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venerdì 18 gennaio 2013

Where are we now?

L'8 gennaio è stato il sessantaseiesimo compleanno di David Bowie.
La tentazione di tributare un omaggio era francamente irresistibile. Anzi, talmente forte da tramutarsi nel suo opposto: obbligo morale.
Se però il cuore traboccava di ghirlande filologiche e turiboli critici con cui accostarsi all'altare in madreperla dell'intatto idolo, la mente frenava il devoto palpito sulla soglia del tempio, obliterando la cerimonia con l'arida innegabilità del calcolo razionale.
All'entrata del Sancta Sanctorum su ogni critico incombe la mannaia del rischio più minaccioso: la noia del catalogo museale.

Avevo, dunque, già con tormento riposto i paramenti liturgici quando...
Hallelujah!
Con un colpo di teatro all'altezza del suo leggendario carisma, Godot è apparso, in tutto il suo stordente splendore, pubblicando a sorpresa un nuovo brano, "Where are we now", che addirittura preannuncia l'uscito di un nuovo disco, "The next day", per il prossimo marzo.
Nel 2003 intervistato dal suo grande fan Jonathan Ross, che notava sorpreso come il suo nuovo disco ("Reality") sorprendentemente seguisse il precedente ("Heathen") appena dopo un anno, Bowie, nel suo amabile humour, rispose: "Si, il prossimo uscirà fra 5 settimane...". Sono passati 10 anni.

Un nuovo disco dopo 10 anni di silenzio praticamente assoluto.
Questo di per sé è un evento.

Come avrebbe detto il buon vecchio Gianni Brera: in alto i canti e le bandiere per il Duca Bianco.
Ma c'è già chi non vuole festeggiare.
Non mi riferisco alle lamentazioni geriatriche di Mario Luzzato Fegiz sul "Corriere della Sera" (peraltro perfettamente coetaneo di Bowie, c'è di che riflettere)...del resto, in prima fila a guidare le celebrazioni c'è Lady Gaga...meglio stare con l'arcigno critico moraleggiante
Parlo della reazione fredda o delusa di alcuni fan sui social network.

Ho deciso di pubblicare con una settimana abbondante di ritardo, per evitare giudizi dettati da reazioni emotive.


Diciamolo subito: al primo ascolto mi sono emozionato.
 Non certo per l'ingenua acriticità del fan assetato da dieci anni di siccità, il quale, ormai rassegnato a trascinare nel deserto le reliquie di glorie passate, si ritrova a danzare ebbro di gioia alle prime gocce che cadono dal cielo avaro, purché siano appena potabili.
Non sono fatto così.
Come tutti i sacerdoti d'un culto, la mia priorità è difendere l'ortodossia.
 Le precedenti uscite di Bowie avevano destato certo interesse, stimoli, suggestioni, ma anche molte perplessità.
Non molte emozioni.
Stavolta è diverso. Ancora al ventiquattresimo ascolto (svanito ormai l'effetto sorpresa) l'emozione rimane. Potente e autentica.
E non è certo la voce impostata sul rimpianto straziante, o il tono minore degli accordi a generare commozione. In pochi versi, Bowie, come poche volte prima, espone l'anima nuda nello smarrimento esistenziale, senza maschere, senza travestimenti, senza il conforto del grande gesto estetico a velare le ferite interiori. Ed è ovviamente toccante intuizione, oltre che prodigio d'introspezione, il richiamo a Berlino, a quella Berlino, capitale magica per ogni fan di Bowie, culla creativa della rinascita straordinaria di fine anni '70.

C'è chi potrebbe accusare il ritornello di essere oggettivamente debole, con le sue ripetizioni facili facili ("The moment you know, you know you know")
Ma in realtà è proprio nei suoi capolavori minimali della trilogia berlinese, che Bowie giunse al culmine del suo percorso alchemico sulla forma canzone pop: nell'apice della ricerca sperimentale ha trovato la chiave del segreto per la conquista trionfale del mainstream, pochi anni dopo.
Mi spiego meglio.
E' anche giocando su le ripetizione di "You" e "I" che si è raggiunta l'epica essenzialità di "Heroes".
Gli anni di Berlino sono, come tutti sanno, non sono solo quelli della magnifica trilogia
( "Low", "Heroes" e "Lodger") ma sono anche quelli della resurrezione di Iggy Pop, di cui il Nostro co-scrive e produce le due gemme di delirio, "The Idiot" e "Lust for life", i cui bagliori luciferini ancora illuminano le performance dell'Iguana come vette intramontabili.
Ora, non tutti ricorderanno che il repertorio del Bowie inizi anni'80, del Bowie idolo romantico delle folle, che si contendeva con Lady Diana le prime pagine dei giornali, che duettava in giacca e cravatta con Tina Turner...ebbene quel repertorio proveniva dalle oscurità subconscie del garage ermetico berlinese.
Gli stessi versi sussurati dal Bowie compassato che scalava le classifiche, erano quelli pochi anni prima urlati come un animale torturato dall'Iggy post-rehab.
L'oltraggio della controcultura diventa ritornello canticchiato da tutti sotto la doccia.
Questo è genio (torniamo a Baudelaire, "creare luogo comune è genio").
 Una delle chiavi del genio bowieano è proprio nel estendere all'infinito la tensione romantica (attraverso una teatralità eccessiva, quasi dannunziana) per poi discioglierla con sofisticata ironia in una imponderabile ambiguità.
Una sorta di versione pop della "sospensione del tragico" di Carmelo Bene.
Ad esempio, qui lo troviamo come un attore alla Bogart ("and i felt like an actor", potrebbe essere messo in calce ad ogni sua esibizione dal vivo), in un vertice di commozione romantica pura (1.22), che si svela "parodia della vita interiore" (come appunto si disse di "Nostra Signora dei Turchi"), spazzata via dalla folle ironia di "TAKE ME TO THE DOCTOR!"






Stavolta, invece, niente giochi, niente infingimenti.
Un cosmo di riferimenti, di autocitazioni, di gloriose memorie, dissolto in un purissimo dolore esistenziale.
  E' per questo motivo che "Where are we now" è un brano insieme intelligentissimo, elaboratissimo e commovente, pur essendo all'apparenza banale.



Ora, non intendo fare l'avvocato di uno degli artisti più venerati del pianeta.
Preferisco invece approfondire una questione estetica che riaffiora ogni qual volta una vetusta autorità (non solo nel rock) scende dal pantheon per rigettarsi nella polvere bruciante dell'agone artistico.
Come già ho fatto nel breve passato di questo blog, porrò come pietra di paragone per guidare la riflessione, l'icona più enigmatica, prima dello stesso Bowie, della cultura pop contemporanea: Bob Dylan.

