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domenica 20 gennaio 2013

Il non-senso di colpa

Tra i manzoniani venticinque lettori di questo blog si annoverano senza dubbio alcune tra le "menti migliori della mia generazione" (per citare, come amo definirlo, un noto ciccione invertito).
E' per me un onore ricevere attenzione e consigli da persone verso le quali nutro, al di là della divergenza d'opinioni anche su temi centrali, da anni profonda stima intellettuale.
E' il caso di Emanuele Sabetta.
Col suo gentile permesso, riporto integralmente un suo lungo e interessante commento su Facebook relativo al mio articolo su "Trama" di Ratigher che trovate qui
Per onestà devo ricordare ai lettori che trattasi di un intervento su un social network,  quindi la forma e l'organicità dello scritto non sono quelle che Emanuele avrebbe conferito se avesse pensato di pubblicarlo su un blog. 
Concludo questa doverosa introduzione riferendovi un suo cortese auspicio: "Spero che le mie stupide farneticazioni possano risultare noiose il meno possibile per il tuo pregevole pubblico."
Onestamente credo che solo uno stupido farneticante potrebbe trovarle noiose.

Per questa volta preferisco dare spazio nel post principale al contributo di Emanuele (titolo del post e i grassetti sono miei, quest'ultimi per facilitare la lettura), la mia risposta la trovate in calce. Buona Lettura

COMMENTO DI EMANUELE SABETTA

Finalmente ho avuto tempo di leggerla anche io. La recensione di Adriano è gustosissima. Anche se non ai livelli di quella stellare e perfetta dedicata a “Gli scarabocchi di maicol&mirco”, devo dire che le vertigini da piani alti della giostra intellettuale dell'universo del Conte ci sono anche qui. Lo scandagliare non pedissequo dell'opera è interrotto da suggestivi riferimenti alla letteratura del '900 e ad alcuni memi cult della cultura pop, pur senza appesantire l'analisi, che si legge d'un fiato. 

Adriano mi ha chiesto di essere sincero e di dire anche quello che non mi ha convinto. Un invito che raramente rifiuto, in quanto la ricerca delle critiche è indice di grande onestà intellettuale. Come diceva Nietzsche: "Si corrompe di sicuro un giovane, se gli si insegna a stimare chi la pensa come lui di più di chi la pensa diversamente." Ecco le poche cose che mi hanno lasciato perplesso:

1) L'assenza di riferimenti al film "Cane di Paglia" di Peckinpah, la cui storia e' quasi un "Trama" ante-litteram. Da vedere secondo me se è piaciuto Trama.

2) Trovo poco evidenziato il tema a mio parere tra i più importanti dell'opera, lo stesso tra l'altro del film di Peckinpah, ovvero che ogni uomo nasconde a se stesso il suo lato oscuro, il suo essere accomunato a tutti gli esseri umani da una natura che è null'altro che un mostro irrazionale e violento, un mostro che se messo all'angolo, in una condizione di crisi da cui non può uscire razionalmente, assiste al crollare del castello di carte delle finzioni morali e sociali che lo maschera disvelando il suo vero volto. In Trama questo si spinge anche più in là che nel film con Dustin Hoffman, suggerendo allo spettatore che l'irriducibile follia umana, al pari della morte, e' la "livella" con cui tutti, senza distinzioni, debbono confrontarsi, e che una volta "toccata con mano", confuta l'ingenuo snobismo delle classi agiate nei confronti di coloro che percepiscono meno "sani" (in senso pitagorico) e che emarginano dal loro mondo sperando di dimenticare ed esorcizzare il fango da cui tutti proveniamo e a cui tutti ritorneremo.

3) Mi ha stupito trovare citata la vecchia tesi del senso di colpa come originatosi culturalmente dalla propaganda cristiana. E' una posizione a mio parere oggi poco difendibile. Il senso di colpa e' una emozione biologicamente primitiva che si e' dimostrata esistere anche nei primati oltre che nell'uomo (il famoso esperimento della raccolta della banana che causa la scossa all'altro scimpanze', facendo sentire in colpa lo scimpanze' che l'ha raccolta e inibendone l'azione di raccogliere la banana in futuro), ed e' un effetto secondario dell'istinto di altruismo reciproco scoperto da Trivers (1971). Tre decenni fa Trivers intui' che la capacità di provare senso di colpa doveva essersi evoluta per aiutare le persone nel mantenere buona la loro reputazione, senza la quale sarebbero espulsi dal branco riducendo le loro probabilità di sopravvivenza. In seguito l'economista Robert Frank (1988) spiegò perché il senso di colpa non poteva essere solo finto dall'individuo ma doveva essere reale: se non fosse stato costly-to-fake nessuno gli avrebbe creduto (la stessa ragione per cui ci si fa del male piangendo, ovvero stringendo le palpebre al punto da causare irritazione e arrossamento degli occhi, in modo da mandare un segnale onesto di sofferenza con un costo così alto che solo in casi di vero bisogno ha senso usare). La conferma sperimentale giunse con due studi che avevano per soggetto giochi di accordi sociali ripetuti, compiuti da Ketelaar & Au (2003), e che inoltre effettuando una serie ripetuta di sedute del Dilemma del Prigionero su un gruppo di soggetti ignari, misurarono che la propensione a cooperare dei soggetti che erano stato sottoposti ad una esperienza che induceva senso di colpa era molto maggiore (53% di risposte cooperative) rispetto a quella dei soggetti di controllo che non lo erano stati (solo 39% di risposte cooperative). Inoltre i soggetti che avevano scelto in precedenza di non cooperare, si mostrarono quelli che in seguito erano più motivati a cooperare, mostrando come il senso di colpa si sia evoluto anche con la funzione di spingere gli esseri umani a compensare le perdite di reputazione precedenti. L'universalita' dell'emozione del senso di colpa nelle varie culture umane, indipendentemente da religione e linguaggio, e' stata dimostrata in uno studio su oltre 50 culture diverse in tutto il mondo da Paul Ekman (1999), quindi non darei molto peso all'aneddoto indiano. Successivi studi nel campo della neurologia hanno individuato nella regione della corteccia orbitofontale il gruppo di neuroni specializzati nella attivazione del senso di colpa. Pazienti con danni a quella regione del cervello non riuscivano piu' a provare rimorso e senso di colpa nel violare norme sociali (Damasio, 2003). La modellazione matematica (Lindbeck et al. 1999; Mengel 2008) ha mostrato come fosse vantaggioso per un individuo sociale (come noi primati) evolvere un meccanismo che non solo gli facesse provare rimorso dopo la violazione di una norma morale, ma che tale rimorso dovesse diminuire se altri del suo gruppo compissero la medesima violazione in quanto le sanzioni da parte del gruppo diventerebbero meno severe in quanto ogni individuo del gruppo avrebbe una maggiore probabilita' di avere nel proprio network di amici qualcuno che ha violato la norma. Questo trovo' corrispondenza nei test su soggetti reali, che infatti si sentivano meno in colpa di violare una norma quando vedevano altri fare lo stesso (Traxler C, Winter J, 2009).
4) Non e' corretto a mio modesto parere neanche dire che il senso di colpa si sia originato culturalmente con il cristianesimo. Gia' Platone nel quinto secolo prima di cristo fondava la validita' della sua etica sull'esistenza del rimorso di coscienza. Nel 2° libro della "La Repubblica" Platone narra il mito dell'anello di Gige, il famoso anello capace di dare l'invisibilità e quindi l'impunità totale a chi lo indossa. Per dimostrare che un uomo non dovrebbe compiere una ingiustizia a proprio vantaggio anche se indossa tale anello, Platone sostiene l'esistenza di un senso di giustizia dimenticato, che se recuperato liberandosi dall'ignoranza, porterebbe gli uomini ad avere coscienza che invece l'agire in quel modo non porta alcun vantaggio, in quanto danneggiando la comunità si danneggerebbe indirettamente anche se stessi (tale tesi di Platone lascia molto a desiderare, lo so, ma ancora oggi gode di grande popolarità). Per Platone gli uomini con tale coscienza sarebbero quindi tutti gli uomini, e quelli apparentemente privi di tale coscienza in realtà non ne sarebbero privi ma non sentirebbero il rimorso di coscienza solo perché avrebbero dimenticato (per colpa del solito fiume Lete) l'idea di Giustizia al momento di nascere. Le fantasiose speculazioni dei Platonici erano comunque perlomeno più vicine al vero di quelle degli esistenzialisti, che invece o portavano il senso di colpa all'estremizzazione quasi messianica (come Dostoevski), o, Camus su tutti, si produssero in speculazioni dell'assurdo mostrando l'uomo come capace di essere privo del tutto di rimorso, indifferente all'ingiustizia come lo è l'universo (come il personaggio Meursault ne "Lo Straniero", 1942) o il senso di colpa come la causa stessa dell'ingiustizia (come il personaggio Clamence ne "La Caduta", 1956). Nietzsche, che viene spesso impropriamente liquidato come esistenzialista (cosa falsissima), aveva visto come al solito lungo, e aveva colto in pieno il problema affermando che i filosofi avevano per troppo tempo scambiato la psicologia e gli umori del corpo per principi di verità purtroppo poi rivelatisi "umani, troppo umani". Non posso non citare a riguardo il brano "Dei Pregiudizi dei Filosofi" (Al di Là del Bene e del Male, 1886) del supremo martellatore tedesco, dove Egli indica con intelligenza profetica l'evoluzione degli istinti per la conservazione della specie come fonte occulta delle suggestioni della metafisica dei filosofi di ogni tempo:

