima apparizione del Doppio, complice l’impressionante somiglianza fra i due protagonisti. I due appaiono per la prima volta officiando il rituale materialista della quotidianità borghese: facendo la spesa insieme in un supermercato.
Una scena che sembra il finale di
“Eyes Wide Shut” al contrario: se nel controverso testamento di Kubrick la coppia trovava nell’eros una liberazione e una riconquista della propria identità (per chi scrive, un abbaglio freudiano), qui assistiamo alla resa totale ai condizionamenti della società. Bowie scambia un paio di battute qualunquiste col commesso, il quale, gli addita con sdegno una coppia di star sregolate sulla copertina di una rivista di gossip (in cui si vede il cantante stesso come l’alieno Thomas Jerome Newton ne "L'Uomo che cadde sulla Terra"). Bowie
sembrerebbe provare simpatia e fascino per la vitalità delle “twisted antics” (le “contorte buffonate”), ma viene subito ripreso dalla moglie che lo riporta al comandamento della normalità sociale: “We have a nice life”, frase che egli ripete meccanicamente con malcelata rassegnazione. Il matrimonio, nella sua versione falsa e convenzionale, invece di essere il congiungimento delle energie archetipiche, è l'istituzionalizzazione della schizofrenia: l’Androgino si è diviso, l’unità primordiale smarrita.
Ma al termine della scena, vediamo i due spiati e inseguiti dalle star della copertina: due presenze conturbanti, demoni dell’apparenza.
In
“Mulholland Drive” le presenze demoniache, che inducevano nel finale da incubo la protagonista al suicidio, erano i fantasmi lillipuziani degli anziani sorridenti, che all’inizio del film la accoglievano benevoli nell’inganno dorato dell’American Dream, arconti del crudele regno dell’apparenza. Non possiamo a questo punto non ricordare come lo stesso Lynch abbia scelto proprio Bowie come protagonista di una enigmatica scena chiave di “Fuoco cammina con me”, fondata sempre sullo sdoppiamento e sulla perdita dell’identità. Qui i demoni hanno le fattezze patinate di due fotomodelle, anch’esse androgine, dalla nervosa sensualità, fantasmi di algida bellezza (per Leopardi la moda è “sorella della morte”). Una di esse è il palese alter-ego femminile (lo yin? l’es? il dionisiaco? l’ombra junghiana?) di Bowie
, la cui inquietante bellezza, nel prologo del video, viene spiata dalla moglie, con sospetto e ripulsa, nascondendosi dietro le tende di casa. Tornati a casa, Bowie e la Swinton stanno celebrando l’altro grande rito della “nice life”,intrattenendosi amabilmente davanti alla tv, quando vengono disturbati dal chiasso dei vicini. Il buon marito borghese si alza per lamentarsi, per pretendere il rispetto delle regole convenute, ma presto intuisce, ri-conosce che dall’altra parte si trova la propria controparte femminile. Il proprio alter-ego, nella totale scissione interiore della vita moderna, non è più un’ombra in cui specchiarsi, bensì un chiassoso dirimpettaio da mettere a tacere. I due volti ci vengono mostrati simmetricamente in ascolto l’uno dell’altro, ma separati irrimediabilmente da un muro (un’ennesima allusione a Berlino?). Tale è l’incomunicabilità col proprio sé interiore, che non desta più nostalgia o desiderio, ma solo disturbo e inquietudine.
 Lo specchio è divenuto muro.
Sarà la moglie, custode dei vuoti rituali sociali, a cedere all’influenza tentatrice, come una grottesca marionetta posseduta dagli spasmi dell'eros e dai capricci della vanita'.
In uno speculare cortocircuito, sarà invece Bowie a rifuggire spaventato dai fantasmi della trasgressione e del successo, che lui stesso ha per tutta la vita incarnato a livello di coscienza collettiva.  Un gioco di sdoppiamenti raddoppiati che si concluderà con la definitiva inversione dei ruoli tra le due coppie (le presenze tentatrici diverranno i due sul divano davanti alla tv, e, mutatis mutandi, viceversa). Lontano dalle velleità del suo amico
Mick Jagger, che a 70 anni ancora gioca a fare il sex-symbol, Bowie
si conferma artista supremamente intelligente, in grado di anticipare e neutralizzare, con le armi intatte della sensibilità e dell’ironia, qualsiasi possibile luogo comune.