Chiarisco, non lo faccio perché Dylan è per me il più grande artista popolare del Novecento.
Lo faccio, perché egli E' (è stato e sarà) la pietra di paragone, l'esempio, l'antesignano, il modello, il padre da uccidere, la vetta da raggiungere e, se possibile, da superare, per tutti i grandi mostri sacri, Bowie incluso.
Egli è letteralmente il mito dei miti, la leggenda delle leggende, l'idolo degli idoli (e lui che ama così tanto il Vecchio Testamento e, in esso, il Cantico dei Cantici riconoscerebbe l'eco cabalistica di tali iperboli).
Non lo dico io, lo dicono, o lo hanno detto, loro:  Lennon ("Dylan mostra la strada"), Mc Cartney e tutti i  Beatles, gli Stones con i loro ripetuti omaggi fin dalle copertine dei loro dischi storici, Hendrix con la sua venerazione espressa in numerose cover (non solo "All along the Watchtower"),  Springsteen che in questo discorso gli elenca tutti meglio di me, facendo risparmiare a me e a voi un sacco di tempo prezioso...
Ed è per questo che per me è il più grande artista popolare del Novecento.

Dylan é l'archetipo della rockstar, semplicemente perché é stata la prima, almeno in senso moderno.
 Il primo a essere protagonista di un documentario, il primo a essere oggetto di una attenzione maniacale dei fan e ossessiva dei media (non parlo delle fan starnazzanti per i Fab Four, parlo di Alan Weberman che con lui inaugura il costume apice del voyeurismo da fandom, rovistare nella spazzatura dei divi), il primo ad avere la libertà artistica di fare un disco doppio, con una traccia che copriva un'intera facciata...il primo a divenire non solo un idolo pop (come Elvis),  o un fenomeno di costume (come i Beatles) ma un simbolo culturale, a dare alta dignità artistica e intellettuale a quelle che erano considerate canzonette...a portare la "poesia nei juke-box", secondo la celebre definizione di Allen Ginsberg.


Il rapporto tra Bowie e Dylan è complesso e fecondo, come il dialogo tra due enormi personalità artistiche logicamente prevederebbe. E non parlo del famoso primo incontro (che smentì il verso "Though i don't suppose we meet" nel brano di "Hunky Dory") riportato nell'infausta intervista del 1976, in cui l'ipertrofia cocainomane di Bowie si scontrava col silenzio della Sfinge dylaniana.
Sono gli artisti che (assieme al loro amico comune, per uno maestro per l'altro allievo, Lou Reed) hanno incarnato enigmaticamente la trasformazione alchemica, l'incessante divenire artistico, la lotta del genio contro la mediocrità.
Bowie nel clamore quasi programmatico ("Ch-ch-ch changes!") dei capovolgimenti di stile, del gioco delle identità, insieme Fregoli e Amleto dei generi e non solo dei travestimenti.  
Dylan, meno spettacolarmente, ma piu' interiormente, cantore costantemente in cammino, arso nella ricerca, perennemente al bivio di ogni percorso mistico, viandante e bagatto, toccato dalla grazia del volo poetico e al contempo incatenato al peso della sua stessa dolente sapienza. Entrambi albatri baudeleriani, le cui ali da gigante hanno divelto le reti della ciurma giornalistica a colpi di capolavori e provocazioni.
Entrambi hanno sofferto nelle loro carni il loro ineluttabile e irreparabile divenire icona.

E' interessante notare, in due personalità così grandi e così diverse, praticamente la stessa reazione, uguale e contraria, alle invariabili etichettature mediatiche che negli anni li hanno claustrofobicamente accerchiati: qui Bowie (4.22), qui Dylan.

In entrambi agisce (come ebbe a dire Battiato parlando di Dylan) una potenza mantrica.
Non solo nei confronti dei loro ascoltatori (sempre citando Bowie nell'omaggio a Dylan: "His words of truthful vengeance/They could pin us to the floor" e ancora "And you sat behind a million pair of eyes
And told them how they saw") ma anche e soprattutto nei confronti di sè stessi.
E' come se il potere evocatore del genio poetico chiedesse, nelle carni stesse dell'artista, il dazio per aver estratto oro dal fango del caos interiore.
Bowie, che si faceva ritrarre mentre scimmiottava quel pericoloso cialtrone di Crowley, comprenderebbe bene quello che sto tentando di dire.
Con suprema e spiazzante ironia esistenziale (sigillo dell'attenzione degli Dèi),  il karma inchiodò il Duca Bianco, ben prima del suo battesimo da novello alter-ego, alla mostruosa incontrollabilità del proprio mito.
Si ritrovò a fare i conti con platee oceaniche che gli rinfacciavano beffarde lo stesso interrogativo da lui posto a Dylan nel suo inno da fan tradito: "Now hear this Mr.Bowie...ask your good friend Ziggy/ If he'd gaze a while/ Down the old street". Ma ben altro inquietante prodigio avvenne.
Il  Bowie scheletrico, solo e tremante nella lussuosissima casa di Los Angeles, posseduto dalla cocaina e dalla paranoia per la magia nera (custodiva la pipì nel frigo perchè temeva che Jimmy Page, un altro che pagò caro la seduzione crowleyana, la usasse per rubargli l'anima in riti di magia nera),  quel Bowie carnefice di sè stesso, alienato più che alieno, travolto dalla sua fama, divenne l'incarnazione spettrale, l'incubo realizzato dell'epitaffio di Ziggy Stardust: "Making love with his ego, Ziggy sucked up into his mind".
Come già detto di F.Scott Fitzgerald, Bowie divenne posseduto dagli incubi che egli stesso aveva liberato.
E fu solo Berlino porta di salvezza, rivelandosi  un mastodontico forno alchemico a cielo aperto, dove rinascere nel miracolo dell'ennesima trasformazione.

Concludendo il discorso da dove avevamo iniziato, non possiamo pretendere che il "nuovo" pezzo di artisti così irriducibilmente iconici, possa avere la freschezza, l'impatto e la potenza rivoluzionaria dei loro capolavori di 40 o 50 anni fa.
Non si può ri-ottenere l'effetto devastante di "Like a rolling stone" o di "Ziggy Stardust", dopo averle scritte.
Non per mancanza d'ispirazione. Dico sempre che dal sottovalutatissimo Dylan "in crisi" degli anni '80 si potrebbe estrarre un greatest hit da far invidia a tanti cantautori lodati a sproposito.
Il motivo è semplice: non si può non fare i conti con la propria grandezza.
Avendo creato, di fatto, una nuova epoca, un nuovo linguaggio, Bowie e Dylan, mutatis mutandi, diventano i T.S.Eliot di sè stessi, cercando nella "Terra Desolata" della loro anima e della loro opera i frammenti con cui puntellare le proprie rovine.
L'aveva già capito Bowie estraendo dieci anni dopo un nuovo classico, "Ashes to Ashes", dallo spin-off  del suo battesimo incandescente, "Space Oddity".
Ha poi alluso al gioco costantemente, fino ad esplicitarlo in "The pretty things are going to hell".
La gioventù fiera e oltraggiosa che doveva annunciare il Superuomo nietzscheano ormai se n'è andata all'inferno.
E così Dylan, lontano dalle smancerie borghesi e furbastre di Mc Cartney che porta il cane a fare la pipì sulle strisce pedonali di "Abbey Road" (per i complottisti  confessione in codice della sua morte), ha lottato con genio per non diventare il poeta alessandrino di sè stesso.
Ha così rovesciato nel disincanto e nell'amara ironia gli inni immortali, per scardinare la prigione in cui il suo stesso altare si era trasformato: dal furore profetico di "The times they are a-changin'" si passa al sarcastico cinismo di "Things have changed", dal canto abusatissimo di "Knockin' on Heaven's door" al passo trascinato dello stanco vagabondo spirituale in "Tryin' to get to Heaven".