"[...] Dopo avere, abbastanza a lungo, letto i filosofi tra le righe e riveduto loro le bucce, misono detto: occorre ancora considerare la maggior parte del pensiero cosciente tra le attività dell'istinto, e anche laddove si tratta del pensiero filosofico; occorre, a questo punto, trasformare il proprio modo di vedere, come si è fatto per quanto riguarda l'ereditarietà e l'«innatismo». Come l'atto della nascita non può essere preso in
considerazione nel processo e nel progresso dell'ereditarietà, così l'«esser cosciente» non può essere "contrapposto", in una qualche maniera decisiva, all'istintivo, - il pensiero cosciente di un filosofo è per lo più segretamente diretto dai suoi istinti e costretto in determinati binari. Anche dietro ogni logica e la sua apparente sovranità di movimento stanno apprezzamenti di valore, o per esprimermi più chiaramente, esigenze
fisiologiche di una determinata specie di vita. Per esempio, che il determinato abbia più valore dell'indeterminato, che l'apparenza sia meno valida della «verità»: simili apprezzamenti, con tutta la loro importanza regolativa per "noi", potrebbero, pur tuttavia, essere soltanto apprezzamenti pregiudiziali, una determinata specie di "niaiserie", come può essere appunto necessaria per la conservazione di esseri quali noi siamo. [...] Quel che ci stimola a guardare, con aria tra diffidente e sarcastica, tutti i filosofi, non consiste nel fatto che si scopre continuamente quanto essi siano ingenui - quanto spesso e con quanta facilità si ingannino e si smarriscano, insomma nella loro puerilità e nel loro candore - bensì nel fatto che non c'è in loro sufficiente onestà: pur levando, tutti quanti sono, un grande e virtuoso strepito, non appena, anche soltanto da lontano, viene sfiorato il problema della veracità. Fanno tutti le viste d'aver scoperto e raggiunto le loro proprie opinioni attraverso l'autonomo sviluppo di una dialettica fredda, pura, divinamente imperturbabile (per differenziarsi dai mistici di ogni grado, che sono più onesti di loro e più babbei giacché parlano d'«ispirazione»): mentre invece, in fondo, una tesi pregiudizialmente adottata, un'idea improvvisa, una «suggestione», per lo più un desiderio interiore reso astratto e filtrato al setaccio vengono sostenuti da costoro con ragioni posteriormente cercate - sono tutti quanti degli avvocati che non vogliono farsi chiamare tali e in realtà, il più delle volte, persino scaltriti patrocinatori dei loro stessi pregiudizi, cui dànno il battesimo di «verità» [...] è tempo, infine, di sostituire la domanda kantiana, «come sono possibili giudizi sintetici "a priori"?», con un'altra domanda: «Perché è "necessaria" la fede in siffatti giudizi?» - cioè è tempo di renderci conto che tali giudizi devono essere "creduti" come veri al fine della conservazione di esseri della nostra specie; ragion per cui, naturalmente, potrebbero anche essere giudizi "falsi"! Ovvero, per parlare più chiaro, rudemente e radicalmente: giudizi sintetici "a priori" non dovrebbero affatto «essere possibili»: non abbiamo alcun diritto a essi, nella nostra bocca sono giudizi falsi e nulla più. Salvo il fatto che è indubbiamente necessaria la credenza nella loro verità, in quanto credenza pregiudiziale e immediata evidenza che rientra nell'ottica prospettica della vita.[...]".

E ancora più direttamente, nella seconda introduzione a "La Gaia Scienza" scriveva:

"[...] L'inconscio travestimento di necessità fisiologiche sotto la maschera dell'oggettività, dell'idealità, della spiritualità pura si spinge sino a limiti orripilanti, e spesso mi sono domandato se, detto grossolanamente, la filosofia fino ad ora non sia stata altro che un'interpretazione del corpo e un fraintendimento del corpo. Dietro i più alti giudizi di valore dai quali fino ad ora è stata guidata la storia del pensiero sono nascosti fraintendimenti della costituzione fisica, sia del singolo, sia dei ceti o addirittura delle razze. Tutte le ardite follie della metafisica, in particolare le sue risposte alla domanda sul valore dell'esistenza, si possono sempre considerare sintomi di determinati corpi; e se globalmente a tali affermazioni o negazioni del corpo non si può attribuire nemmeno un briciolo di significato, esse pur tuttavia forniscono allo storico e allo psicologo tanti preziosi suggerimenti in quanto sono, come abbiamo detto, sintomi del corpo, del suo riuscire e fallire, della sua pienezza, potenza, autodominio nella storia, ma anche dei suoi impedimenti, stanchezze, impoverimenti, del suo presentimento della fine, della sua volontà di finire. Io continuo ad aspettarmi che un medico filosofico nel senso non comune del termine — ovvero che si dedichi al problema della salute globale di popolo, tempo, razza, umanità — abbia finalmente il coraggio di portare alle sue estreme conseguenze il mio dubbio e di osare questa affermazione: fino ad oggi, tutto il filosofare non è stato «verità», ma qualcos'altro, diciamo salute, futuro, crescita, potenza, vita [...]" 
o e del corpo, i cui scopi sono da ricercarsi non certo nell'idea di Giustizia platonica, bensì nell'aver un tempo conferito un vantaggio selettivo durante l'evoluzione dell'homo sapiens, ed è quindi in questo molto meno affidabile di quanto lo si voglia dipingere, presentandosi in certe circostanze e non in altre, per il solo tornaconto dei geni che ne codificano l'espressione e a discapito di tutti gli altri. Ben lontano quindi dall'ideale che Platone sognava quando scriveva la sua politeia. Anzi, come diceva il (sempre) giustamente citato carmelo Bene, l'Etica non ha senso di colpa, in quanto l'Etica ideale (diversa da quella reale con la e minuscola, quella che è estetica travestita) è scevra da influenze fisiologiche.

5) Ultima ma non meno importante: non ho trovato alcun riferimento nella recensione del Conte agli spunti iniziatici che pure costellano l'opera di Ratigher. Sono troppi per citarli, ma sicuramente i meno abilmente celati sono l'edificio a sette gradini e con sette porte del non-filosofo-anti-star, chiaro riferimento alla scala dei sette cieli interiori che deve attraversare l'iniziato, la caduta dalla scala associata subito all'atto sessuale come simbolo della conoscenza proibita raggiunta, la discesa nelle viscere della terra per il completamento dell'opera al nero (V.I.T.R.I.O.L.) seguendo la barca di bimbo-fango-fama nel ruolo di psicopompo, ruolo che mercurialmente gioca fin dall'inizio per condurre i due (che sono in realtà uno, le due parti maschile e femminile dell'anima platonica) alla "via del sol" iniziatica che costituisce in ultima analisi la vera matrice di Trama, il cui scopo finale è emblematicamente rappresentato dal prendere nelle proprie mani la testa mozzata, il godhead, il caput corvi, la testa perduta di Orione il folle, di Ganesha signore dell'AUM, il sole dell'ora e dell'adesso, così come Esau tagliò la testa a Nimrod ed Erode al Battista

Non vedo l'ora di leggere prossime recensioni, di certo altrettanto stimolanti intellettualmente (cosa rara di questi tempi), e appena ho un poco di tempo lo farò con piacere. Grazie tantissimo. 