Il disco prosegue con
“Love is Lost”
, brano di grande tensione poetico-musicale, in cui il tema abusatissimo del disagio giovanile assurge a puro paradigma della dolente condizione umana, in violento contrasto con la fatuità delle esteriorità sociali (“Your country's new, your friends are new/ Your house, and even your eyes are new/ Your maid is new, and your accent, too/ But your fear is as old as the world”).
Su
“Where are we now?”, sulla sua importanza e sulla pura commozione che m’ispira, già mi sono diffusamente espresso QUI.“Valentine’s Day” ha secondo me un illustre precedente in “Running Gun Blues”. Ma se nel disturbante brano di “The Man who Sold the World” i pensieri del serial-killer venivano narrati attraverso la parodia delle canzoni di protesta, qui, con antifrasi più sottile ma non meno interessante, vengono affidati all’apparente gradevolezza di un rassicurante brano pop. “If You Can See Me” è chiaramente, in questa grande rivisitazione della propria carriera, il brano che si rifà al periodo sperimentale, per il sottoscritto discutibile, di “Earthling”. In “I’d Rather Be High” si coglie invece l’eco di “All the Madmen”, altro diamante nero di “The Man who Sold the World”. Basti confrontare il ritornello del primo ("I'd rather be dead/ Or out of my head/ Than training these guns on the men in the sand") con gli antichi versi ("...I'd rather stay here/ With all the madmen/ Than perish with the sadmen roaming free"). Ma anche qui Bowie
inverte il suo ruolo storico: da vittima predestinata in quanto diverso, a nolente e disgustato carnefice. I due volti, apparentemente contrapposti, della schiavitù contemporanea.
Gli altri brani continuano lo svolgimento del discorso principale, riecheggiando ambiguamente sonorità e tematiche che hanno puntellato tutte le rinascite della vita artistica bowieana.
Vorremmo soffermarci però sugli ultimi due brani, per noi i più importanti accanto al primo singolo, in cui il Duca ha nascosto magistralmente i suoi tesori.