Ci aspettiamo molto da "The next day".
Speriamo che il Duca sia di parola, come lo è stato il Maestro con l'ultimo album "Tempest".
Di questo e di altro, parleremo prossimamente.




martedì 4 dicembre 2012

L'Ultima Thule (part II)


Come promesso, nella seconda parte di questa recensione, costretta dalle circostanze a ampliarsi in una riflessione più generale, inizieremo il confronto tra  i tre grandi campioni del cantautorato nostrano: Francesco De Gregori, Fabrizio De Andrè e, per l'appunto, Francesco Guccini.
Stiamo parlando di tre figure alle quali molti di noi sono legate come a feticci adolescenziali, divenute, più o meno meritatamente e più o meno volontariamente, icone artistiche di generici ideali "progressisti", cantori della ribellione, alfieri della protesta, spesso con faciloneria nobilitati dell'investitura di "poeti".
Chi scrive, come credo molti fra i lettori, conosce a memoria ogni canzone dei tre, e, in diverse fasi della propria esistenza, ne ha magari prediletto uno rispetto agli altri due. Al netto delle proiezioni personali dell'ascoltatore, è certo un fenomeno interessante, dettato probabilmente dalle differenti consonanze che lo stile e le tematiche di ciascuno dei tre artisti possono ispirare nelle diverse età interiori che ognuno attraversa.

Scontato che si potrebbero scrivere 18 libri su un tema del genere, gettiamoci senza troppi indugi in quella che vuole essere una comparazione per quanto possibile sintetica, ma non per questo superficiale.

Francesco De Gregori 
ovvero dell’ermetica furbizia

Essendo romano, e altezzosamente fiero d'esserlo, il mio campanilismo esce sinceramente frustrato dal confronto tra i tre.
De Gregori (pur non potendo negare il valore di alcune sue composizioni) è sicuramente il meno originale e autentico dei tre, il più convenzionale nella forma-canzone, il più vincolato ai modelli stranieri (nel suo caso dichiaratamente ed evidentemente, Dylan, ma non solo).
E' soprattutto (peccato gravissimo per chi scrive) il più in posa, il più "convinto", il più presuntuoso.

Dei tre, non nascondiamocelo, è anche quello il cui successo, e ruolo storico, è legato a motivazioni banalmente extra-artistiche. Il giovane De Gregori, con la sua vocetta sognante e la sua barbetta poetica, ha giocato molto sul suo personaggio da "Principe" (magari non azzurro, ma rosso), sulle cui dolci note potevano sospirare le giovani "compagne" senza sentirsi delle adolescenti cretine come le loro amiche che sentivano Baglioni (almeno lui era un onesto autore di canzoni d'amore d'ispirazione popolare, spesso con soluzioni melodiche per nulla scontate).
Alcuni esempi? "Buonanotte fiorellino", oltre a essere uno sfacciato calco da "Winterlude" di Dylan (furbescamente andò a copiare un pezzo minore e sconosciuto in fondo ad un album impopolare come “New Morning”), è sicuramente una canzone gradevole, ma non azzardatevi a chiamarla poesia  (“gli uccellini nel vento non si fanno mai male/ hanno ali più grandi di me”).

"Vabbè", si obietterà, "è una canzone d'amore...anche Dylan ha scritto versi sdolcinati.."
Per carità, in "Sara", accanto a gemme poetiche, ci sono versi imbarazzanti ("Glamorous Nymph with arrow and bow"), in "Is your love in vain?" chiede alla donna di lui innamorata se sa cucinare e cucire, negli anni più recenti "To make you feel my love" è talmente smielata da sembrare una parodia scritta dal Zappa di "Freak Out!"(ed è diventata, come molti "scarti" di Dylan, brano di successo d'altri cantanti, nella fattispecie Billy Joel)...

Addirittura, Woody Allen prese in giro il ritornello di "Just Like a Woman"in "Io e Annie", dove riesce a smontare in pochi minuti i due grandi miti intoccabili (i Beatles nella loro ingenua e modaiola devozione per i falsi guru,e Dylan nel suo sacrale status di poeta e profeta).
5.18:



Certo.
 Ma a parte, che Dylan ha esordito scrivendo grandiose canzoni d'anti-amore ("It ain't me, baby", "Don't think twice, it's alright", "I don’t believe you"), mentre ancora Lennon & Mc Cartney starnazzavano "I wanna hold your hand" (nel celebre episodio in cui li iniziò all'erba Dylan si meravigliò che non l'avessero mai provata, avendo creduto che l' "i get hiiiiigh" della canzone fosse un messaggio in codice...tortuosità del genio!)...
... però dopo ha scritto alcuni dei più alti versi d'amore, non solo del rock, in brani come  “Love Minus Zero/No Limit”, “Tomorrow is a long time”, "Wedding song"...
canzoni  che De Gregori si sogna di scrivere forse sotto l'effetto incrociato di stramonio e LSD. E lo sa benissimo, visto che le studia e rielabora da 40 anni.

Dylan, soprattutto, è autore universale (per i motivi addotti nella prima parte).
Ma non lo dico io.
 E' stato per questo omaggiato da tutti i più grandi come un modello assoluto (da Lennon a Hendrix, da Bowie Mc Cartney, dagli Stones a Lou Reed, per non parlare degli U2 e di tutti i cantautori dopo di lui in genere)
Ma è universale anche nel senso che ha scritto per tutti, da Michael Bolton ai Kiss
E quindi ha scritto di tutto.

E' vero, qualche volta anche De Andrè ha scritto cose melense, ma dobbiamo risalire a fine anni'60.
Guccini, ad esempio non ne ha scritte (o pubblicate) mai (a essere cattivi forse "Lui e Lei", che ha comunque una sua dignità di ritratto d'amore giovanile).

Cohen addirittura è caduto nell'eccesso opposto, canzonando sardonicamente i ritornelli idioti delle canzoni d'amore, e delle ciance sentimentali da coppia in crisi ("I need you, I don't need you").
 Parliamo di "Chelsea hotel #2” (trovate la traduzione, approssimativa a mio modesto giudizio, qui:http://cohen.altervista.org/drupal/?q=node/31 ), indelicatissimo ricordo della scomparsa Janis Joplin.
Un pezzo inspiegabilmente cinico e volgare,  da parte di un signore dei sentimenti nobili, cantore spregiudicato, eppure colmo di pudore, della sensualità, un poeta quasi in mistico raccoglimento davanti alla bellezza femminile




Insomma non è da tutti, ma soprattutto non è da un gentiluomo quale senza dubbio Cohen è, ricordare una ex amante appena morta (oltreché celebre) iniziando la canzone col ricordo delle sue gesta orali, e poi terminare dicendo di non pensarci in realtà molto spesso.