RISPOSTA DEL CONTE

Carissimo Emanuele, 
è già per me un onore e una vittoria aver destato una discussione di livello simile con un mio articolo.
Prima di risponderti, voglio dirti che sinceramente (sai quanto io non sia affatto una persona modesta) mi inchino alla tua erudizione e alla solidità delle tua argomentazioni. L'unica altra persona verso la cui sapienza provo simile ammirazione è il nostro comune amico Daniele Capuano (che spero un giorno fregi il blog dei suoi preziosissimi contributi).
Volevo risponderti di getto, ma gli impegni mondani che tutti ci attanagliano, più improvvisi ostacoli tecnologici, hanno cospirato per farmi elaborare una più meditata risposta. 
Eccoci dunque:
1) Grazie per aver mantenuto la promessa, onorando il monito del nostro amato Federico. 
Certo, "Cane di paglia" è pertinente, un film importante quanto forte. Non so quanto sia un'ispirazione consapevole, dovrebbe illuminarci l'autore. Credo, come ho scritto, che la sua sia stata un'operazione indipendente da un preciso riferimento, l'impressione è che abbia preso una "trama", appunto, vista infinite volte in film, libri e fumetti noir/horror e l'abbia innervata delle tematiche camusiane che tutti abbiamo riconosciuto. Ma per l'appunto, solo il nostro amico Ratigher può illuminarci.

2) Sono d'accordo con la tua analisi. Credevo d'aver toccato l'argomento attraverso la citazione di Fitzgerald, in particolare del racconto che menziono fin dal titolo del post, dove appunto il rapporto tra morte e ricchezza, e la illusoria follia di "controllare" la vita e la morte da parte delle classi agiate viene esposta e scandagliata fino al delirio finale. Comprendo comunque il rilievo sulla necessità di una maggiore esplicitazione.

3-4) Qui ci divertiamo. E'il nodo secondo me sia del mio articolo che del tuo commento, perché credo sia evidentemente quello dell'opera in questione. E' un tema assai delicato, è facile che le parole assumano un'ambiguità ingannevole. Chiariamo un equivoco subito: quando parlo di senso di colpa non parlo del naturale, "giusto" (qui Federico avrebbe da ridire) rimorso conseguente ad un'azione gratuitamente malvagia, o che comunque crea dolore e sofferenza ad altri. Parlo di un'attitudine generale, di una oppressione interiore, di una sovrastruttura "a priori", che secondo me è specificamente stata creata a tavolino nella cultura paolina. 
Mi spiego: nel Platone che tu citi il Male è problema centrale. Nel X libro della "Repubblica" troviamo il famoso mito di Er, in cui troviamo la giustificazione metafisica dell'esistenza del Male. Ora, in Platone come già in maniera differente nei tragici, il Male assume un carattere non lontano da Ananke, cioè di necessaria presenza connaturata alla riottosità della materia "non ordinata", che nemmeno il Demiurgo riesce ad informare di purezza ideale.
Come già accennato, il senso di colpa in un certo senso permea tutta la tragedia greca, ma ravviso una radicale diversità rispetto a ciò che intendo. Il concetto di Hybris (il superamento di quelle che nella cultura indiana vengono chiamate maryadas, i limiti del giusto comportamento, le barriere del Dharma) e quindi di necessaria Nemesis, al netto delle esaltazioni romantiche della figura prometeica o dell'Ulisse dantesco, ha un suo preciso senso di giustizia divina. Hai superato i limiti, vieni punito (sto parlando concettualmente, al di là del fatto che questi limiti siano giusti o meno, siano legge divina o sovrastruttura ideologica di una casta sacerdotale).
Non è il peccato originale, connaturato ontologicamente come marchio metafisico alla condizione umana. Nella visione cristiana c'è per me un surplus di "colpa" rispetto alla visione platonica della necessaria (quindi paradossalmente innocente!) mescolanza di caos congenita alla materia. Il Nostro amato Nietzsche, se è vero che nella sua genealogia della morale (intendo non il libro ma la sua ricostruzione della storia della filosofia morale) attacca sia Socrate (dunque Platone che lo filtra) che Gesù (o meglio  Paolo, il gran deformatore, vero fondatore del Cristianesimo storico), nella "Genealogia della morale" (il libro stavolta!) contrappone se non erro la morale giudaico-cristiana a quella greco-romana, vedendo nella prima la vittoria della "morale del gregge" contro la "morale dei signori".
Ancora di più nella metafisica indiana, trovo sublime che quello che spesso viene grossolanamente associato al concetto di peccato cristiano, in realtà sia ignoranza (papam). Quando il sublime Shankara chiede perdono alla Devi per la sua indegnità, ripete "non so, non so". In India (parlo dei mistici non della devozione popolare) non c'è quel rapporto "debitore-creditore" che Nietzsche imputa al Cristianesimo (o meglio di cui il Cristianesimo ha amplificato i termini in misura incolmabile rispetto alla precedente venerazione per gli antenati).

In india non avrebbero mai potuto scrivere un libro come il "Secretum" di Petrarca, in cui c'è credo la rappresentazione migliore di quello che io chiamo "senso di colpa": il "vorrei ma non posso", che si bea della  condizione di peccatore per non risolvere i nodi interiori.
L'anticamera della nevrosi moderna. Se ci fosse stato Shankara, o un qualsiasi autentico maestro orientale, e non il cervellotico Agostino, si sarebbe fatto beffe delle giustificazioni di Francesco, inchiodandolo al suo "dover divenire" specchio della Bellezza dello Spirito.
Io chiamo "senso di colpa" una lacerazione tra mente e cuore, tra consapevolezza e volontà, una comoda "tasca" di giustificazioni che ci consente di reiterare ciò che già coscientemente abbiamo riconosciuto come "errore", 
Il sacramento della confessione ne è la criminale celebrazione, in cui il peccatore si confina nella propria condizione di indegnità, mettendosi a posto la coscienza con una delega spirituale,  moralmente inconsistente, a un intermediario artificiale.
Il senso di colpa previene l'introspezione, delegandola a un interlocutore esterno, minando ogni possibilità di evoluzione interiore. Ci impedisce di ergerci nella nostra dignità di essere liberi.
E' un cortocircuito mente-volontà, un vuoto interiore su cui l'Impero della Chiesa ha speculato con diabolica abilità psicologica. E' tecnicamente un non-senso, da cui il titolo del post.
Al di la di speculazioni, rimane per me l'evidenza che leggendo la "Bhagavad Gita" o l'"Asthavakra Samhita"Shankara o KabirLao Tze  Confucio (ma anche Socrate, secondo me, se si discerne il filtro platonico) non si avverte il peso  oppressivo dell'ossessione del peccato, l'epilessia totalizzante di un Paolo o la morsa irrazionale di un Tertulliano.
Si dissolve il pensiero in una pace sapienziale, si innalza lo spirito in un orizzonte di liberazione che può essere accettabile e di razionale conforto anche per un ateo.
Invece delle smorfie di dolore, del compiacimento morboso della sofferenza che inquina tanti Padri della Chiesa (non tutti, non il grande S.Juan della Cruz, ad esempio), affiora il sorriso distaccato del Buddha, la danza innocente di Ganesha, il gioco divino di Krishna, la gioia cosmica di Shiva.
  Apollo e Dioniso ancora riconciliati prima della divisione platonica.