In
"You Feel So Lonely You Could Die", Bowie continua il magnifico prodigio alchemico sulla canzone pop innervando una ballata dal titolo rubato a Elvis con dolente poesia esistenziale. Aleggiano ancora i fantasmi dello Zoo di Berlino (presto dedichero' le mie riflessioni a un eccellente libro sul tema), in versi che  potrebbero benissimo essere dedicati a Christiane F
.: "You’ve got the dangerous part./ You stole their trust, their moon, their sun./ There'll come an assassin's needle/ On a crowded train./ I bet you´ll feel so lonely you could die./ Buildings crammed with people./ Landscape filled with wrath./ Grey concrete city./ Rain has wet the street./ I want to see you clearly/ Before you close the door./ A room of blood history./ you made sure of that./ I can see you as a corpse/ Hanging from a beam./I can read you like a book./ I can feel you falling./I here you moaning in your room.".
Ma il vero capolavoro del disco, forse, almeno il brano più significativo, degno di essere posto accanto alle ballate classiche,  è proprio l'ultimo brano,  l'abissale
"Heat".
Era, forse, da i tempi di
“I Can’t Read”, che Bowie non scriveva un brano così profondo e autentico.
Il
Duca chiude il cerchio della sua bruciante parabola, riscrivendo una nuova "Space Oddity",
brano evidentemente citato negli arrangiamenti. Ma stavolta, come accennato, l'odissea è nel proprio spirito.
Dopo la vana esplorazione del cosmo esteriore, sfociata nella decadenza morale dei "sordidi dettagli" in
"Ashes to Ashes" (con dinamica uguale e contraria l'alieno Bowie-Jerome finira' alcoolizzato sulla Terra), Major Tom al fine del suo peregrinare si smarrisce nel piu' vasto degli universi: l'impero della propria interiorita' (l'autentico "Inland Empire"
).
Ma piu' che
Lynch, ancora una volta sovviene Kubrick (amato e citato ogni sera in apertura dei concerti dell'era Ziggy), nel maestoso finale di "2001-Odissea nello Spazio"
(proprio il film che ispiro' il celebre brano d'esordio).
Al termine del viaggio psichedelico al di la' tempo e dello spazio, sorta di ultra-moderno "folle volo" dantesco, passata l'effetto illusorio della folle ubriacatura tecnologica l'Uomo si ritrova, inerme e agonizzante, nudo nella sua miseria ontologica al cospetto del nero Monolite, significante assoluto del Mistero.
Il ritornello rivelatore (“and i tell myself/ i don’t know who i am”) ricorda quello famoso di
“Quicksand” (“I ain’t got the power anymore”). Una reminiscenza non casuale, il grande manifesto negativo (quello di “Don’t believe in yourself”), in cui, all’epitome della falsa conoscenza, Bowie
riusciva ad omaggiare in una strofa due figure diversamente demoniache (Himmler e Crowley).
Lontano dal compiacimento originario di
“Changes”
(“So I turned myself to face me/ But I've never caught a glimpse/ Of how the others must see the faker/ I'm much too fast to take that test”), Bowie getta la…o meglio le, infinite, maschere: ”I am seer/ and i am a liar”. Identificando il proprio potere psichico, la propria visione, con la menzogna, egli confessa il suo tragico fallimento, il mancato raggiungimento dell’obiettivo di ogni ricerca spirituale: gnosi seauton, conosci te stesso.
 La ricerca dell’identità interiore, differita negli innumerevoli travestimenti, parodiata nelle maschere cangianti, camuffata nel gioco schizofrenico degli alter-ego, si è alfine smarrita, nel più colossale, e disperante, dei divertissement. Il momento magico (“one magical moment from Kether to Malkuth”) evocato in “Station to Station” (la prima apparizione del Duca Bianco!) si è rivelato un trucco effimero e beffardo, lasciando solo le pornografiche macchie bianche dell’inganno crowleyano a contaminare l’anima (chi volesse conoscere il vero volto del satanico pagliaccio si affidasse al ritratto donatoci da W.S. Maugham ne “Il Mago”). Accanto a tale pericolosa guida, il percorso cabalistico, evocato nel verso citato, da Kether a Malkuth, invece di condurre alla manifestazione della Shekinah (la Divina Presenza di Dio, Suo aspetto femminile per alcuni filoni della Qabbalah), ha costretto Bowie a materializzare i suoi stessi incubi. Invece di portare (come nell’originario intento mistico) l’invisibile luce dello Spirito nella creazione, il tragitto è stato una rovinosa discesa dall’illuminazione alla morsa infernale dei sensi e delle dipendenze.
La Sposa non è apparsa, e le Stazioni della Croce hanno condotto a un calvario senza Resurrezione.
Il brano si chiude sul rintocco kafkiano di “My father ran the prison/ My father ran the prison”.
Ora, chi scrive considera Freud un dannosissimo cialtrone, e la psicanalisi (prima di Jung) una delle maledizioni del Kali-Yuga. Ma stiamo parlando di Bowie.
Un artista che ha fondato la sua
Weltanschauung sull’unheimlich
(per chi non ama il tedesco: ha fondato la sua visione del mondo su ciò che è perturbante, spaesante, sinistro, su ciò che non è ci è familiare e che non ci mette a nostro agio). Non credo, dunque, sia una forzatura peregrina leggere in questi versi un richiamo a quello che, psicanaliticamente, è quasi luogo comune: accostare, a livello inconscio, la figura del Padre a quella di Dio.
L’intera creazione, ci rivelerebbe inconsciamente
Bowie, si configura come una prigione universale, una gabbia per l’Angelo Ribelle, un esilio crudele per l’alieno luciferino, reso cieco ad ogni visione superiore (come ne "L'Uomo che cadde sulla Terra"), inchiodato alla eterna punizione della sua hybris
.
E per un ricercatore della Verità la più tremenda Nemesi è non poter più conoscere se stessi.
P.S.
Come anche il precedente, questo articolo è impreziosito da un ritratto (per me tra i più belli e significativi mai realizzati sul tema)  dell'artista in questione realizzato dal genio fraterno di di LRNZ (Lorenzo Ceccotti).
E, anche in questo caso, Lorenzo ci "illustra" la sua illustrazione, donandoci una riflessione quanto mai pertinente, che sottoscrivo parola per parola:

"Oggi parliamo di questo disegnino su David Bowie. (DEVID BOIV, per gli intenditori fumettari, quello che un occhio è...)
L'ho fatto di gusto.
Mi ha sempre annoiato tutto questo sfaccendare per ingraziarsi il diavolo.
Stare dalla parte dei cattivi è una roba pallosa, ed è molto più facile, visto che sono SEMPRE tutti d'accordo che è figo essere tasgressivi col diavolo, pochissimi ad esserlo con il bene, con ciò che è equilibrato, con quello che è bello e difficile: costruire. Non è un caso che mi piacciano da impazzire Moebius nel disegno, o gli Autechre nella musica: devono molto a questo percorso di ricerca solitaria, ascetica in una continua trasgressione nel perfetto.
Capirete quindi che oltre a annoiarmi mi colpisce molto la condizione infantile e frustrata in cui vive buona parte del mondo dei musicisti rock: venerare il male per essere venerati da chi non ce la fa neanche  a trasgredire in prima persona. Mi ha colpito anche di più questa situazione paradossale in cui si è trovato uno dei padri del Rock, Jimmy Page. Jimmy Page era amico di Bowie, ed era un fervente seguace di Aleister Crowley, come tutti i protometallari. Ora Bowie nel suo progetto musicale si è ritrovato a dover far fronte ad un successo che molto deve a fattori insondabili endemici del suo corpo: gli occhi così incredibili, il suo aspetto androgino, la perfezione nel portamento di una diva, una voce decisamente maschile avvolgente e purissima, Bowie incarnava in un momento di rivoluzione culturale totale, tutto quello che c'era di trasgressivo, con la promiscuità sessuale (inteso nel senso di una sempre più modernamente labile distinzione fra uomo e donna) in cima alla lista, condita con la contaminazione fisica delle droghe. Rappresentava la decadenza, la celebrazione dell'appassire di una bellezza effimera. Un sabotaggio all'idea popolare di cosa dovesse essere un uomo modello, della forza, di una star. Rappresentava lo svanire inafferrabile di una perfezione sovrumana, irraggiungibile con la volontà. Era un capolavoro corrotto, dalla nascita. Ecco quindi che se proprio devo trovare un fascino autentico nel "male", inteso come lato oscuro dell'esistenza e non come una banale voglia adolescenziale  di sfasciare tutto, la trovo in Bowie, visto che Bowie E' Lucifero: è la cosa che gli si è avvicinata di più nella storia della musica (e al Ryo di Devilman, si). E ha rappresentato con la sua musica, principescamente semplice e nostalgica, proprio questo aspetto scurissimo della perdita della incorruttibilità angelica, in una caduta libera dalla candida rosa inziata 40 anni fa e che ancora non ha fine, testimoni noi che lo vediamo consumarsi nella zona più buia del suo viaggio. Si racconta che Jimmy Page desiderasse conservare i liquidi corporei di Bowie, per poter svolgere i suoi riti (e che Bowie, ne fosse abbondantemente terrorizzato, e vorrei vedè!). Forse non si era neanche accorto che per quanto cercasse la trasgressione e l'affrancamento da una vita misera venerando il diavolo durante i suoi sabba virilissimi, il vero inafferrabile spirito dell'eversione, la vera stella nera, la luce che brilla nel buio portando il seme della trasgressione aveva già scelto il suo corpo da molto tempo, lasciando al rock "deviato" giusto la possibilità di fare rumorosissime e omologatissime festicciole invocando la venuta di una creatura aliena che stava già cadendo consumandosi senza protezioni in un solitario viaggio verso il punto più oscuro dell'inferno."
 