Ma, per non essere accusato di critiche capziose, vorrei estendere l'accusa di banalità, o quantomeno di facile furbizia, anche ad uno dei grandi "capolavori" di De Gregori
Dico, avete presente "Viva l'Italia", l'inno patriottico dell’intellighenzia “de sinistra”?!!
Vi domando io: se il verso “viva l'italia che s'innamora" l'avesse cantato Toto Cutugno o Mino Reitano, sarebbe entrato nelle antologie scolastiche, o comunque sarebbe mai stato accostato anche solo ad una delle lettere che formano la parola: "poesia civile"!?!
Va detta però una cosa: se è vero che De Gregori ha sempre, se non copiato, attinto a mani basse dalla miniera dylaniana (ma nei '70 anche da Cohen e Simon & Garfunkel), bisogna riconoscere che l'ha sempre ammesso, riconosciuto, dichiarato, dalle interviste al look, dagli accordi ai testi,  fino addirittura al modo di cantare.
Non parlo solo del vezzo dylaniano, ripreso anche da Lou Reed, di massacrare dal vivo i propri classici rendendoli irriconoscibili, per impedire alla gente di cantarli in coro come fossero in chiesa.
E' addirittura imbarazzante il tentativo di imitare la pronuncia nasale e smangiucchiata del Dylan classico, in alcuni concerti, che rende quasi inintelleggibile, nella versione live di “Musica Leggera”, il testo di "Pablo".
Una canzone sopravvalutatissima, scritta con Dalla, che ebbe la fortuna d'uscire per caso la settimana dopo la morte di Neruda, diventando così del tutto casualmente un inno politico.

Una fedeltà, quella di De Gregori al modello dylaniano,  premiata da  in occasione della cover di “If you see her, say hello” (“Non dirle che non è così”), inserita da Dylan nella colonna sonora di “Masked & Anonymous”, con tanto di nota in cui il cantautore romano viene definito dal Maestro “italian folk hero”.

Possiamo tagliar corto affermando che il De Gregori migliore è quello che applica, da bravo scolaretto, la lectio dylaniana, variando sulle corde del sarcasmo, del disprezzo, 
dell'indignazione: si pensi a "Vecchi amici" (che è praticamente “Positevly 4 yh street” con il refrain di "Like a rolling stone"), a "Scacchi e tarocchi", a "Vai in Africa Celestino"  (praticamente la traduzione di "Everything is broken"), brani in cui il veleno dylaniano è distillato in un dettato aspro e chioccio, molto efficace.
Pregio presente anche in "Bambini venite parvulos", in generale in tutto "Miramare 19.4.89" 
Nel caso di un altro ottimo album, "Canzoni d'amore"l'omaggio al modello, chissà se inconscio, è stato per una volta più sottile.
 Intitolando così un disco improntato quasi solo all'indignazione civile,  De Gregori ha operato il gioco inverso a quello di Dylan, che a chi chiedeva canzoni di protesta rispondeva intonando canzoni d'amore non corrisposto. Due esempi a memoria:  lo fece nel ’65 con sarcasmo provocatorio  ai fan inglesi. che gli avrebbero gridato "Judas!", con la beffarda"Leopard- skin pill-box hat”, dieci anni dopo, con più complice ironia, con la commovente "Oh, sister".

Concludendo su De Gregori, nel migliore dei casi, abbiamo un ottimo allievo di un grande maestro, in ritardo però di almeno 20 anni.
Nel peggiore, un saccente scolaretto che gioca a fare Dylan che giocava a fare Rimbaud, con risultati nettamente inferiori.

Tocchiamo qui un capitolo dolente: l'ermetismo dei cantautori anni'70. Vale a dire, il diritto di poter scrivere (con la scusa della licenza poetica) dei testi sostanzialmente senza senso.
Una sorta di quadro bianco d'artista moderno improvvisato in forma di canzone. 
Siccome non voglio fare la figura della moglie di Alberto Sordi che alla Biennale si siede sulla sedia à là Duchamp  in "Vacanze intelligenti", è opportuno fare dei distinguo, come se ne dovrebbero fare tra Francis Bacon e un qualsiasi cretino che buchi le tele o in-techi (e non mantechi) i propri escrementi.
Un conto sono le "catene di immagini lampeggianti" che Ginsberg invidiava a Dylan, in cui dall’ accostamento sperimentale d’inedite associazioni d’idee potevano nascere illuminazioni poetiche.
Altro conto è scrivere la prima cosa che ti viene in mente e dargli un tono poetico.
 Per affermare la differenza abissale basterebbe menzionare un verso solo:
 "the sky cracked its poems in naked wonder"
 tratto da “Chimes of Freedom “(canto di liberazione universale per cui veramente His Bobbiness si meriterebbe un Nobel) .
Ma prendiamo anche il Dylan più oscuro, lisergico, apparentemente incomprensibile: 
“The harmonicas play the skeleton keys and the rain”
 alla fine di “Visions of Johanna”.
E’ un verso pieno di suggestioni sonore, oltreché visionarie, che è superiore per musicalità e potenza ai deliri di Ginsberg, a tutti i beat, e tanta poesia americana ignara o indifferente verso gli equilibri formali classici.

Prendiamo invece una strofa del De Gregori classico, quello di “Rimmel”.
“Sig. Hood”, canzone dedicata (“con autonomia”) al Marco Pannella dei tempi eroici, appena reduce dalla vittoria del referendum sul divorzio:
“E adesso anche quando piove,/ lo vedi sempre con le spalle al sole, /con un canestro di parole nuove calpestare nuove aiuole, /con un canestro di parole nuove calpestare nuove aiuole. /E tutti lo chiamavano Signor Hood /ma il suo vero nome era spina di pesce,/ E tutti lo chiamavano Signor Hood”.

No comment.

Su questo devo scomodare un genio contemporaneo (è un'anticipazione di un omaggio a venire), un disegnatore che amo con trasporto quasi erotico (le sue opere, intendo): il magistrale Tuono Pettinato.
C'è una striscia pubblicata da XL per i 60 anni di Bowie, in cui egli sfotte, con sapiente ironia, la seconda strofa di "Life on mars?!" :
"It's on Amerika's tortured brow/ That Mickey Mouse has grown up a cow/ Now the workers have struck for fame/'Cause Lennon's on sale again/ See the mice in their million hordes/ From Ibeza to the Norfolk Broads/ Rule Britannia is out of bounds/To my mother, my dog, and clowns". ( "E' sulla fronte torturata dell'America/ Che Topolino è diventato una mucca/ Ora i lavoratori hanno scioperato per la fama/Perché Lennon è di nuovo in vendita/ Guardate i topi nelle loro milioni di orde/ Da Ibiza alle Norfolk Broads/"Rule Britannia" è stato messo al bando/ Per mia madre, il mio cane e i clown" , traduzione tratta da http://www.velvetgoldmine.it/testi/hunkydory.html dove trovate anche note esplicative)


Versi apparentemente senza senso, ma che ne acquistano pensando che Bowie sta elencando i pensieri confusi della bambina protagonista della canzone,  mescolando con la sua lunare fantasia ricordi distorti e frasi fraintese dal megafono straniante dei media.
Ma la stoccata funziona. C'è un'altra storia di Tuono Pettinato  ("Buckethead e la Malasanità") che è pertinente. La trovate in "Apocalypso, Tuono Pettinato-gli anni dozzinali", opera che sta al Nostro come "The piper at the gates of dawn" sta ai Pink Floyd .
Questa storia è la nemesi dei cantautori che vengono per sempre etichettati come l'opposto di quello che vorrebbero essere, inchiodati alla loro canzone più famosa (es. Dylan con "Blowin'in the wind",  Guccini con la "Locomotiva"). 
Questo karma artistico viene conclamato in una spassosa vignetta, dove Pino Daniele paga il fio del suo recente sputtanamento commerciale, vedendo la sua "Tazzulella 'è caffè", che nasceva come satira al vetriolo dei luoghi comuni su Napoli, proprio come emblema di quegli intollerabili stereotipi .
Ben gli sta, per aver scritto il distico peggiore della storia di tutte le letterature: "Che Dio ti benedica/che f..." , scusate non voglio scriverlo!
Come gli ammiratori hanno detto d’ogni personalità forte ed esuberante (da Cesare a Napoleone, da Mussolini a Chinaglia), Tuono Pettinato anche quando apparentemente sbaglia, alla fine ha sempre ragione!!