5) Credo tu sappia quanto la mia formazione, e la mia prosa, siano intrise di riferimenti al simbolismo iniziatico, la mia frequentazione degli archetipi che tu hai correttamente elencato esubera dal mero studio intellettuale per diventare (da anni) faro simbolico di un percorso spirituale. Avendo avuto la grazia di studiare col prof. Giovanni Casoli (di cui i nostri stimatissimi amici Lorenzo Ceccotti e Daniele Capuano ti avranno certamente parlato), sono innamorato della ricchezza etimologica della parola "simbolo" (dal greco sumbolon, derivato dal verbo sumballo, “mettere insieme, far coincidere”), non identica ma affine a quella della parole "religione" (latino re-ligare, tenere insieme), "sinagoga" (dal greco sunagoge, assemblea)e "yoga" (unione, dal sancrito Yuj, aggiogare, legare) etc..
Io credo nei simboli. In questo sono molto medievale, "per visibilia ad invisibilia", sottoscriverei col sangue le parole di Pavel Florenskij che definisce le icone "porte regali" verso l'Assoluto. Nella mia analisi di "Trama" non ho voluto "vedere" in un certo senso quello che tu brillantemente esponi, per limitare la riflessione a quello che credo sia la "fase cosciente" dell'ispirazione di Ratigher. Ciò non toglie che magari mi sono sbagliato, che dietro ci sia uno studio attento della simbologia tradizionale (anche qui solo l'Autore può dirimere la rispettosissima contesa), o che magari mi sono sbagliato comunque, perché non far affiorare in un'analisi elementi che magari solo inconsciamente un artista riversa nella sua opera?
Chapeu, comunque, Emanuele, spero che le mie modeste risposte possano essere soddisfacenti, e che tu possa continuare ad impreziosire questo blog con i tuoi contributi.
E grazie ovviamente a Ratigher, la cui opera ha ispirato una discussione così interessante, almeno per il sottoscritto.
Adriano

martedì 27 novembre 2012

Trama di Ratigher - Una testa mozzata grande come il Ritz





Qualche giorno fa sulla colonna destra della prima pagina del sito di “Repubblica” spiccava, tra i goal di Ibrahimovic in modalità Mazinga e le foto dell’arresto settimanale di Linsday Lohan, il ritratto d’una testa mozzata da un forcone, deturpata dai segni di mille torture, rapita in un’espressione d’orrificato stupore.
Era il link alla pagina di XL, dove poter effettuare il download gratuito dell’ebook di “Trama” di Ratigher, uno degli autori più interessanti degli ultimi anni. 

E’ un evento degno di nota.
Parliamone.

E’ difficile fare una recensione sulle opere Ratigher, addirittura forse inutile.
Non solo perché egli nei suoi comunicati e nelle sue interviste, dietro il velo della sua paradossale ironia, si mostra un brillante e quasi definitivo critico di sé stesso: 



Ma, soprattutto, perché egli sa infondere questa sintesi critica nei personaggi chiave delle sue storie, rendendoli talmente pregni di autocoscienza da diventare la migliore esegesi di se stessi.

Proviamo dunque a dire le cose meno sceme possibile che ci vengono in mente dopo la lettura di “Trama”, senza la pretesa di essere esaurienti o definitivi, ma seguendo il filo delle associazioni che un testo del genere ispira.

Prima cosa da sottolineare è che a Ratigher è riuscito un gioco di prestigio talmente spettacolare da sfiorare la dimensione mistica del miracolo.
Egli prende una trama vista e rivista, letta e riletta, saputa e risaputa, mangiata e digerita in dieci fumetti, cento libri, mille film (in questo senso il titolo è supremamente ironico, quasi si trattasse di una trama talmente nota da divenire la “Trama” per definizione), e riesce a renderla qualcosa di nuovo, originale,  insieme commovente e inquietante.
Non è esattamente una cosa facile.
 Come quoziente di difficoltà credo equivalga è un triplo salto mortale su una corda di nylon tesa sul pozzo di Sarlacc.





Data la mia intollerabile presunzione, credo d’essere in grado di svelare l’ingrediente segreto che rende possibile l’incantesimo stilistico di Ratigher.

E’ qualcosa che appartiene al tessuto primordiale delle fiabe popolari, e che è stato custodito da pochissimi autori negli ultimi anni (Calvino, Borges, Cortazar ad esempio)
Curiosi, eh?!
Chi ama i tre autori citati sopra avrà già capito…

Anche nell’irrespirabile crescendo ansiogeno, nell’acme della scena più disturbante, nel materializzarsi dell’incubo horror, sempre si avverte il dono di una straniante  leggerezza, un distacco narrativo che ricorda la mitezza irreale di Bunuel.

Determinante in questo, è il sapiente uso del flashforward, che sospende (o a volte aumenta) la tensione narrativa, trasfigurando la dinamica degli eventi da inferno vivente a memoria quasi onirica.

Anche qui il miglior commento critico è dell’autore stesso: 

“È un espediente che costringe a rileggere il libro e a darne un’interpretazione propria; non è niente di complicato ma credo che questo piccolo sforzo ripaghi il lettore rendendolo maggiormente partecipe. Lo spiego in breve: alla fine di ognuno dei nove capitoli c’è una tavola che “anticipa” il futuro, fino ad arrivare all’ultimo salto temporale che conduce oltre la fine della storia disegnata. Nella prima stesura della sceneggiatura questo “trucco” non c’era; concludevo ogni capitolo con un climax che spingesse il lettore a non poter interrompere la lettura. Uno stratagemma antico che a me ha sempre catturato. Ho inserito anche i salti temporali perché volevo che la storia fosse pienamente raccontabile solo con il mezzo fumetto. Se venisse infatti tradotto il libro in qualsivoglia altra forma narrativa sono convinto che l’espediente non funzionerebbe altrettanto bene. Del nuovo interesse che gravita intorno alle graphic novel e compagnia bella trovo che l’aspetto più fecondo sia un rinnovato interrogarsi da parte degli autori sulle possibilità esclusive della narrazione a fumetti; ho dato il mio contributo.”
  
Questo accorgimento determina uno strano effetto di accelerazione narrativa, che dà quasi per scontato lo sviluppo della vicenda principale, per differire il mistero su ciò che accadrà dopo.


(in realtà un trucco adoperato già nella altrettanto famosa scena della visione di Bob che attacca la cugina di Laura Palmer in “Twin Peaks” e che si ritroverà anche in “Inland Empire”). 
  
Ratigher ha una capacità magistrale di catturare il tedio, il senso di vuoto  nel quotidiano, lo strisciante disgusto dell’esistenza, che in molti abbiamo esperito, specialmente chi fra noi è stato timbrato con l’ingombrante etichetta di “bambino precoce”.
In “Paura della morte”,  le tavole del bimbo (non ancora trasformato nel personaggio di cui tratteremo tra poco) che ascolta in spiaggia  il dialogo della sua baby- sitter e del suo rude boyfriend,  hanno per me la statura del classico (QUI)

  
Proprio  per questa grande abilità icastica dell’autore, ho trovato, tra le scene più interessanti di “Trama”, quelle paradossalmente escluse dal flusso narrativo. Le poche tavole, cioè, in cui viene rappresentato il party  degli amici ricchi (meta e salvezza mancata dei protagonisti).
In pochi tratti Ratigher mostra la crudele spensieratezza della mondanità opulenta,  la cui vuota allegria fa da controcanto all’incubo del filone narrativo principale, e riesce a rendere in tre passaggi tre (!)  l’aberrante superficialità di un mondo che ci appare degno d’essere distrutto.

Sia l’approccio che l’esito dello sguardo ratigheriano sul mondo dei ricchi si configurano come forze eguali e contrarie alla testimonianza classica di F.Scott Fitzgerald.

Qui le dinamiche sono opposte ai racconti del grande autore americano: disgusto invece di fascinazione, furia invece di desiderio.
Qui abbiamo i personaggi che escono da quel mondo a seguito di una traumatica,  allucinata consapevolezza, al contrario degli antieroi fitzgeraldiani, che invece se ne innamorano irreparabilmente e fanno di tutto per entrarvi, in preda a un sogno ingannevole.
Le conclusioni, però, sono medesime: disperazione e tragedia.

Lungi dall’essere il semplice cantore dell’età del Jazz (sarebbe come ridurre Stendhal a descrittore di paesaggi italiani), Fitzgerald è un gigante della letteratura del Novecento.
E’ uno dei pochi autori  la cui grandezza forse non si intuisce alla soglia dei vent’anni, ma appare mastodontica superata quella dei trenta.
Egli è l’autore che ha disvelato il crudele inganno del benessere, l’abisso interiore della società consumistica, vivendone, dopo averne incarnato la bellezza e il fascino, nella propria anima le cicatrici feroci dell’ illusione. 