Se siete interessati a comprarne una stampa o entrare in possesso dell'originale potete farlo qui.

venerdì 18 gennaio 2013

Where are we now?

L'8 gennaio è stato il sessantaseiesimo compleanno di David Bowie.
La tentazione di tributare un omaggio era francamente irresistibile. Anzi, talmente forte da tramutarsi nel suo opposto: obbligo morale.
Se però il cuore traboccava di ghirlande filologiche e turiboli critici con cui accostarsi all'altare in madreperla dell'intatto idolo, la mente frenava il devoto palpito sulla soglia del tempio, obliterando la cerimonia con l'arida innegabilità del calcolo razionale.
All'entrata del Sancta Sanctorum su ogni critico incombe la mannaia del rischio più minaccioso: la noia del catalogo museale.

Avevo, dunque, già con tormento riposto i paramenti liturgici quando...
Hallelujah!
Con un colpo di teatro all'altezza del suo leggendario carisma, Godot è apparso, in tutto il suo stordente splendore, pubblicando a sorpresa un nuovo brano, "Where are we now", che addirittura preannuncia l'uscito di un nuovo disco, "The next day", per il prossimo marzo.
Nel 2003 intervistato dal suo grande fan Jonathan Ross, che notava sorpreso come il suo nuovo disco ("Reality") sorprendentemente seguisse il precedente ("Heathen") appena dopo un anno, Bowie, nel suo amabile humour, rispose: "Si, il prossimo uscirà fra 5 settimane...". Sono passati 10 anni.

Un nuovo disco dopo 10 anni di silenzio praticamente assoluto.
Questo di per sé è un evento.

Come avrebbe detto il buon vecchio Gianni Brera: in alto i canti e le bandiere per il Duca Bianco.
Ma c'è già chi non vuole festeggiare.
Non mi riferisco alle lamentazioni geriatriche di Mario Luzzato Fegiz sul "Corriere della Sera" (peraltro perfettamente coetaneo di Bowie, c'è di che riflettere)...del resto, in prima fila a guidare le celebrazioni c'è Lady Gaga...meglio stare con l'arcigno critico moraleggiante
Parlo della reazione fredda o delusa di alcuni fan sui social network.

Ho deciso di pubblicare con una settimana abbondante di ritardo, per evitare giudizi dettati da reazioni emotive.


Diciamolo subito: al primo ascolto mi sono emozionato.
 Non certo per l'ingenua acriticità del fan assetato da dieci anni di siccità, il quale, ormai rassegnato a trascinare nel deserto le reliquie di glorie passate, si ritrova a danzare ebbro di gioia alle prime gocce che cadono dal cielo avaro, purché siano appena potabili.
Non sono fatto così.
Come tutti i sacerdoti d'un culto, la mia priorità è difendere l'ortodossia.
 Le precedenti uscite di Bowie avevano destato certo interesse, stimoli, suggestioni, ma anche molte perplessità.
Non molte emozioni.
Stavolta è diverso. Ancora al ventiquattresimo ascolto (svanito ormai l'effetto sorpresa) l'emozione rimane. Potente e autentica.
E non è certo la voce impostata sul rimpianto straziante, o il tono minore degli accordi a generare commozione. In pochi versi, Bowie, come poche volte prima, espone l'anima nuda nello smarrimento esistenziale, senza maschere, senza travestimenti, senza il conforto del grande gesto estetico a velare le ferite interiori. Ed è ovviamente toccante intuizione, oltre che prodigio d'introspezione, il richiamo a Berlino, a quella Berlino, capitale magica per ogni fan di Bowie, culla creativa della rinascita straordinaria di fine anni '70.