Una delle, tante, benedizioni artistiche di Guccini, è che questo sterile vezzo ermetico non lo ha mai avuto.
L'utilizzo della forma classica della ballata lo avrà reso apparentemente monotono, ma lui certo non ha mai avuto bisogno di rifugiarsi negli sperimentalismi ambigui.
Un vizio a tratti anche di De Andrè,  soprattutto a metà anni'70,  guarda caso proprio durante la collaborazione con De Gregori, nel disco “Volume 8”.
Si dice che De Andrè temesse d'aver ricevuto dal collega romano gli scarti dei testi di "Rimmel".
Riposa in pace, Fabrizio.
Non è che:
 “Vorrei sapere, quanto è grande il verde /come è bello il mare, quanto dura una stanza/ 
è troppo tempo che guardo il sole, mi ha fatto male " (“Oceano” da “Volume 8”)
 sia tanto peggio di:
“Ma mio padre è un ragazzo tranquillo/ la mattina legge molti giornali è convinto di avere delle idee/ e suo figlio è una nave pirata/ e suo figlio è una nave pirata” 
(“Le storie di ieri”, presente sia in “Rimmel “ cantata da De Gregori, che in “Volume 8” cantata da De Andrè)


Fabrizio De Andrè
il cantore dei cattivi divenuto santino dei buoni

De Andrè: snobbato per anni e dopo la morte divenuto un santino anarchico, anche lui vittima della potenza delle sue parole, più forti della suo essere selvaticamente refrattario a miti e bandiere.

Al colmo delle esagerazioni, Fernanda Pivano, lo definì il “più grande poeta del Novecento italiano”.
Del resto, c'è chi ha accostato la Silvia di Leopardi a "Albachiara" di Vasco.
E qui mi fermo, altrimenti contraddirei il mio primo post in cui ho affermato di essere contrario alle bestemmie...

Vogliamo tutti bene alla Pivano, che tradusse Lee Masters,  Fitzgerald, i beat e Dylan  in italiano, ma era certo una persona facile alle iperboli.
 Definì’ Dylan “L’Omero del XX secolo”, per poi dire "sarebbe necessario che invece di dire che Fabrizio De André è il Bob Dylan italiano si dicesse che Bob Dylan è il Fabrizio De André americano", facendo commuovere il cantautore genovese.
Nella parabola della simpatica scrittrice c’è tutta la decadenza della cultura di sinistra in Italia.
Una carriera iniziata con Pavese, continuata incontrando Hemingway,  Kerouac  e Burroughs ,  e finita incensando Ligabue.

Una differenza fondamentale nella personalità creativa di De Andrè lo fa il rapporto con le influenze, nel suo caso molteplici e tutte d'alto livello.
Il De Andrè degli anni '60 è senza dubbio sotto l'influenza  dei cantautori in lingua francese, Brel e Brassens sopra tutti, ma anche Cohen (Dylan lo scoprirà relativamente tardi)

Ora, se siete arrivati fino a qui avrete capito che amo le digressioni, e probabilmente non vi dispiacciono molto, altrimenti mi avreste già inviato mail piene di sputi telematici.
E' obbligatorio un omaggio a uno dei più grandi artisti popolari del Novecento (non solo come cantautore ma anche come interprete): Jacques Brel.
Non francese, ma fieramente belga.

Brel, come si suol dire, dà una pista (ma di quelle da maratona) a la stragrande maggioranza dei cantautori a lui contemporanei (in tutto il mondo).
Ribelle vero in tempi non sospetti (parliamo degli anni '50), fu creatore di melodie indimenticabili, dal respiro popolare eppure dalla raffinata composizione. 
Rinomata è la precisione maniacale dei testi, traboccanti della capacità autenticamente poetica di cogliere oscuri nodi interiori ed restituirli in versi memorabili.
Fu soprattutto una creatura poetica, un uomo in cui ogni fremito nervoso, ogni intensa espressione facciale esprimevano sentimenti profondi, reali, ardenti.
Un'artista fonte di verità umana.
Nemico d'ogni improvvisazione, del mito romantico dell'ispirazione, in questo d'accordo con Baudelaire, Brel era un artista dalla rara consapevolezza creativa:



Brel ha scritto forse la preghiera d'amore più bella del mondo:  "Ne me quitte pas".
Se è vero che Gigi Proietti lo ha magnificamente canzonato come 
emblema dell'esistenzialismo intellettualoide francese:



è pure vero come diceva il già citato Baudelaire: “Creare luogo comune è genio”.
Chissà che avrebbe pensato il grande poeta , lui che negli stessi appunti di questo aforisma, divideva  l'umanità in  due categorie: uomini e belgi …

E poi, l'incontenibile, drammatica, inarrivabile presenza sul palco di Brel. In confronto alla sua intensità dal vivo, Iggy Pop (che infatti lo ama) è un composto pianista da “Piano bar” (ah, altra canzonetta di De Gregori...).
Basti confrontare le due versioni di "Amsterdam"
quella straziante e travolgente di Brel




con quella, pur degna, del cantante che ha portato all'epitome la teatralità nel rock, cioè Bowie, così intelligente da studiarlo e omaggiarlo:

Pagato il giusto tributo all'amato Jacques, torniamo al buon Faber.
Il legame di De Andrè con la canzone francese è così profondo da approdare e legarsi alla tradizione letteraria delle ballate medievali di Francois Villon (“La ballata degli impiccati” e “Il testamento”) ma anche da raschiare dal barile dei moralisti del '600.
In tanti anni, pochi si sono accorti di come il verso forse più bello e proverbiale di "Bocca di Rosa" (“Si sa che la gente dà buoni consigli/ quando non può più dare cattivo esempio”) sia un furto dal moralista supremo, La Rochefocauld.  Furto astutamente attenuato dal "si sa,."...


Ma poi, a differenza di De Gregori, pur procedendo a tentoni tra varie influenze, il cantautore genovese ha saputo creare una propria forte e inconfondibile personalità autoriale.
E’ stato, soprattutto, sempre coerente e integrato con la sua poetica, incentrata su l'identificazione col diverso, in tutte le sue più grottesche e tragiche declinazioni: l’ oppresso, l’  umiliato e offeso,  l'alienato, “sfruttato represso calpestato odiato” (insomma tutti gli aggettivi del fratello figlio unico di Rino Gaetano).
Una sorta di “Desolation Row” (da lui tradotta miseramente sempre con De Gregori, fino a cambiarne addirittura il senso) lunga tutta una carriera, un microcosmo anti-borghese abitato da icone popolari quali il matto, il tossico, il fallito, la puttana,  il trans, il nano, quest'ultimo anche nelle sue versioni meno apprezzabili: il nano che si vende la madre, (anzi compra quella altrui),  il nano giudice infame.