F.Scott Fitzgerald

Uno dei tratti del suo genio è quello di rendere l'orrore per la desolante povertà interiore dei “ricchi”, l'ingiustizia fondamentale e la paradossale alienazione della loro condizione, descrivendole dal di dentro della ricchezza. 
Leggetevi “Il diamante grande come il Ritz”, in cui la paranoia, il delirio, l’arbitrio crudele della violenza provengono tutti dalla parte dei “ricchi”.
In questo racconto, Fitzgerald realizza la meravigliosa centratura,  taglia il nodo invisibile del più grande inganno,  denuda il trucco tragico dell'American Dream.
Contemplate il finale grandioso, quasi un delirio pagano in cui il fallimento dei personaggi è esposto sotto l’evidentissima metafora della montagna/diamante, l’apocalisse del materialismo che sprofonda nel suo stesso gorgo.




Fitzgerald, come i suoi personaggi,  non aveva bisogno del Bimbo Fango come giudice, come specchio crudele e ineluttabile della propria vanità.
Lo specchio davanti alla sua putrida deformità lo mise davanti a tutto il mondo, pubblicando nel 1936 sull’”Esquire” i saggi poi raccolti in “The Crack-up”.
Egli è diventato il Bimbo Fango di sè stesso.


Il Bimbo Fango visto da Akab

Appunto, il Bimbo Fango.
E’ questa la creazione cruciale delle storie di Ratigher.

L’autore lo ha definito “ un monito per tutti noi”.
Non dirò nulla sulla genesi del personaggio, per chi non ha letto (c’è il link sopra) “Paura oltre la morte”, più che uno spoiler sarebbe un crimine contro l’umanità.

Però darò per scontato che ne conosciate i tratti fondamentali.

Bimbo Fango crocifigge i personaggi alla loro meschinità, li avvolge nello stesso destino al quale è stato condannato, facendone schiavi eternamente torturati dal loro pavido egoismo.

E’ l’Incarnazione del senso di colpa
Egli si manifesta contaminando il prossimo del senso del peccato, di cui egli è il marchio vivente.
Bimbo Fango è la gogna ambulante pronta a farsi specchio deforme ma limpidissimo d’ognuno (“io vi indosso. La mia pelle è fatta di colpa”).

La sua presenza spietata, sardonica, beffarda diventa, sotto il ricatto della paura e della violenza, un auspicabilissimo obbligo all'introspezione.

Introspezione non solo del malcapitato individuo, ma intesa come analisi implacabile della società-inferno tutta, pullulata di comunissimi inconsapevoli mostri (al rampollo nel dialogo iniziale Bimbo Fango dice “Normale sono io!”)
La mostruosità deforme del Bimbo Fango (orribile, sadico, delatore) non solo è nulla rispetto alla violenza ferina e insensata della gang dei camionisti, ma è soprattutto nulla rispetto alla mostruosità vera, al deserto morale dei “ricchi drogati”, persi nell'”infinita vanità del tutto”.
Un confronto che, se certo non ci fa simpatizzare per gli odiosi camionisti torturatori, sicuramente dà al giudizio inflessibile e spietato del Bimbo Fango una più alta dignità spirituale.
Egli non è solo una super sintesi raffinatissima dei fantasmi horror, è più una versione grottesca e disperante dell’Angelo Sterminatore.
Non a caso, ancora Bunuel.
(a proposito, tutti citano, Woody Allen compreso, la trama del film omonimo come esempio del surrealismo bunuealiano. ma l’idea che l’ha ispirato è di Jose Bergamin…si si proprio, lui, il genio che ha scritto “Decadenza dell’analfabetismo”!)

Straordinariamente interessante è anche il motivo della condanna/trasfigurazione di Bimbo Fango: la sua sincerità.
Sono paradossalmente la sua innocenza e il suo candore a confessarne la colpa. Egli è condannato perché si dichiara colpevole, e si dichiara colpevole poiché è innocente.

C’è un racconto di Villiers De L'Isle-Adam, molto amato da Carmelo Bene (come quelli del già citato Fitzgerald), “Il desiderio di essere un uomo”, in cui il protagonista, un vecchio attore a fine carriera stufo di vivere artificialmente emozioni altrui, vuole togliersi l’immorale capriccio di provare davvero intensamente il rimorso. Per questo, mette a fuoco un quartiere di Parigi, moltiplica stragi, incidenti…eppure nulla s’affaccia a turbare il suo animo.
In uno dei suoi interventi più neri (e discutibili), Bene chiosando sul raccontino, conclude:
“L’etica non ha senso di colpa, ne rimorsi.”(lo trovate QUI)



Carmelo Bene

Perdonate ora una digressione, o meglio un approfondimento, ma siamo arrivati ad un nodo cruciale.
Il senso di colpa è talmente penetrato, come un morbo purulento, nella nostra cultura, da farci credere che esso sia sempre esistito, sia connaturato all’essere umano, alla sua psiche, alla sua coscienza.
E’invece un prodotto a tavolino, scientemente realizzato da menti raffinatissime.
Il  brevetto è della premiata ditta Paolo e Agostino (rispettivamente di Tarso e d’Ippona): il primo ha installato il software, il secondo, secoli dopo, ha realizzato l’upgrade.
E’ evidente a chiunque usi il cervello come il senso di colpa sia in realtà solo un fardello inutile, una comoda giustificazione per continuare a sbagliare, a non affrontar noi stessi e le proprie debolezze, con la nobile scusa di riconoscersi peccatori.
Un cappio untuoso e soffocante, che c’impedisce di ergerci nella nostra maestà d’esseri liberi.
Un marchio che ha ustionato le coscienze come vacche da macello per la grande fattoria globale dell’ impero della Chiesa.
Se la religione è l’oppio dei popoli, il senso di colpa e' la pipa che lo rende inalabile a tutti.
Ma non vale per tutti.
Guardiamo all’Oriente.
Ad esempio, ad un'arrogante mente occidentale la religiosita' indiana  può apparire, col suo complicato e colorato pantheon di caste deita', poco più di una fiaba infantile, dai tratti allegorici elementari
Però, a parte l’orrore anacronistico delle caste e alcune discutibili pratiche folkloristiche concernenti il darsi fuoco in caso di vedovanza, l’ impianto teologico dell’ induismo ha mantenuto una purezza spirituale sostanzialmente intatta.
Si potrà obiettare che il popolo è mantenuto nell’ignoranza, ma lo  è nella semplicità d’ una devozione spontanea colma di poesia e stupore.
Senza incubi infernali.
Senza il ricatto continuo del senso di colpa.

Non sto parlando di differenza culturali in senso alto, accademico.
Non mi riferisco fatto che noi abbiamo avuto i cupi Paolo e Agostino e loro il divino Shankara. O meglio questa differenza non ha segnato solo la storia e l’indirizzo delle rispettive teologie.
Parlo di un abisso che segna profondamente la cultura, i codici, i comportamenti, in breve l’identità di un popolo, anche nel quotidiano.
Non so quanti di voi abbiano avuto occasione di visitare Mumbai, al cui confronto i Quartieri Spagnoli di Napoli sembrano il centro di Lugano.
Ma chi c’è stato potrà confermare ciò che sto per dire.
Un indiano può tranquillamente provare a rubarti il portafoglio, e una volta scoperto, invitarti col sorriso a venire a prendere un the a casa sua.
Non ha senso di colpa. Proprio non c’è, non sanno cosa sia.
Il senso di colpa è una maledizione tutta nostra.
E vero che senza di esso non avremmo avuto Dostoevskij, ma è pure vero che forse Fedor avrebbe avuto una vita più felice.

Tornando a “Trama”, visto che abbiamo parlato di violenza e rimorsi, è il caso di evidenziare una grande finezza formale.

E’ apprezzabilissima la scelta di non mostrare la violenza.
Finalmente qualcuno che ha capito che è molto più inquietante farne intuire prima il terrore crescente, e dopo mostrarne i segni devastanti.
 Una scelta opposta a tanto finto iperrealismo di moda, che ci imbottisce gli occhi di bruttezza e gratuiti orrori.
Una scelta apparentemente simile, ma che nella sostanza si pone agli  antipodi da Haneke, e il suo voyeurismo malato (e camuffato), mascherato da denuncia sociologica.
Una scelta di stile e d’intelligenza classica, che libera “Trama” dall’equivoco horror, e la restituisce, come dice l’autore,
alla tradizione del thriller.
Secondo me, però, ci sono radici più alte e nobili.
Ratigher ha imparato una lezione importante da un grande maestro, spesso saccheggiato in silenzio.

