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mercoledì 4 dicembre 2013

Frank Zappa - a vent'anni dalla morte






Esattamente venti anni fa, a quest'ora, tornavo da scuola a casa di mia nonna (personalità straordinaria alla quale devo geneticamente molte delle mie capacità dialettico-argomentative), con la quale all'epoca vivevo.
Mia nonna mi accoglie con la notizia: "E' morto Frank Zappa".
Io rimango senza parole, colpito dalla paradossalità della scena: "Come? Non ho capito...", e lei insiste: "Frank Zappa, il cantante americano, con i capelli lunghi e i baffoni! Ma che non lo conosci? Era un pazzo, ma era geniale. Mi dispiace".
Stessa scena era avvenuta due anni prima in occasione della morte di Freddy Mercury.
Ma, comprenderete, l'impatto in questo fu ancora più paradossale, spiazzante, surreale.
In una parola zappiano.

Zappa fu (accanto a Dylan, il "Don Giovanni" di Mozart e i Velvet Underground) la colonna sonora della mia adolescenza. Il suo poster gigantesco campeggiava nella mia cameretta con un'espressione di beffarda eleganza.
Come già menzionato in questo blog, ogni sera dei miei sedici anni trovava il suo apice nella scena consueta: Lorenzo Ceccotti, Daniele Capuano (che ce lo aveva fatto amare) e il sottoscritto per i vicoli di Trastevere,  a intonare ebbri integralmente almeno uno dei tre capitoli formanti la formidabile trilogia iniziale "Freak Out", "Absolutely Free" e "We're Only in it for the Money".
Se Dylan era la porta verso la poesia, la ricerca spirituale, il cantore dei sentimenti nobili e degli ideali vibranti, Zappa per me incarnava magnificamente la pars destruens (come nel prosieguo della mia formazione culturale faranno Cèline nella letteratura e Carmelo Bene nella riflessione filosofica), lo sberleffo trionfante dell'intelligenza nei confronti della sconfortante insensatezza del Brutto che ci assedia.
Senza di lui non avremmo avuto probabilmente: Prince, i Primus, Stefano Bollani, "I Simpson", "I Griffin", "South Park", Elio e le Storie Tese etc...ognuno di noi pensi quanto deve a quest'uomo.


Tale fu il debito di riconoscenza che il nostro primo tentativo editoriale fu intitolato "Lampi Grevi",   in omaggio al suo primo disco solista "serio" (per quanto possa avere senso tale definizione) "Lumpy Gravy".
Eccone il formidabile tema principale, per anni inno interiore delle nostre gesta:


A quella fanzine, dalla breve ma gloriosa esistenza, collaborarono (da co-fondatori) quelle che con molto affetto definisco alcune fra "le menti migliori della mia generazione": oltre ai citati Ceccotti e Capuano, c'erano Gianluca Abate, Lucio Villani, Daniele Catalli, Mariachiara Di Giorgio come valenti disegnatori, Francesco Fava, Alessandro Caroni, Luca Cruciani, Francesco Di Giorgio come fertili menti di idee e contenuti (chiedo perdono a chi eventualmente abbia dimenticato).
Lo strambo nickname che dà il nome al blog che state leggendo ebbe origine proprio in quel periodo, esattamente dal fotoromanzo "Neve e Sangue", ambientato a S.Pietroburgo e girato alla Garbatella, partorito dalle menti geniali di Alessandro Caroni e Luca Cruciani.

Oggi, per commemorare il ventennale della scomparsa, Lucio Villani sul suo blog non a caso ha ritratto proprio la copertina di quell'album.

Zappa visto da
Lucio Villani

Come raccontare la grandezza di Zappa nella tirannica brevità di un post?!
 (già sento le vostre battutine, sciocchi!)
Vorrei sottolineare aspetti meno immediatamente evidenti di quelli che chiunque può ricordare (il genio musicale, il respiro orchestrale delle sue composizioni, la provocazione oltraggiosa, lo sberleffo anti-perbenista etc.)
La prima considerazione è quella di sottolineare l'intelligenza assoluta, tutt'altro che sregolata, ma lucidissima, matematica, inesorabile del suo progetto musicale e della sua visione culturale.