Nel primo caso il riferimento ovviamente è a una delle più riuscite "commedie umane" balzachiane in tre minuti del primo De Andrè: “La città vecchia”.
Canzone nata non solo come atto d’amore per il porto malfamato di Genova, ma per divenire ritratto e manifesto dell’umanità che popolava quei vicoli brulicanti di vita e peccato.

Nel secondo caso,( “Un giudice” ) assistiamo alla vetta espressiva dell'odio di De Andrè verso l'autorità in genere,.
Un tema ricorrente  (si pensi a “Il Bombarolo" o a "Il pescatore”),  espresso stupendamente nel verso di un'altra canzone dello stesso album,  "Un medico"
"un giudice, un giudice con la faccia da uomo".
Differenza antropologica dei giudici...ricordate chi l'ha detto?!!
Del resto Silvio e Faber cantavano sulle navi insieme...

Fa ridere come tale atteggiamento di rivolta contro la giustizia istituzionale abbia come padri nobili Bakunin e Malatesta, e  come ignobili eredi attuali Sallusti e la Santanchè.
Torniamo  al rovesciamento pasoliniano operato dal Potere, analizzato nel primo post:
gli opinion leader dell’opposizione localizzati a sinistra parlano di autorità e legalità;
Travaglio, De Magistris, Di Pietro (nel suo caso fin dal nome del partito),  in un paese normale sarebbero figure di destra, di una destra liberale e legalitaria;  la destra, invece, attacca la Giustizia e predica la “libertà”, con rivendicazioni e linguaggio da anarchici, non da ex-fascisti, men che mai da moderati.
Qui mi è imposto il richiamo al più grande analista politico degli ultimi 20 anni.
Ovviamente, Corrado Guzzanti:




L'originalità e la grandezza di De Andrè sono molto nell' aver cantato la cruda realtà dei sottofondi, con una simbiotica aderenza formale.
Pur attingendo, come visto, a destra e a manca (ma il tesoro della canzone popolare è stato ed è, oggi più che mai, saccheggiato a piene mani dallo stesso Dylan), De Andrè è stato in grado di creare, e incarnare, dei "tòpoi" validi per il cantautorato mondiale.
Se ci pensiamo  un attimo, “Where the wild roses grow" è la versione dark e omicida de
 “La Canzone di Marinella”.
Tornando a Baudelaire, nella misura in cui Faber ha creato qualche luogo comune, dobbiamo riconoscerli un certo genio.

Anche qui, già che ci siamo, spazziamo via un pò di stereotipi.

De Andrè, rinomato per i toni depressivi e funebri, ha in realtà aperto le porte della satira nel cantautorato, componendo col suo grande amico Paolo Villaggio la famosa parodia di Carlo Martello (graziosa anche l'altra composizione dei due, "Il fannullone").
Gustatevi quando avete tempo i suoi cattivissimi e divertentissimi ricordi.

                                        

Altro grande merito storico, è quello d'aver messo  l'attenzione sui "Vangeli Apocrifi", nel disco "La Buona Novella", anche se operando un'umanizzazione della storia evangelica troppo facile. Un rovesciamento che può si deliziare gli anti-teisti, ma oltre ad essere disturbante per i credenti, è debole e forzoso anche per gli atei onesti.

Il limite di De Andrè è stato quello (comune a tanti grandi artisti "contro") di ridursi alla "pars destruens", e quindi ad esaltare sempre comunque ciò che è oscuro, diverso, illegale.
Certo,  nell' Italia ipocrita e democristiana ipnotizzata dal benessere, benedette le voci coraggiose e discordanti che hanno mostrato l'altra faccia della medaglia.
Ma ora, con distacco storico, possiamo riconoscere che si tratta d'un vizio romantico, di un limite di visione. Per contestare ciò che formalmente è Bene, si simpatizza, spesso forzosamente, per ciò che è Male.
Del resto, il rapporto di De Andrè con la spiritualità è stato alterno, non sempre fecondo, viziato da filtri ideologici (o antideologici che dir si voglia).
Parlo dell'opera, non della santità laica sfiorata nel perdono ai rapitori che lo avevano sottoposto ad un umiliante prigionia assieme alla moglie (rievocata nella fin troppo celebrata "Hotel Supramonte").

E' da sottolineare, osservando la sua lunga produzione, un paradosso illuminante.
De Andrè è sempre stato un autore irriverente, irreligioso, anticlericale, spesso blasfemo.
A volte gratuitamente come in "Coda di Lupo", a volte programmaticamente come ne "Il Testamento di Tito" (brano in cui il rovesciamento polemico dei Dieci Comandamenti  non appare sempre convincente).
Però, se andiamo a vedere la prima traccia del primo disco e l'ultima dell'ultimo sono entrambe "preghiere".

La prima ("Preghiera in gennaio" si dice ispirata dalla morte di Luigi Tenco) così commovente e intensa da vincere  l'effetto datato degli archi e del birignao.

(A PROPOSITO, VI  SVELO UN SEGRETO:
se amate fare parodie oscene di canzoni famose, De Andrè è una manna dal cielo: il tono serio e malinconico, la pronuncia lenta e staccata delle sillabe, la voce impostata, il susseguirsi di rime interne e baciate, tutto congiura a creare tempi comici devastanti.
Usate questo consiglio con cura preziosa, mi raccomando.)

La seconda, "Smisurata preghiera", è il vero testamento spirituale di De Andrè.
E' uno dei vertici della sua maturità poetica.
Una sintesi finale dei diversi stili della sua carriera, dove c'è l'abilità di intagliare versi perentori e perfetti, da manifesto eterno:
 "per chi viaggia in direzione ostinata e contraria/ col suo marchio speciale di speciale disperazione/ e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi/ per consegnare alla morte una goccia di splendore / di umanità, di verità".

Una "Chimes of Freedom" senza visione, un auspicio sospeso tra pessimismo e scaramanzia, ma comunque una preghiera di giustizia. Giustizia che nel finale, coerente con lo scetticismo d'una intera vita, viene considerata, quasi gnosticamente, "un'anomalia".
Una carriera di bestemmie circolarmente conchiusa da due preghiere.


Ma va riconosciuto a De Andrè soprattutto il grande valore di essersi reinventato, con grande lungimiranza,  a inizio anni'80. Prima che i suoi grandi modelli  (come Dylan e Cohen) flirtassero, registrando alterni esiti, con videoclip e sintetizzatori, De Andrè  con "Creuza de ma" mostrava la via dell'l'impasto etnico e  strumentale, donando alta dignità poetica al vernacolo genovese.
In anticipo netto (come riconosciuto da tutti) sul Paul Simon di "Graceland" e su quell' artista benedetto di Peter Gabriel, in uno dei suoi capolavori, "Passion" (Dio lo abbia in gloria anche, solo per il semplice motivo d'aver fatto conoscere all'Occidente la più bella voce in natura, Nusrat Fateh Ali Khan!)