La lezione è quella, insuperata, de “Lo straniero” di Albert Camus: mostrare l'assurdo, fino alle sue estreme conseguenze, con uno sguardo calmo, compassato, quasi olimpicamente indifferente.


Albert Camus

Qualcuno già ha correttamente riconosciuto (QUI) l’influenza di Albert Camus su alcuni importanti autori di fumetti contemporanei, ad esempio Daniel Clowes:

In realtà, io credo che se Clowes avesse letto bene “Lo straniero”, beh, avrebbe scritto “Trama”.


Daniel Clowes

Siccome non mi piacciono le frasi provocatorie ad effetto, mi spiego meglio.
Ora, tutti conosciamo il talento eccezionale del fumettista di Chicago (definito meravigliosamente da Lorenzo Ceccotti “il perfetto incrocio tra Woody Allen e David Lynch”). Pochi come lui (non solo nel fumetto, ma anche nel cinema e nella letteratura) hanno saputo mostrare con elegante ironia i tic dell’America, il disagio esistenziale, le crisi adolescenziali, lo smarrimento generazionale etc…  senza però scadere in compiacimenti banali, al contrario annientandoli con affilatissimo umorismo.

C’è sicuramente qualcosa di Clowes, come c’è senza dubbio molto Charles Burns, in “Trama” di Ratigher.
La differenza è che in Clowes si parte sempre (con risultati spesso aurei) da un’ispirazione autobiografica.
Il perfetto cosmo delle storie di Clowes nasce e si conclude in una consapevole autoreferenzialità.
Non solo riferita alle proprie esperienze personali, ma in generale alla propria cultura di riferimento, cioè a quella popolare americana.
In “Trama”, come in quasi tutte le opere di Ratigher, avvertiamo invece quel dono cui abbiamo accennato all’inizio: la grazia del distacco. La capacità di esporre anche la storia più cruda, disturbante, soffocante, con la calma onnisciente del cantastorie eterno.
Dalla prima tavola di “Trama” si avverte l’indifferenza cosmica, quasi meditativa, che si respira nell’ultima pagina del romanzo di Camus.
Agisce in “Trama”, come in tutte le storie del Bimbo Fango, un potente contrappasso, una legge morale senza redenzione, un Ultimo Giudizio in cui l’unica destinazione possibile è l’Inferno.
Per questo il Camus di riferimento è quello de “Lo straniero” e non quello, forse superiore, de “La Peste” (in cui comunque, come nell’ultimo Leopardi, c’è forse una risposta al Male nella solidarietà fra gli uomini).




L’assurdo della vita si manifesta e ci inchioda alle nostre colpe, delle quali siamo inconsapevoli, nella grigia indifferenza del tutto.
L’unico modo per uscire dall’incubo è dis-indentificarsi con sé stessi, e rivoltarci (sempre Camus) contro tutto ciò che ci hanno insegnato e che noi stessi abbiamo rappresentato.

Qui siamo di fronte a un messaggio profondo, raccontato benissimo.

Dunque: una storia di profonda intelligenza nei contenuti,
formalmente impeccabile,  narrativamente magistrale.
E’ pure gratis. Leggetela.

mercoledì 21 novembre 2012

Maicol&Mirco - Jean Paul Sartre = 10-0

Il Male mi annoia.
La violenza la trovo stupida, sterile, monotona.
La volgarità gratuita non mi diverte. Le bestemmie mi hanno sempre dato fastidio. Bacchettone? Ma per carità…
E’una questione estetica,  prima che morale. O meglio, è una questione estetica, dunque morale.
Chiarisco, il Male non mi spaventa anzi.
Mi annoia.
Scippando una celebre espressione di Hannah Arendt (che parlava in realtà di tutt’altra cosa) mi annoia, esteticamente, la banalità del Male.
Cosa c’è di più facile che sfogare gli appetiti più bassi, le pulsioni più animali, gli impulsi immediati, soprattutto in un’epoca in cui tutto ciò che in passato era proibito, vietato (e quindi sommamente fascinoso), non solo è a portata di click, ma è culturalmente accettato e, come si suol dire, ormai irrimediabilmente mainstream?!
Una volta caduti i paletti di una morale fittizia e decomposta, abbattuti i due-tre scrupoli formali rimasti, è il giochetto più facile che ci sia.
Poteva avere senso l’occhio tagliato di Dalì e Bunuel nel ’29, le descrizioni oscene di Henry Miller nel ’34, financo i beat….ma parliamo di 60 anni fa…

Eppure, sono qui a lodare, con entusiasmo, un libro che trabocca (almeno superficialmente) di tutti questi elementi che ho appena dichiarato di disprezzare: volgarità, bestemmie, iperviolenza etc…
Signore e Signori, in piedi: entrano gli “Gli scarabocchi di maicol&mirco”.

Attenzione, non  sto dicendo che questo è un libro divertente, trasgressivo, provocatorio,…no, no (nel 2012 ancora parliamo di provocazioni, suvvia…).
CHIARIAMO: non è un maledettissimo cabaret punk.

E’un’opera di genio.

Questo libro è un talismano contro la stupidità contemporanea.
Non solo quella insopportabile, riconoscibile, evidente.
 Quella del buonismo, della finta morale, dell’ipocrisia perbenista da “maggioranza silenziosa”, che chiunque abbia un encefalogramma non del tutto piatto epidermicamente rigetta con un grido d’orrore, come una siringa infetta trovata nel piatto di minestrone al ristorante.
Ma anche contro la stupidità, più sottile, e dunque più insidiosa, del politicamente scorretto facile facile, del nichilismo da salotto, del grunge patinato da Mtv.
Se prima ho citato Hannah Arendt, ora applicherò la par condicio scippando un’espressione altrettanto famosa, probabilmente spesso usata da Eichmann, l’orribile protagonista del suo libro : RAUS!

La violenza verbale, lo sberleffo immorale che dominano in questi elaboratissimi scarabocchi, lungi dall'essere volgare teppismo concettuale, illuminano di squarci accecanti la realtà stordente di uno smarrimento esistenziale collettivo. Dietro l'apparente facilità dei rovesciamenti paradossali, volti costantemente nell'osceno, nel blasfemo e nel disturbante, a uno sguardo attento si rivela un giacimento d'intelligenza pura.
Il quid di questa creazione non è solo una devastante padronanza dei meccanismi comici classici, ma uno sguardo privo d'alcun decoro e pietà nei confronti del nudo dolore d'esserci senza conoscersi.

Sono i Peanuts scritti a quattro mani da Beckett e GG Allin.

Intendiamoci, alcune tavole sono oggettivamente disturbanti, aggredendo temi tabù come l’incesto, la pedofilia, l’handicap etc…

Ma siamo davanti ad un uso sapiente e mai banale del politicamente scorretto.
In un'epoca in cui ormai MTV e Mediaset hanno sdoganato praticamente tutto è difficile ottenere un impatto comico e disturbante rimanendo originali
Credo che sia pertinente citare una delle più sottili  dichiarazioni di Frank Zappa, non solo artista geniale ma sempre lucidissimo critico della sua opera:
“ La maggior parte di quello che facciamo è progettata per infastidire le persone fino al punto che, anche per un secondo,  possano mettere in discussione l’ambiente a loro circostante, per poter fare qualcosa. 
Finchè non diventeranno consapevoli del loro ambiente, non se ne preoccuperanno - non faranno nulla per cambiarlo.” (trad. mia)


Alla luce di queste considerazioni, appare chiaro dunque che “Gli scarabocchi di maicol&mirco” sembrano battutacce,  ma sono acrobazie intellettuali notevoli.

Soprattutto, è un libro importante perché ci dà l’occasione di affrontare temi cruciali della nostra cultura contemporanea.

Le tematiche che ora accenneremo meriterebbero approfondimenti di centinaia di pagine, per cui ci limiteremo a enunciare alcuni concetti fondamentali, per meri motivi di spazio e non per pretesa dogmatica.

Facciamo un brevissimo accenno all’evoluzione (o involuzione?) del concetto di censura negli ultimi 50 anni.