A riprova di ciò, Zappa fu uno dei principali riferimenti del primo, fortunato post di questo blog (lo trovate QUI)

Come dice il titolo di uno dei suoi, se non erro, 64 dischi, Zappa & the Mothers of Invention erano davvero "Ahead of their Time": un anticipo strabiliante sui loro tempi che ora a distanza quasi di 40 anni dall'esordio dobbiamo pubblicamente riconoscere.



Solo un genio poteva architettare la più grande parodia del movimento hippy in tempo reale.
"We're only in it for the money", parodia frontale del disco feticcio dei Beatles fin dalla copertina.
Un disco che dimostra (oltre che una ricchezza incontenibile di spunti musicali e acrobazie melodiche) una capacità di analisi culturale che in quegli anni forse ha avuto solo Pasolini, e Gaber poi, per rimanere in Italia.
Solo un genio poteva decostruire seduta stante il mastodontico movimento culturale di illusoria ribellione, i cui penosi strascichi scontiamo ancora oggi nella sistematica inversione di segno di tutti i suoi protagonisti (per rimanere sempre nel nostro Paese si pensi alla larga parte di militanti di "Lotta Continua" trasferitisi in blocco tra le file berlusconiane).
Solo un genio poteva creare una bomba contro l'ipocrisia yankee come "Brown shoes don't make it", cioè "American Beauty" più corrosivo e profondo fatto trent'anni prima in 7.30 minuti di genio satirico assoluto: pochi minuti in cui Zappa riesce a prendere in giro magnificamente praticamente chiunque (da Schoenberg a Jim Morrison) scoperchiando sardonico il tappeto del perbenismo W.A.S.P., e mostrando spietatamente l'immondizia morale che ne era la sostanza.


E poi, potremmo parlare ore (sono vent'anni che lo facciamo!) dell'infinita aneddotica oltraggiosa, che ha reso Zappa il monumento vivente al politicamente scorretto vero, ben più delle adorabili provocazioni di "Catholic Girls", "Bobby Brown" o "Jewish Princess" (ebbe l'infallibile prontezza di raccogliere tutti i suoi brani offensivi nell'antologia "Have i offended someone?").
Mi riferisco soprattutto ai suoi rapporti con gli altri grandi geni del rock.



Dalle scaramucce sul palco con i Velvet Underground durante il concerto del 1966 (si dice che gli introdusse più o meno: "ora suonano loro, fanno schifo", approfondimenti QUI); allo stentoreo "Fxxx You, Captain Tom" ripetuto a David Bowie, colto di sorpresa a soffiargli il chitarrista Adrian Belew (lo racconta quest'ultimo QUI); al famoso episodio con Dylan: dopo averlo accolto con giocose battute antireligiose, la leggenda narra che Zappa rispose alla proposta di fare un disco insieme (da parte ricordiamo del futuro Premio Pulitzer e più volte candidato al Premo Nobel per la Letteratura) : "Va bene Bob, ma i testi li scrivo io!" (va detto che Bob era reduce dalla trilogia cristiana ben poco affine all'ispirazione di Frank, come spiegato QUI);

Come non menzionare il colpo di teatro assoluto: la candidatura al Presidente degli Stati Uniti d'America.
Il genio.
Ora, personalmente non condivido l'iper-laicismo ideologico di Zappa, ma vederlo sbeffeggiare l'ottusità della censura perbenista americana con i suoi proclami alla Groucho Marx è uno dei grandi piaceri della vita (dato questo assunto QUI, gioitene QUI).

Questo intende essere solo un doveroso omaggio, senza nessuna pretesa esaustiva di raccontare una carriera irripetibile.
Ma soprattutto, vuole essere un invito a non confinare un artista straordinario nelle stanche etichette di "provocatore", "goliarda", "genio e sregolatezza".
Frank Zappa è stato non solo uno degli artisti più eclettici e preparati della recente storia musicale americana, ma è stato una delle poche figure della cultura "pop" a manifestare la consapevolezza culturale dei grandi maestri.
Il talismano dell'intelligenza contro i condizionamenti della società.
Era anche un fulminante aforista.
Tra le innumerevoli citazioni, scelgo:
 "Se passi una vita noiosa e miserabile perché hai ascoltato tua madre, tuo padre, il tuo insegnante, il tuo prete o qualche tizio in tv che ti diceva come farti gli affari tuoi, allora te lo meriti."