Dobbiamo concedere a De Andrè il dono di aver saputo estrarre dal magma di una ispirazione spesso approssimativa e limitata (la poetica degli esclusi), comunque, dei versi di grande potenza e di profonda incisività, degni d'essere entrati nella memoria collettiva.

Sottovalutato per anni, esageratamente incensato dopo, De Andrè rimane un cantautore importante, che ci lasciato in dono alcuni brani d'intatta bellezza, e che anche nei suoi esperimenti meno riusciti, ha mantenuto alta la barra della ricerca.
Un esempio di coerenza e di perfetta aderenza tra forma e contenuto.
Negli ultimi scampoli di questo infernale Kali Yuga, merita d'essere messo sull'altare.

E Guccini?
Al Guccio (a ai motivi della sua superiorità!) sarà interamente dedicata la terza parte del nostro discorso.
Vi posso solo anticipare questo:
 De Gregori lo amavo a 13 anni, De Andrè a 20. 
Guccini ora, e per sempre.

venerdì 30 novembre 2012

L'Ultima Thule (part I)




Nella scorsa settimana si sono succeduti una serie d'anniversari ed eventi che
meriterebbero un'attenta riflessione per l' innegabile impatto culturale delle figure ad essi collegate: l'anniversario della nascita di Baruch Spinoza e di William Blake, della morte di Freddie Mercury, i 70 anni di Jimi Hendrix, il ritorno di Gascoigne all'Olimpico ...
Avevo però già deciso di parlare dell'ultimo disco di Guccini, argomento che apparentemente potrebbe interessare solo i devoti seguaci del Maestrone (tra i quali fieramente m'iscrivo), ma che avrebbe comunque rappresentato un evento, considerando che il suo disco precedente risaliva a otto anni fa, e che stiamo parlando  di una figura veneranda nel nostro panorama musicale. 
Quando poi nella giornata di ieri il Guccio ha dichiarato che questo non è il suo ultimo disco in ordine cronologico, ma è proprio l'ultimo in assoluto, la scelta m'è parsa obbligatoria.
Non è una notizia che ci sconvolge a livello razionale, visto che già dai tempi di "Eskimo" (prima che io nascessi!) , aveva avvertito: "Ed io ti canterò questa canzone/ uguale a tante che già ti cantai/ ignorala come hai ignorato le altre/ che poi saran le ultime oramai".
E poi aveva ribadito, esplicitamente, il desiderio "nell'anno '99 di nostra vita",  in una delle sue 
vette assolute, "Addio"


Nonostante ciò, pur avendoci avvertito con 34 anni d'anticipo, e ribaditolo 13 anni fa, la notizia segna uno spartiacque improvviso nella storia della musica italiana.
Per cui dalla semplice recensione credo che il discorso possa divenire bilancio d'una intera, impareggiabile carriera, espandendo la riflessione all'intero cantautorato italiano, al suo senso, alla sua eredità.
Quindi confronteremo, per sommi i capi, i principali cantautori italiani classici (De Andrè, De Gregori e, appunto, Guccini), in relazione anche alle loro influenze ai loro maestri comuni, da Leonard Cohen ai cantautori francesi, fino, ovviamente, a Bob Dylan.

ATTENZIONE.
 Mi rendo conto di aver menzionato per la prima volta in questo blog Bob Dylan.
E' necessario aprire una parentesi esplicativa.
(Dunque, l'ho aperta: 
non sono per nulla una persona modesta, nel senso etimologico di moderarsi e contenersi. Preferisco essere umile, parola dall'etimo stupendo, che riporta all'humus, alla  Terra che sostiene e feconda; cioè riconoscere la presenza di persone migliori di me, in vari sensi, e abbassare il mio ego dinanzi a loro.
Per cui, posso pacificamente riconoscere che ci sia chi ne sa infinitamente  più di me sui fumetti; egualmente, penso che ci siano molto probabilmente persone più preparate di me sul cinema; posso senza dubbio accettare che ci sia qualcuno più esperto di me di letteratura o di filosofia, certo...
ma su Dylan NO!
In un mondo equo e giusto io sarei il detentore della cattedra di filologia dylaniana ad Harvard.
Ecco.
Volevo dirvelo.)

Mi sembra doveroso iniziare il nostro confronto proprio con Guccini.

Guccini è stato per ormai tre generazioni molto più di un cantautore.
E non parlo degli slogan roboanti di retorica: "la voce di una generazione", "il cantore della protesta"...e tutte le etichette che da 50 anni incombono come una mannaia, da Dylan in poi, su chiunque abbia preso una chitarra e provato a dire qualcosa di sensato.
Parlo di qualcosa di molto più prezioso, intimo, eppure concretissimo e presente 
per chiunque lo abbia ascoltato a fondo.

Guccini è stato la porta verso la ricerca, l'esempio nel pensiero, l'alchimista delle emozioni.
 Il maestro della parola nel momento in cui dichiara l'inesprimibilità del vero, l'umile artigiano che testimonia lo splendore dell'arte, l'amico che ti fa gioire d'ogni momento dell'esistenza mentre ne proclama l'incomprensibile vanità, l'agnostico irriverente in grado d'esplorare le profondità dello spirito.
Un cicerone paterno e divertito che ha ci ha accompagnato nella percezione dei sentimenti ineffabili, un professore logorroico ma amabile che ci ha iniziato ai capolavori della letteratura d'ogni tempo e luogo, l'intuizione che ha schiuso le porte di infiniti collegamenti culturali, una matrice inesauribile di stimoli intellettuali e interiori.
Un punto di riferimento certo proprio nel ricordarci il segno costante dell'incertezza, uno sherpa affidabilissimo nel disseminare il suo, e nostro, percorso di dubbi e interrogativi.
Più di tutto, una guida onesta e sommamente discreta nel difficile cammino di conoscere noi stessi.
E tutto questo senza boria alcuna, al contrario con l'ironia e l'umiltà di chi si sente perennemente a disagio, imbarazzato non dico dallo stare sotto i riflettori, ma dalla stessa presunzione d'affermare alcunché.

Nell'Italia di Rita Pavone e Caterina Caselli (a cui comunque dobbiamo dire grazie per averlo lanciato), lui scriveva canzoni ispirate a Salinger, citava T.S.Eliot e omaggiava Gozzano.

Eppure, se chiediamo al pubblico medio, Guccini, come Dylan,  è considerato ancora il cantautore impegnato, di sinistra, un pò depressone, pesante etc...
Un pregiudizio che resiste quasi 40 anni dopo "L'avvelenata", celeberrima canzone in cui si smarcava con orgoglio e coraggio (usando il turpiloquio quando era ancora proibito) dalle etichette, dai luoghi comuni, dai paraocchi ideologici.
Uno sfogo, come si sa, scatenato da una recensione "leninista" di Riccardo Bertoncelli: "Voi critici, voi personaggi austeri, militanti severi, chiedo scusa a vossìa/però non ho mai detto che a canzoni si fan rivoluzioni, si possa far poesia;/io canto quando posso, come posso, quando ne ho voglia senza applausi o fischi:/vendere o no non passa fra i miei rischi, non comprate i miei dischi e sputatemi addosso..."