C'è chi potrebbe accusare il ritornello di essere oggettivamente debole, con le sue ripetizioni facili facili ("The moment you know, you know you know")
Ma in realtà è proprio nei suoi capolavori minimali della trilogia berlinese, che Bowie giunse al culmine del suo percorso alchemico sulla forma canzone pop: nell'apice della ricerca sperimentale ha trovato la chiave del segreto per la conquista trionfale del mainstream, pochi anni dopo.
Mi spiego meglio.
E' anche giocando su le ripetizione di "You" e "I" che si è raggiunta l'epica essenzialità di "Heroes".
Gli anni di Berlino sono, come tutti sanno, non sono solo quelli della magnifica trilogia
( "Low", "Heroes" e "Lodger") ma sono anche quelli della resurrezione di Iggy Pop, di cui il Nostro co-scrive e produce le due gemme di delirio, "The Idiot" e "Lust for life", i cui bagliori luciferini ancora illuminano le performance dell'Iguana come vette intramontabili.
Ora, non tutti ricorderanno che il repertorio del Bowie inizi anni'80, del Bowie idolo romantico delle folle, che si contendeva con Lady Diana le prime pagine dei giornali, che duettava in giacca e cravatta con Tina Turner...ebbene quel repertorio proveniva dalle oscurità subconscie del garage ermetico berlinese.
Gli stessi versi sussurati dal Bowie compassato che scalava le classifiche, erano quelli pochi anni prima urlati come un animale torturato dall'Iggy post-rehab.
L'oltraggio della controcultura diventa ritornello canticchiato da tutti sotto la doccia.
Questo è genio (torniamo a Baudelaire, "creare luogo comune è genio").
 Una delle chiavi del genio bowieano è proprio nel estendere all'infinito la tensione romantica (attraverso una teatralità eccessiva, quasi dannunziana) per poi discioglierla con sofisticata ironia in una imponderabile ambiguità.
Una sorta di versione pop della "sospensione del tragico" di Carmelo Bene.
Ad esempio, qui lo troviamo come un attore alla Bogart ("and i felt like an actor", potrebbe essere messo in calce ad ogni sua esibizione dal vivo), in un vertice di commozione romantica pura (1.22), che si svela "parodia della vita interiore" (come appunto si disse di "Nostra Signora dei Turchi"), spazzata via dalla folle ironia di "TAKE ME TO THE DOCTOR!"






Stavolta, invece, niente giochi, niente infingimenti.
Un cosmo di riferimenti, di autocitazioni, di gloriose memorie, dissolto in un purissimo dolore esistenziale.
  E' per questo motivo che "Where are we now" è un brano insieme intelligentissimo, elaboratissimo e commovente, pur essendo all'apparenza banale.



Ora, non intendo fare l'avvocato di uno degli artisti più venerati del pianeta.
Preferisco invece approfondire una questione estetica che riaffiora ogni qual volta una vetusta autorità (non solo nel rock) scende dal pantheon per rigettarsi nella polvere bruciante dell'agone artistico.
Come già ho fatto nel breve passato di questo blog, porrò come pietra di paragone per guidare la riflessione, l'icona più enigmatica, prima dello stesso Bowie, della cultura pop contemporanea: Bob Dylan.