Non dimentichiamocelo mai.
Grazie Frank.

lunedì 2 dicembre 2013

NICK CAVE & the Bad Seeds a Roma - il racconto del concerto


Nick Cave fotografato a Milano da Daniela Odri Mazza

Tutti i grandi cantautori, come tutti gli autori in genere, sono attraversati da una nota dominante, da un basso continuo che percorre come un costante sottotesto la loro opera, riaffiorando in ogni variazione ed esperimento. Ad esempio, in Dylan è l'inquietudine della ricerca spirituale, in Cohen il combattimento tra mistica e sensualità, in Guccini il rimpianto delle possibilità mancate, smarrite nei gorghi del tempo.
Quella di Nick Cave è certamente l'ossessione.
Ossessione che si esprime nella ripetizione stessa dei ritornelli dei suoi brani più classici: l'inno amorale dei "natural born killers" ante litteram "Deanna", l'ineluttabile arresa alla possessione di eros/thanatos in "Do you love me?"
Ossessione che si declina tentacolare, già nei brani menzionati, sui temi cardine della torturata vicenda umana: l'amore e la religione.
Nel primo caso, si pensi alla dinamica speculare delle due grandi canzoni d'amore (non a caso entrambe "murder ballad" dall'ispirazione popolare), le due incursioni incendiarie nel mainstream: i duetti con P.J.Harvey e Kylie Minogue. L'archetipo è fortissimo, scolpito dal "Cantico dei Cantici": "Amore è forte come la Morte". Due racconti di passione erotica che divengono furia omicida.



Il primo ("Henry Lee"), conturbante gioco di seduzione e distruzione fra le due icone "alternative" della canzone d'autore; il secondo ("Where the wild roses grow") geniale inversione dell'icona sexy scioccherella nella mortuaria bellezza preraffaellita (omaggiato non a caso da Dylan nella paradossale leggerezza "Bye and Bye").



Nel secondo caso, l'ossessione religiosa, il percorso meriterebbe un saggio a parte, nella sua stordente ricchezza antinomica: dalle bestemmie scritte sul petto (in italiano!) ai tempi dei The Birthday Party alla dialettica disperante di "As i sat sadly by her side" (il suo capolavoro al quale dedicheremo presto una riflessione a parte), dalla commossa confessione di "Into my arms" all'aperta parodia di "God is in the House", dalla contrapposizione frontale col comandamento evangelico di "Dig, Lazarus, Dig!" all'apertura verso il divino meraviglioso della recente "Mermaids". Il percorso spirituale  in costante divenire, tra sfregio blasfemo e raccoglimento interiore, è ben raccontato in questa introduzione al Vangelo di Marco del Nostro, una testimonianza unica e illuminante (la trovate QUI)



Ossessione che ritorna in tutti i grandi brani in cui la personalità autoriale di Cave si sia espressa con la potente indipendenza del vero maestro.
Citeremo ancora solo due esempi: "The Mercy Seat", il delirio degli ultimi istanti del condannato a morte, vero capolavoro nella sua semplicità quasi da cantilena infantile, non  a caso omaggiato dal maestro Cash nella sua antologia del canto americano contemporaneo;


e soprattutto "Oh, Lord", una delle vette dell'abilità lirica di Cave di calarsi nei panni del posseduto, del peccatore, dell'omicida, dell'indemoniato. Un vertice di parossismo, una catabasi senza redenzione, un crescendo intollerabile di autodistruzione: raramente l'arte musicale moderna è riuscita a rendere con tale lacerante icasticità l'assordante deflagrazione dell' inferno interiore, il cortocircuito suicida tra la repellente normalità e l'irriducibile follìa dell'individuo.



Se vuoi leggere il racconto del concerto prosegui

lunedì 28 ottobre 2013

Requiem per Lou Reed




Ho passato uno dei pomeriggi più divertiti ed eccitanti dei miei sedici anni tra copisterie, cartolerie,  scotch e righelli per confezionarmi il poster dei Velvet Undeground (irreperibile allora) che avrebbe campeggiato per anni nella mia cameretta, ricavandolo dalla copertina di una monografia ormai introvabile prestatami dal mio amico e mentore Daniele Capuano.
 (Ah, Daniè, se non trovi il libro, ce l'ho ancora io, tranquillo te lo riporto, eh).
Per tutte le superiori sono stato canzonato dai miei amici (soprattutto dal formidabile imitatore Lorenzo Pausillo) per la mia erre moscia, che  risultava particolarmente comica quando mi chiedevano:
-"Cosa ascolti in cuffia? "
- "Lùvvìd".