A risentirla ieri"L'avvelenata", la canzone oltraggiosa, divertente, liberatoria, beh veniva quasi da piangere...riascoltando i versi finali "ho tante cose ancora da raccontare per chi vuole ascoltare" nel giorno in cui il Guccio appende definitivamente la chitarra al chiodo perchè, dice, "manca la voglia e l'entusiasmo" di scrivere canzoni.
Una canzone da qui però deriva la percentuale residua di luogo comune  su Guccini: il casinista ubriacone, il poeta attaccato al fiasco, santo patrono delle osterie e dei canti notturni avvinazzati. Non a caso il Guccio negli ultimi concerti metteva in palio 500 euro a chi avesse abbattuto istantaneamente chi ne richiedeva a voce alta l'esecuzione.
Ora, che il vino abbia tanto spazio nell'ispirazione, e nella vita privata, di Guccini è innegabile. Ma apprezzare le sue canzoni perché era un bevitore, sarebbe come apprezzare "I fiori del Male" perché Baudelaire era un puttaniere.

In questo ossessivo e disperato tentativo di scrollarsi di dosso etichette e miti, non possiamo non vedere la prima grande analogia con Dylan.
Se noi chiediamo a chiunque chi sia Bob Dylan, la prima risposta sarà molto probabilmente: "un cantante di protesta".
Si, il cantante di protesta, che cantava con Joan Baez contro il Vietnam.
I più informati parleranno della svolta elettrica, qualcuno addirittura si spingerà all'incidente in motocicletta. Incidente avvenuto nel 1966.
Al di là delle esagerazioni, nella mente d'ognuno (filologi pazzi come me esclusi,ovviamente) c'è il Dylan protestatario, ribelle, dallo sguardo torvo e dalla voce nasale che campeggia indignato sulla copertina di "The times they are a-changin'", il menestrello profeta di "Mr. Tambourine man", o al massimo il Dylan elettrico e mercuriale di "Like a rolling stone" e "Just like a woman", posseduto da un ispirazione nervosa e visionaria, quello per intenderci
interpretato da Cate Blanchett in "I'm not there" (un vero prodigio come una delle donne più affascinanti del pianeta sia stata in grado di incarnare credibilmente un nano rachitico!).



E' interessante notare che se Guccini scrive "L'avvelenata" nel 1976, Dylan qualche anno prima scrisse "My back pages", uno dei suoi capolavori assoluti, in cui prendeva le distanze dal falso mito di sè stesso nel ritornello immortale:"Ah, but I was so much older then / I'm younger than that now".
Era il 1964. 48, quasi 49, anni fa.

Ora è vero che nel caso di Dylan (ed è valido anche per Guccini), il potere di questi luoghi comuni immarcescibili deriva anche dalla dirompente forza e bellezza dei suoi esordi.
Dylan (come il Welles di "Citizen Kane") è stato condannato dalla benedizione di aver raggiunto l'eccellenza assoluta subito.
Avendo goduto di una connessione Fastweb con l'Inconscio Collettivo per i primi anni della sua carriera (in pochi mesi tra il '63 e il '64 ha sfornato un numero di capolavori tali da riempire 7 carriere gloriose), egli ha passato gli ultimi 45 anni della sua carriera a sfuggire la condanna di divenire il poeta alessandrino di sè stesso.
Un'intera carriera passata a sputare sul proprio mito, a resistere alle sirene che lo volevano imbrigliare nelle definizioni di icona generazionale.
Definizioni da lui divertitamente elencate nello stupendo primo capitolo del suo vero ultimo capolavoro, la sua autobiografia "Chronicles":  "Leggenda, Icona, Enigma (Buddha vestito alla Europea era il mio favorito), Profeta, Messia, Redentore".
Un grido collettivo magnificamente espresso da Bowie in "Song for Bob Dylan",  (tratta da "Hunky Dory",il disco di "Changes" e "Life on Mars?" per intenderci): "Give us back our unity/Give us back our family/ You're every nation's refugee/ Don't leave us with their sanity".




Un gemma di Bowie incastonata fra gli omaggi mimetici ai suoi altri due grandi ispiratori, Andy Warhol (nell'omonima canzone, a quanto pare odiata dal destinatario), e Lou Reed (in "Queen Bitch", probabilmente la canzone più cool della storia, in cui l'ammirazione da fan si trasforma in rivalità fra checche imperiali ).



E' interessante notare come solo dopo aver pacificato i fantasmi dei suoi idoli con aperti tributi, Bowie saprà liberarsi dalla loro ombra ingombrante, e manifestarsi finalmente  nel doppio leggendario di Ziggy Stardust.

Dylan per sfuggire a questa prigione concettuale farà veramente di tutto:  inscenare la famosa svolta elettrica di Newport, tempio del folk di cui era l'eroe e il dio, del'65 (gesto più punk della storia, perchè sputo rivolto non alla autorità di altri, ma alla propria); pubblicare appositamente un disco bruttissimo per allontanare i fan da sè, l'infausto"Self-portrait" (celebre il commento di Greil Marcus: "What is this shit?"); concedere l'autorizzazione a una banca per usare in uno spot l'inno profetico "The times they are a-changin'" (beffa suprema, cantato da Richie Havens, il cantante simbolo di Woodstock che su quel palco improvvisò "Freedom"); apparire in una reclame di Victoria's secret; guidare trasmissioni radiofoniche su tutta la musica antecedente agli anni'60, cioè al proprio avvento artistico, cancellando di fatto la sua rivoluzione etc...
Sul gesto più clamoroso (molti di voi avranno già capito) vale la pena sottolineare una coincidenza illuminante: tutti conosciamo "Fear and Loathing in Las Vegas" il romanzo di H.T.Thompson (da cui è tratto l'omonimo film-culto con Johnny Depp e Benicio del Toro) .
Libro, tra l'altro, dedicato proprio a Dylan, per aver scritto "Mr.Tambourine Man".

A un certo punto, per commentate sarcasticamente la devozione dei Beatles per quello che si sarebbe rivelato un falso guru, Thompson chiosa con una battuta:
"Era come se Dylan fosse andato in Vaticano a baciare l'anello del Papa."
Come dire, la cosa più assurda del mondo.
Sappiamo tutti che ciò è successo, nel '97 (io c'ero, per Dylan ovviamente, fui visto da molti in televisione mentre facevo gestacci tra le mandrie inneggianti di Papa Boys).
Molti potranno commentare la cosa come il compimento spettacolare di un tradimento, la consacrazione che Dylan si è "venduto".
Per me, invece, si è trattato della massima manifestazione della natura, come già detto, mercuriale di Dylan
L'intuizione del film "I'm not there" (per quanto progetto dichiaratamente incompiuto e non riuscito) di rappresentare il cantautore americano con sei personaggi differenti, in quanto personalità troppo molteplice e sfuggente per essere inscatolata in una figura unica, è brillantemente corretta.
Dylan è il Bagatto dei Tarocchi. 
Ed è un emblematico, incorreggibile Gemelli.
Proprio come Guccini.

FINE DELLA PRIMA PARTE.