Chiarisco, non lo faccio perché Dylan è per me il più grande artista popolare del Novecento.
Lo faccio, perché egli E' (è stato e sarà) la pietra di paragone, l'esempio, l'antesignano, il modello, il padre da uccidere, la vetta da raggiungere e, se possibile, da superare, per tutti i grandi mostri sacri, Bowie incluso.
Egli è letteralmente il mito dei miti, la leggenda delle leggende, l'idolo degli idoli (e lui che ama così tanto il Vecchio Testamento e, in esso, il Cantico dei Cantici riconoscerebbe l'eco cabalistica di tali iperboli).
Non lo dico io, lo dicono, o lo hanno detto, loro:  Lennon ("Dylan mostra la strada"), Mc Cartney e tutti i  Beatles, gli Stones con i loro ripetuti omaggi fin dalle copertine dei loro dischi storici, Hendrix con la sua venerazione espressa in numerose cover (non solo "All along the Watchtower"),  Springsteen che in questo discorso gli elenca tutti meglio di me, facendo risparmiare a me e a voi un sacco di tempo prezioso...
Ed è per questo che per me è il più grande artista popolare del Novecento.

Dylan é l'archetipo della rockstar, semplicemente perché é stata la prima, almeno in senso moderno.
 Il primo a essere protagonista di un documentario, il primo a essere oggetto di una attenzione maniacale dei fan e ossessiva dei media (non parlo delle fan starnazzanti per i Fab Four, parlo di Alan Weberman che con lui inaugura il costume apice del voyeurismo da fandom, rovistare nella spazzatura dei divi), il primo ad avere la libertà artistica di fare un disco doppio, con una traccia che copriva un'intera facciata...il primo a divenire non solo un idolo pop (come Elvis),  o un fenomeno di costume (come i Beatles) ma un simbolo culturale, a dare alta dignità artistica e intellettuale a quelle che erano considerate canzonette...a portare la "poesia nei juke-box", secondo la celebre definizione di Allen Ginsberg.


Il rapporto tra Bowie e Dylan è complesso e fecondo, come il dialogo tra due enormi personalità artistiche logicamente prevederebbe. E non parlo del famoso primo incontro (che smentì il verso "Though i don't suppose we meet" nel brano di "Hunky Dory") riportato nell'infausta intervista del 1976, in cui l'ipertrofia cocainomane di Bowie si scontrava col silenzio della Sfinge dylaniana.
Sono gli artisti che (assieme al loro amico comune, per uno maestro per l'altro allievo, Lou Reed) hanno incarnato enigmaticamente la trasformazione alchemica, l'incessante divenire artistico, la lotta del genio contro la mediocrità.
Bowie nel clamore quasi programmatico ("Ch-ch-ch changes!") dei capovolgimenti di stile, del gioco delle identità, insieme Fregoli e Amleto dei generi e non solo dei travestimenti.  
Dylan, meno spettacolarmente, ma piu' interiormente, cantore costantemente in cammino, arso nella ricerca, perennemente al bivio di ogni percorso mistico, viandante e bagatto, toccato dalla grazia del volo poetico e al contempo incatenato al peso della sua stessa dolente sapienza. Entrambi albatri baudeleriani, le cui ali da gigante hanno divelto le reti della ciurma giornalistica a colpi di capolavori e provocazioni.
Entrambi hanno sofferto nelle loro carni il loro ineluttabile e irreparabile divenire icona.

E' interessante notare, in due personalità così grandi e così diverse, praticamente la stessa reazione, uguale e contraria, alle invariabili etichettature mediatiche che negli anni li hanno claustrofobicamente accerchiati: qui Bowie (4.22), qui Dylan.