Pur essendo di base contrario ad indossare magliette di gruppi o cantanti, per un decennio ho fatto eccezione per la  leggendaria banana del pur disprezzato Warhol, alternativamente sfoggiata su borse di pelle o T-Shirt.  Ripeto: ho indossato per anni un'immagine di un artista che non mi piace.

Una delle emozioni più perfette della mia adolescenza fu l'attacco del riff di "Sweet Jane" al primo concerto in cui lo vidi dal vivo, gratis, a Enzimi nel '98 (esperienza analoga a quella raccontata da Paolo Rosati nel suo commosso ricordo  che trovate QUI)



La sera del mio primo appuntamento con mia moglie, le feci ascoltare il primo disco dei Velvet Underground, quello appunto talmente importante da farmi usare il corpo come vessillo della sua copertina.
Credo che lei abbia apprezzato, considerando che al nostro matrimonio abbiamo cantato per gli invitati "I'm sticking with you".




Ritengo, dunque, di poter intonare la mia grata prece in memoriam, senza essere sfiorato dai pur sacrosanti strali di Zerocalcare, illustrati in una riflessione ormai già classica .

E' difficile condensare in un post ricordi, tributi, bilanci, commenti riguardo uno dei pochi argomenti sui quali mi sentirei davvero di poter scrivere un libro di getto.

Ma non preoccupatevi, sarò breve.
Prendete questa mia eccezionale stringatezza come il mio personale minuto di silenzio.



giovedì 4 luglio 2013

LA PARMIGIANA E LA RIVOLUZIONE - Intervista a DON PASTA SELECTER






PREMESSA/RECENSIONE/ABBRACCIO

Sono un uomo fortunato.
Per chi ama come me i classici (ed è quindi costretto a immaginare dialoghi unicamente interiori con saggi indiani del 6.000 A.C., poeti greci dell'età di Pericle, nel  migliore dei casi filosofi morti nel primo dopoguerra), è una rivelazione illuminante e gioiosa incontrare fisicamente, nella bieca contemporaneità in cui siamo violentemente sbattuti, degli autentici alfieri del Bello, dei paladini della Gioia, dei custodi del Buon Gusto, degli irriducibili cavalieri dell'Intelligenza.


Dopo Massimo Palma e il suo imperdibile "Berlino Zoo Station" (ne abbiamo parlato, è il caso di dire, diffusamente QUI), ho avuto il piacere di scoprire un altro libro meraviglioso, completamente diverso per stile, contenuti e atmosfere, ma che mi ha conquistato con lo stesso ardente entusiasmo: "La Parmigiana e la Rivoluzione - Elogio della Frittura ed altre pratiche militanti". L’autore, Daniele De Michele, in arte Don Pasta Selecter (trovate il suo sito QUI),  andrebbe protetto dall’Unesco come patrimonio dell’umanità: è una fortezza di Masada ambulante nei confronti del brutto, della stupidità, dell’insensata negatività che possiede il mondo moderno.
Dire che il libro sia un semplice libro di ricette accostate a canzoni o artisti sarebbe come dire che “The Times they are-a changin’” è un disco per voce, chitarra e armonica.
 E’ vero, o meglio è reale, ma non è vero: è un dato morto, indifferente, un catalogo funebre, un’etichetta che non può catturare il Bello e il Vero. S’ignorerebbe tragicamente il senso, l’importanza, la poesia ruvida e infuocata, la deflagrante potenza di quelle canzoni.
Questo libro è molto di più: un manifesto, un progetto culturale, un prontuario di gioia, un vademecum di buonumore, un atto d’amore. Libro italianissimo eppure pervaso da un respiro internazionale e ispirato da un vissuto cosmopolita, impregnato di tradizione nonostante sia un inno al meticciato (o viceversa, come preferite), è lo specchio fedele dell’anima potente e gentile dell’autore.
Quando lo incontro, al Bar Marani, in una  S.Lorenzo immersa nel primo squillante sole di un pigrissimo fine giugno, mi appare sorprendente e familiare. Sorprendente, perché leggendo il libro me lo aspettavo fiero, sanguigno, caciarone e rustico: e lo è. Ma nel contempo è anche elegante, sottile e cortese, parla un italiano forbito, impeccabile,  speziato d’ironia e condito da paradossi, addolcito da un erre moscia che me lo rende subito fraterno, innaffiato da una pronuncia velatamente francesizzata delle vocali, ma inasprito al punto giusto da improvvisi scoppiettii di vernacolo meridionale (romano d’adozione, napoletano per celia, salentino d’orgogliosa origine) che esplodono al momento giusto con tempi comici magistrali.
Familiare perché un uomo che scrive un libro del genere, che ama il soffritto e Dylan, che scrive un libro di ricette golosissime e le associa ai miei cantanti preferiti, uno scrittore generoso, entusiasta, innamorato del Bello, del Buono, che lotta col sorriso, a testa alta,  contro l’ottusità dell’industria alimentare, contro l’insensatezza dei pregiudizi etnici, contro tutte le mafie e le chiese che sono in primo luogo gabbie nella nostra mente, uno scrittore che davvero prova a spezzare le manette della mente, ma lo fa ridendo mentre ti offre un piatto squisito cucinato con le sue mani dopo aver chiesto la ricetta a una vecchietta di un paesino in cima al mondo….beh, non può che essere stato uno dei miei migliori amici in una vita precedente.