Negli anni ’60 non si potevano indossare delle calze trasparenti in tv, causa l’effetto del bianco e nero. Poteva sembrare che le ballerine fossero a gambe scoperte, e ciò sarebbe stato fonte di scandalo.

Oggi, abbiamo trasmissioni seguitissime (non dagli adolescenti brufolosi in tempesta ormonale, ma dalle famiglie a tavola) in cui si parla solo e unicamente di sesso, in tutte le salse, in tutti i modi, in tutti gli orari.
  
Una volta le parolacce in tv erano un evento. Erano concesse solo a mostri sacri, in rare occasioni, controllatissime, di cadenza annuale o una tantum : Fo che recitava Ruzante,  Benigni a San Remo, Grillo (poteva dire quello che gli pare tranne fare battute sui socialisti), Carmelo Bene da Costanzo etc…
Ora ci ritroviamo non solo le famiglie che portano i bambini il giorno di Natale (!) a vedere i film di Vanzina (vero rituale satanico di massa: ce l’hanno fatta!), ma supposti intellettuali o politici (da Sgarbi a Ferrara, a quasi tutti i politici del Pdl) che utilizzano disinvoltamente il turpiloquio come in un bar di periferia.

Quando hai un Ministro che dice che col tricolore ci si pulisce il culo, un altro che indossa magliette offensive contro la religione islamica, un Presidente del Consiglio che organizza orge con minorenni, e racconta barzellette con bestemmie (ricevendo difesa dai Cardinali!)…dimmi tu che deve fare un povero artista per  sentirsi trasgressivo!

Pasolini aveva profetizzato, con la lucidità apocalittica che gli marchiava l’anima, questa perversa dinamica del potere: “Nulla è più anarchico del potere. Il potere fa praticamente ciò che vuole, e ciò che il potere vuole è completamente arbitrario, o dettatogli da sue necessità di carattere economico che sfuggono alla logica comune…  quella omologazione che il fascismo non è riuscito assolutamente ad ottenere, il potere di oggi, cioè il potere della civiltà dei consumi, invece riesce ad ottenere perfettamente, distruggendo le varie realtà particolari. E questa cosa è avvenuta talmente rapidamente che noi non ce ne siamo resi conto. E’ avvenuto tutto in questi ultimi anni. E stato una specie di incubo, in cui abbiamo visto attorno a noi l’Italia distruggersi e sparire. Adesso risvegliandoci, forse, da questo incubo, e guardandoci intorno, ci accorgiamo che non c’è più niente da fare.”


(chiedo scusa  non sono riuscito a trovare il video senza questa incomprensibile musica in sottofondo)

A parte la loro inquietante attualità, che sfiora la veggenza,  queste riflessioni ci interessano da vicino quando affrontiamo un libro come “Gli scarabocchi di maicol&mirco”.

Perché il Potere non solo ha liberato il linguaggio della protesta, abbattendo negli anni i paletti della censura, ma se n’è addirittura
appropriato,  fagocitandone i caratteri e i toni, spuntando così le armi di qualsiasi rivolta artistica e concettuale.
Si è impadronita del corpo stesso della rivolta: il linguaggio.

Ha preso il linguaggio che fino a poco prima censurava, e lo ha reso istituzionale, abbassandolo al livello del pettegolezzo da bar, della battutaccia scollacciata, depauperandolo così di qualsiasi potenzialità eversiva.

Se noi vediamo le interviste a Frank Zappa (prendo lui come esempio perché già citato),  nel periodo del suo processo per censura, assistiamo a una netta contrapposizione formale: il linguaggio castigato, ipocrita dei censori da un lato, lo sberleffo sconcio e anarchico di Zappa dall’altro.


Ora, è il contrario. I giornalisti “d’opposizione” s’esprimono garbatamente in un linguaggio rispettoso, i politici spesso rispondono con rutti e oscenità.

Questo capovolgimento spaesante è avvenuto su tutti i livelli della comunicazione di massa.

Sui siti di “Libero” o de “Il Giornale” (testate che dovrebbero rappresentare i “moderati”, quelli di “Dio, Patria e Famiglia”)
non è raro trovare, con la scusa del gossip e dell’attualità, link a video porno.
  
Dobbiamo tornare a Pasolini, e alle motivazioni, dolorose eppure illuminanti, che lo condussero alla sua famosa abiura della “Trilogia della Vita”. Lui che aveva inteso mostrare il sesso come momento di gioia popolare, per sottrarlo alle incipienti dinamiche di mercificazione e oggettificazione consumistica; lui che voleva restituirlo alla sua dimensione di liberazione spontanea, come “ultimo baluardo della realtà”, unica forma d’opposizione sociale (secondo il sottoscritto un abbaglio di derivazione freudiana), prendendo a testimonianza i classici della letteratura di tutto il mondo … si ritrovò le sale piene di ebeti che volevano vedere tette e culi ("Mi pento, ripeteva, di aver nutrito “l’ansia conformistica di essere sessualmente liberi che trasforma i giovani in miseri erotomani nevrotici, eternamente insoddisfatti (..) e perciò infelici.").
 Questo cocente disincanto fu l’anticamera straziante di “Salò-le centoventi giornate di Sodoma”, primo capitolo della tragicamente incompiuta “Trilogia della Morte”.
Un crudele viatico, quasi un’oscura evocazione maligna della sua stessa morte.

L’intero ventennio berlusconiano (cioè l’applicazione clownesca e insieme scientifica del piano eversivo della P2), in tutti i suoi più grotteschi aspetti (i fascisti, travestiti, al potere, l’addormentamento delle coscienze, le orge a Palazzo Grazioli, l’inebetimento consumistico delle masse direttamente proporzionale al progressivo impoverimento etc…) appare proprio la materializzazione (e)scatologica degli incubi pasoliniani, divenuti da profezia allucinata a cronaca quotidiana, ormai incapace di destare alcun scandalo.

Non possiamo non citare le parole scolpite nella pietra con cui il grande autore friulano analizza le cause della sua abiura: 


“Primo: la lotta progressista per la democratizzazione espressiva e per la liberalizzazione sessuale è stata brutalmente superata e vanificata dalla decisione del potere consumistico di concedere una vasta (quanto falsa) tolleranza.
Secondo: anche la "realtà" dei corpi innocenti è stata violata, manipolata, manomessa dal potere consumistico: anzi, tale violenza sui corpi è diventato il dato più macroscopico della nuova epoca umana.
Terzo: le vite sessuali private (come la mia) hanno subito il trauma sia della falsa tolleranza che della degradazione corporea, e ciò che nelle fantasie sessuali era dolore e gioia, è divenuto suicida delusione, informe accidia.”
(dall' "Abiura dalla Trilogia della vita", Corriere della Sera, 9 novembre 1975)

Queste non sono solo speculazioni intellettuali.
Sono profezie ardenti.
Basta accendere la tv e verificare.

Cito le prime cose che mi vengono in mente, in ordine sparso: Ozzy Osbourne, idolo del metal satanico degli anni’70, protagonista di un reality show sulla sua famiglia su MTV; Aldo Busi, scrittore- icona della trasgressione omosessuale, protagonista de “L’Isola dei Famosi” e di “Amici” (en passant non resisto a confidarvi una delle mie più antiche e ferme convinzioni: Maria De Filippi è il Demonio); servizi dei Tg sui dei calendari sexy, con ampi estratti dai backstage; sex-tape con ex- amanti ormai divenuti tappa obbligatoria nella carriera di una starlette per venir accolti nel club delle celebrità etc (una volta si frequentavano le scuole di dizione)…

Quando tutto è concesso, non c’è più nulla da trasgredire.

maicol&mirco riesce a mettere in tilt questo collaudatissimo assioma  del Sistema, tramite tre armi fondamentali:
una grande sapienza narrativa, un uso magistrale dei tempi comici e, soprattutto, una irriducibile sincerità.

La sapienza narrativa è tale da sintetizzare potenti microstorie nell’arco violento e svanente di un dialogo
Gli autori fanno un’operazione raffinatissima, un impiego magnificamente distruttivo della dialettica.
Non per nominare invano un sublime sapiente, potremmo dire che negli “scarabocchi” agisce una sorta di maieutica classica all’incontrario.
Se il filosofo ateniese attraverso la tecnica dialogica e l’uso dell’ironia estraeva dai suoi interlocutori scintille della Verità,  maicol&mirco , nello scambio di poche battute,  estrae dai suoi personaggi esplosioni di merda, abissi di veleno, incendi di rabbia cieca.