In entrambi agisce (come ebbe a dire Battiato parlando di Dylan) una potenza mantrica.
Non solo nei confronti dei loro ascoltatori (sempre citando Bowie nell'omaggio a Dylan: "His words of truthful vengeance/They could pin us to the floor" e ancora "And you sat behind a million pair of eyes
And told them how they saw") ma anche e soprattutto nei confronti di sè stessi.
E' come se il potere evocatore del genio poetico chiedesse, nelle carni stesse dell'artista, il dazio per aver estratto oro dal fango del caos interiore.
Bowie, che si faceva ritrarre mentre scimmiottava quel pericoloso cialtrone di Crowley, comprenderebbe bene quello che sto tentando di dire.
Con suprema e spiazzante ironia esistenziale (sigillo dell'attenzione degli Dèi),  il karma inchiodò il Duca Bianco, ben prima del suo battesimo da novello alter-ego, alla mostruosa incontrollabilità del proprio mito.
Si ritrovò a fare i conti con platee oceaniche che gli rinfacciavano beffarde lo stesso interrogativo da lui posto a Dylan nel suo inno da fan tradito: "Now hear this Mr.Bowie...ask your good friend Ziggy/ If he'd gaze a while/ Down the old street". Ma ben altro inquietante prodigio avvenne.
Il  Bowie scheletrico, solo e tremante nella lussuosissima casa di Los Angeles, posseduto dalla cocaina e dalla paranoia per la magia nera (custodiva la pipì nel frigo perchè temeva che Jimmy Page, un altro che pagò caro la seduzione crowleyana, la usasse per rubargli l'anima in riti di magia nera),  quel Bowie carnefice di sè stesso, alienato più che alieno, travolto dalla sua fama, divenne l'incarnazione spettrale, l'incubo realizzato dell'epitaffio di Ziggy Stardust: "Making love with his ego, Ziggy sucked up into his mind".
Come già detto di F.Scott Fitzgerald, Bowie divenne posseduto dagli incubi che egli stesso aveva liberato.
E fu solo Berlino porta di salvezza, rivelandosi  un mastodontico forno alchemico a cielo aperto, dove rinascere nel miracolo dell'ennesima trasformazione.

Concludendo il discorso da dove avevamo iniziato, non possiamo pretendere che il "nuovo" pezzo di artisti così irriducibilmente iconici, possa avere la freschezza, l'impatto e la potenza rivoluzionaria dei loro capolavori di 40 o 50 anni fa.
Non si può ri-ottenere l'effetto devastante di "Like a rolling stone" o di "Ziggy Stardust", dopo averle scritte.
Non per mancanza d'ispirazione. Dico sempre che dal sottovalutatissimo Dylan "in crisi" degli anni '80 si potrebbe estrarre un greatest hit da far invidia a tanti cantautori lodati a sproposito.
Il motivo è semplice: non si può non fare i conti con la propria grandezza.
Avendo creato, di fatto, una nuova epoca, un nuovo linguaggio, Bowie e Dylan, mutatis mutandi, diventano i T.S.Eliot di sè stessi, cercando nella "Terra Desolata" della loro anima e della loro opera i frammenti con cui puntellare le proprie rovine.
L'aveva già capito Bowie estraendo dieci anni dopo un nuovo classico, "Ashes to Ashes", dallo spin-off  del suo battesimo incandescente, "Space Oddity".
Ha poi alluso al gioco costantemente, fino ad esplicitarlo in "The pretty things are going to hell".
La gioventù fiera e oltraggiosa che doveva annunciare il Superuomo nietzscheano ormai se n'è andata all'inferno.
E così Dylan, lontano dalle smancerie borghesi e furbastre di Mc Cartney che porta il cane a fare la pipì sulle strisce pedonali di "Abbey Road" (per i complottisti  confessione in codice della sua morte), ha lottato con genio per non diventare il poeta alessandrino di sè stesso.
Ha così rovesciato nel disincanto e nell'amara ironia gli inni immortali, per scardinare la prigione in cui il suo stesso altare si era trasformato: dal furore profetico di "The times they are a-changin'" si passa al sarcastico cinismo di "Things have changed", dal canto abusatissimo di "Knockin' on Heaven's door" al passo trascinato dello stanco vagabondo spirituale in "Tryin' to get to Heaven".

Ci aspettiamo molto da "The next day".
Speriamo che il Duca sia di parola, come lo è stato il Maestro con l'ultimo album "Tempest".
Di questo e di altro, parleremo prossimamente.