Un autore che fa una battaglia culturale seria, giusta, concreta, affondando nelle radici antropologiche più radicate della comunità umana, restituendocele nel silenzio interiore creato dall’ascolto d’un canto antico, e nella semplice meravigliosa soddisfazione di mangiare, con gioia e rispetto, i frutti della terra.
Un libro che, nella sua gioiosa disinvoltura, sembra rispondere con una battuta alla drammatica urgenza posta da Antonin Artaud:  "Mai come oggi si è parlato tanto di civiltà e di cultura, quando è la vita stessa che ci sfugge. E c’è uno strano parallelismo tra questo franare generalizzato della vita, che è alla base della demoralizzazione attuale e i problemi di una cultura che non ha mai coinciso con la vita e che è fatta per dettare legge alla vita. La cosa più urgente non mi sembra, dunque, difendere una cultura, […] ma estrarre da ciò che chiamiamo cultura delle idee la cui forza di vita sia pari a quella della fame”.

Un libro, soprattutto, la cui bellezza dura nel tempo, entra nella nostra quotidianità: da quando l’ho letto sono diventato un cuoco migliore (e chi mi conosce sa quanto io sia vanitoso a riguardo), e ho scoperto o riscoperto autori musicali che avevo sottovalutato o accantonato per anni.
Un libro, è presto detto, che aumenta la qualità della nostra vita.


Concludo questa doverosa introduzione con una imbarazzata confessione:  devo recuperare colpevolmente la tardiva recentissima scoperta di un capolavoro italiano (scoperto, guarda caso, grazie all’amico che mi segnalò “Berlino Zoo Station”): “Il Mondo salvato dai ragazzini” di Elsa Morante. Faccio pubblica introspezione: aver scoperto questo libro a 34 anni, dopo che mi è passato sotto gli occhi almeno un milione di volte, dopo aver esplorato i libri di tutti gli autori che frequentavano la Morante (dall’odiato acume Moravia alla ammirata intelligenza profetica di Pasolini passando per l'adorato genio di Carmelo Bene), beh, ciò fa di me oggettivamente un ritardato. Quantomeno, un ritardatario. 
 Come atto riparatore farò subito mie le parole, perfette e ispiratissime, della Morante  nella sua introduzione alla “Canzone dei F.P. e degli I.M. in tre parti”, e le dedicherò a l'autore e a tutti coloro che si sono riconosciuti o si riconosceranno nella palpitante vitalità, ebbra di sole e bellezza, del suo libro*:
 “… perché i Felici Pochi sono indescrivibili/ Benché pochi,/ ne esistono d’ogni razza sesso e nazione/ epoca età società condizione/ e religione./ [...] pure quando siano volgarmente intesi brutti,/ in REALTÀ sono belli, ma la REALTÀ/ è di rado visibile alla gente./[...]/Difatti gli F.P. sono accidenti fatali dei Moti Perpetui/ semi originari del Cosmo, che volano fra poli fantastici, portati dal capriccio dei venti,/e germogliano in ogni terreno./Ma assai più spesso tornano/ in certi orienti (barbari) e oscure zone (depresse)/ dove non s’ha il vizio d’assassinare i profeti/ né di sterminare/ i poeti.”