Per ciò che concerne il possesso de tempi comici, beh, siamo ai livelli di Totò.
Totò che si prende un caffè con Ciorian nella Loggia Nera di “Twin Peaks”.

Sulla copertina andrebbe posta un'etichetta come su sigarette e medicinali: "può provocare diuresi acute e improvvise. Avvertenze: non leggetelo mai sui mezzi pubblici, o in un ascensore affollato...men che mai provate anche solo a sfogliarlo durante un appuntamento galante.
Oppure premunitevi.

Qualcuno potrebbe a questo punto dire: “vabbè, abbiamo capito: non è un’opera di goliardia, non è mera provocazione, c’è un pensiero dietro, una riflessione etc.”…ma siccome l’essere umano ha bisogno, per evitare di smarrirsi nel labirinto idiota della propria mente, di creare delle etichette delle definizioni, come delle stampelle per  i propri pensieri paralitici, la stessa persona potrebbe aggiungere:” però, vedi, dice le parolacce, bestemmia..dunque…è punk, no?!”…

NO!
  
L’autore sfugge ai gangli banalizzanti della parolaccia e della bestemmia,(pur utilizzandole con copiosa indulgenza), al clichè divenuti mainstream di cui sopra,  per un semplice motivo.
Perché è autentico.
Non è in posa.
Veramente ammazzerebbe tutti.
La furia cieca, davvero (una volta tanto!) iconoclasta degli "scarabocchi" non è la trasgressioncina formale del fumettista che gioca “a chi è più matto”.
Nasce, evidentemente, da un dolore di vivere vero, reale, percepito nelle carni, distillato poi da un’intelligenza spietata, e rivomitato, con la calma del serial killer, sullo sfondo rosso sangue  teatro d’ogni scarabocchio.

E’ grazie a questa rabbia ferina, unita a un magistero comico da far invidia ad Achille Campanile, che maicol&mirco riesce a scardinare, insieme con destrezza e violenza deflagrante, le manette che il sistema ha imposto al linguaggio protestatario ( imposte come detto paradossalmente nel liberarlo, e quindi svuotandolo di ogni significato e potere).

I personaggi vengono calati in un eterno presente infernale, in cui la materia stessa dello spazio è fatta del sangue dei morti ammazzati, è il tempo è paralizzato nel momento della tremenda agnizione che la vita non ha senso. La morte non è liberazione ma il beffardo compimento di un’esistenza inutile e dolorosa.

In questo, “Gli scarabocchi” sono delle meditazioni diaboliche, quasi una  forma, straniante e blasfema, di koan Zen, degli Haiku dalla Gehenna.
Il non-sense della comicità nerissima che pervade “Gli scarabocchi” è in realtà il non-senso della vita. O meglio, l’analisi spietatamente logica dell’incapacità di trovarvi un senso.
Lo sputo dell'intelligenza incattivita sul volto ipocrita d'un'esistenza incomprensibile.
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Il BLAM che campeggia in copertina non è il fragore della pistola che scandisce letale l'esito dei dialoghi, ma è l'effetto improvviso e devastante della battuta deflagrante e definitiva che chiude non solo ogni vignetta, ma anche ogni dialogo, ogni speranza, ogni discorso possibile.
  
Un semplice esempio:
la tavola in cui il personaggio dice: “mettere al mondo un bambino vuol dire condannarlo a morte certa” è la più bella e felice sintesi dell’esistenzialismo che esista.

Ora, chi scrive, non ha alcuna stima del nichilismo d’accatto, dell’esistenzialismo snob, degli intellettualismi compiaciuti, delle disperazioni artificiali.
“L’inferno sono gli altri”, l’ho sempre trovata una frase d’una superficialità aberrante, della profondità filosofica pari al filo di bava colante dalla bocca di un cretino.
Il fallimento della mente, la morte della bellezza.
Insomma, non sopporto Jean-Paul Sartre.
Non voglio nemmeno perdere tempo a spiegarvi perché, preferisco delegare a più convincenti argomentazioni.
Vorrei infatti arricchire il corredo d’omaggi a numi tutelari, linkando direttamente alle parole di Louis-Ferdinand Cèline, uno dei più grandi scrittori degli ultimi trecento anni, che definisce magnificamente il soggetto in questione:


Ma torniamo ai nostri Superamici.

Se , come diceva Aristotele, il comico nasce dall’assurdo, ebbene, maicol&mirco coglie questo assurdo (o meglio, ne è colto, catturato e torturato), lo denuda, lo viviseziona, lo analizza, e lo espone  macellato sul tavolo rosso sangue delle sue pagine mortali.
L’irruzione dell’Assurdo, nell’illusoria calma piatta dell’esistenza, è il tema del “Caligola” di Albert Camus (lui sì un esistenzialista onesto e coraggioso, non uno sterile intellettuale in posa come “Tartre”);
“Caligola” che non a caso fu opera prima di quel genio irripetibile di Carmelo Bene (la cui lectio i lettori più attenti e consapevoli avranno già percepito affiorare qua e là come un basso continuo della riflessione).
Aprire a questo punto un discorso su Bene mi obbligherebbe a scrivere un trattato di pagine 724.
Mi limiterò a ricordare quando Bene disse che l’unica cosa che avrebbe salvato dell’Italia erano Ciprì e Maresco.
Forse gli unici antecedenti possibili degli “scarabocchi”.

Ed a l’unico antecedente possibile di Bene, nel teatro come nella riflessione filosofica su di esso,  mi hanno fatto pensare maicol&mirco: a Antonin Artaud.

Leggiamo le sue riflessioni sul “Teatro della Crudeltà”:

“La crudeltà è prima di tutto lucida, è una sorta di rigido controllo, di sottomissione alla necessità. Non si ha crudeltà senza coscienza, senza una sorta di coscienza applicata. È la coscienza a conferire all'esercizio di qualsiasi atto della vita un colore di sangue, una nota crudele, perchè è chiaro che la vita è sempre la morte di qualcuno.” (Parigi 13 settembre 1932, Antonin Artaud)
Sembra quasi la descrizione del libricino in oggetto.
Mi dareste davvero del folle se  affermassi: “Gli scarabocchi” sono il Teatro della Crudeltà che Artaud intuì, ma non seppe mai mettere in scena?
Al netto delle esagerazioni, degli entusiasmi, delle cosiddette provocazioni, rimane un dato.
Guardandoci attorno, nel limbo oppiaceo deserto d’alcuna originalità che ci avvolge, pare proprio che la risata violenta, incontenibile, travolgente che scatena la lettura de “Gli scarabocchi di maicol&mirco” sia rimasta l’unica catarsi possibile.

Ma non preoccupatevi, io amo i lieto fine.
  
Vorrei, infatti, concludere spingendo la mia enfasi oltre i limiti del pudore.
La protesta furiosa contro il maicol&mirco mi ricorda uno dei più grandi poeti nostrani. Ebbene si, lo dico: Giacomo Leopardi.
Prima di chiamare la neuro, aspettate. Ragioniamo insieme:
Se è vero che:

“Nobil natura è quella
Che a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte”
(“La Ginestra”, 111-116)

beh, credo che maicol&mirco possa essere considerato un campione dell’aristocrazia morale.
Del resto, è vero che Leopardi non ha mai disegnato scarabocchi che bestemmiano…ma provate a leggere “L’inno ad Arimane”, con consapevole riflessione.
Tutti i “cattivi” che conoscete, da Charles BukowskiBret Easton Ellis , da quel patetico clown  di Marylin Manson a qualsiasi imbecille proto, pre o post punk, vi appariranno (oltre che infinitamente inferiori a livello artistico e morale, come pidocchi davanti a una statua della Dea Iside) per quello che sono: innocui come dei chierichetti impacciati.
E, soprattutto, per “Gli scarabocchi di maicol&mirco” vale il celebre paradosso di De Sanctis su Leopardi: “produce l'effetto contrario a quello che si propone”.
Nel momento in cui ti mostra che la vita è un’insensata, crudele fregatura, te la fa amare con tutta la potenza di una risata squassante e fiera, la colonna sonora del trionfo dell’intelligenza.