 *ponendoli quindi nella schiera degli eletti, accanto ai miei Lari, dalla Morante presi come modelli di Felici Pochi: i diversamente sublimi Mozart, Giovanna d’ArcoSpinoza, Giordano Bruno, Simone Weil,  gli amati Rimbaud e Rembrandt, …a cui lei aggiunge il comunque stimato Gramsci, il geniale Giovanni Bellini e il gigante da combattimento Platone.





L'INTERVISTA 

Ci accompagna, testimone discreto e graditissimo Guido Turus (di cui parleremo presto), che lo ha appena intervistato per Bioresistenze (l'intervista molto interessante dal punto di vista economico-politico la trovate QUI)



 Ecco la nostra amabile conversazione:

CZ  E' un grandissimo piacere essere con Don Pasta, autore di questo libro bellissimo.

Io in realtà sono qui a reclamare la mia percentuale come account perché l'ho consigliato a tutte le persone che conosco, quindi se noterai un consistente aumento delle entrate tienimi presente

DP E' un piacere per me essere intervistato da uno che scrive un libro ad ogni articolo!! Solo un pazzo può scrivere l'articolo lunghissimo che hai scritto su Dylan!! 

(si riferisce a questo QUI)

CZ Ti ringrazio!

 La prima cosa che vorrei dire è che io sono un tuo seguace "ante litteram" , ho ritrovato nel libro una sorta di Vangelo di una fede che io spontaneamente seguo da anni....mi riferisco al mantra esistenziale che per risolvere i problemi basta aggiungere un pò d'olio....il mio aspetto denuncia questa mia attitudine, mia moglie ha chiesto diversi preventivi per sottopormi a liposuzione...volevo appunto chiederti se potevi enucleare questo concetto: L'importanza del soffritto come base della cultura e dell'identità italiana

DP Si, effettivamente, hai detto bene, secondo me, proprio in quest'epoca di regionalismi esasperati, l'unione italiana si basa sul soffritto. Ma proprio perché è impossibile smentirla: nessun padano potrà sfidare questa evidenza...cambia effettivamente il grasso utilizzato, cioè si può utilizzare il lardo, la sugna (grande amore per la sugna!), ovviamente l'olio di oliva, il burro...però tutti rispettano il punto che la cucina italiana si basa sul soffritto. Secondo me è questa la nostra grande caratteristica che io, vivendo in Francia,cerco di spiegare: è inutile parlare di cucina italiana se non imparate questa regola di base che è il soffritto. E in effetti questo soffritto secondo me  funziona...se si aggiunge olio. Per esempio, una pasta al sugo, secondo me funziona se si vede alla fine il bordo giallo, altrimenti... è nichilismo.


CZ Scusa, devo comprare un pacchetto di Kleenex, mi sto commuovendo.

Due domande fondamentali sul soffritto. La prima:
 vogliamo fare una raccolta firme, tipo quelle che sottoscrive Saviano, per la reintroduzione dello strutto nelle mense scolastiche?


DP Si, si, difatti ora su "Change" dobbiamo lanciare una petizione sull'uso dello strutto. Mi accorsi del problema dello strutto quando una volta dovevo fare i pasticciotti, i pasticciotti salentini, un dolce tecnicamente molto semplice: pasta frolla e crema pasticcera, ma con questa leggerezza insolita della pasta, questa fragranza, che non si trova per esempio nelle crostate romane, che sono molto dure, mi resi conto che la base di questa leggerezza, di questa fragranza era lo strutto.

Andai dal macellaio a Roma e chiesi dello strutto.e lui mi rispose: "Non lo facciamo". Io risposi che lo strutto è insito nel maiale, non è che lo devi produrre...


CZ Si procuri un maiale...



DP ...ma lui mi rispose: "Non se lo compra nessuno". E li mi resi conto della gravità, perché molte cose acquisiscono un gusto migliore proprio grazie allo strutto. Detto ciò, la gente potrebbe pensare: "Ma questo mangia sempre grasso!", e invece è completamente falso. L'uso di uno strutto sano si fa ovviamente con ponderazione, è completamente folle questa idea che usare lo strutto o friggere voglia dire mangiare pesante. Hanno completamente travisato il concetto di uso dello strutto. Lo strutto, la sugna, il grasso uno li usa poco, mica ogni giorno...però quando uno deve fare le cose per bene le devi fare per bene, e quindi..usi la sugna!!!



CZ Standing ovation interiore.

Domanda ora più tecnica; nel soffritto aglio e cipolla come convivono? E' una deformazione orientale, o anche nella nostra tradizione possono essere compresenti?

DP Questa è la domanda più difficile che mi è mai stata fatta.

Intanto, non c'è una regola. Ci sono litigi sconvolgenti già solo sull'uso dell'aglio o della cipolla in sé, ad esempio nel sugo. Con un napoletano ho rischiato pesantemente la perdita dell'amicizia, perché prediligono  l'aglio e non la cipolla. Là c'è una questione di educazione familiare, non c'è nulla di più complicato che infrangere delle regole familiari sull'uso del soffritto. Noi per esempio nel sugo mettiamo la cipolla, ma quando ho provato a spiegarlo al napoletano "nun me capiva", ripeteva: "No, se mette l'aglio!".  Insieme, si possono usare in alcuni piatti,  possono dare risalto ad esempio se si fanno i saltati di legumi, di ortaggi, l'unione spacca! Danno due sapori diversi, e quindi è come si utilizzassero i piselli e le fave, danno una composizione diversa di sapori. Sul sugo, per esempio, ne metterei solo uno, non ce la farei a metterli entrambi.

CZ Nella Carbonara ce la metteresti la cipolla?


DP No.


CZ Nell'Amatriciana (da romano faccio domande per locali)?


DP Nell'Amatriciana...ci può stare. Un'altra cosa importante: un'altra petizione importante che io farò è: quando dicono che non bisogna sfumare l'aglio perché diventa tossico...con tutte le cose che ci mangiamo, mi rompi il....perché non posso bruciare l'aglio?!!

La pasta con le cozze se non bruci l'aglio che senso ha....è l'asse portante la bruciatura dell'aglio! Anche nelle orecchiette con le rape, aglio e acciughe....devi brucià l'aglio...sennò, come dire...sei un cojone!
Quindi altra petizione su...






CZ Ch-ch-changes!

Un'aspetto interessantissimo nel libro è la menzione de "La Terra del Rimorso" di Enrico De Martino, in cui lo studioso, da marxista, lamentava lo smarrimento della tradizione magica popolare, delegata unicamente alla acquisizione della Chiesa. A te che provieni da terre pregne di cultura magica, chiedo: quanto la cucina è alchimia?

DP E' alchemica e messianica. C'è un elemento mistico, ma nel senso profondamente umano. Non c'è niente di metafisico, né di religioso, nella misura in cui il termine religioso implica una delega a qualcun altro.


CZ Certo, magari nel significato  etimologico (da "rilegare", unire) che è molto più bello.


DP ...nel senso di dimensione irrazionale, assolutamente si. La cucina è completamente irrazionale...chiedi una ricetta a una signora, è un suicidio!! Non ti dà mai una dose precisa...una volta a Palermo chiesi a una signora una ricetta che era qualcosa di sconvolgente, lei mi rispose: "Me la sono sognata stanotte!" E quindi non sapeva dirmi nulla...


CZ Ci vorrebbe Jung...il regno della pura intuizione!


DP..e li ti rendi conto che si tratta di una dimensione irrazionale, e consapevole allo stesso tempo, in cui c'è una conoscenza ancestrale di gesti antichissimi ma insieme c'è qualcosa che può accadere solo in quel momento preciso. Un elemento emotivo che, tra l'altro, si collega al fatto che stai cucinando anche per gli altri. C'è questo elemento affettivo che rende quel piatto (teoricamente realizzato da una mera serie di gesti e ingredienti) qualcosa di completamente irrazionale e profondamente umano. Mai riproducibile nello stesso modo. Quindi, in questo senso, alchemico.




Per me ormai è come il "Libretto Rosso"


CZ Credo potrei scrivere un articolo a riguardo più lungo di quello su Dylan...mi vengono in mente McEnroe nel tennis, o Baudelaire in poesia...superare la forma attraverso la perfetta conoscenza della forma stessa...trascendere le costrizioni della forma attraverso il perfetto dominio della prassi...


DP Infatti, McEnroe non l'ha mai detto, ma insieme a Coltrane ha mangiato la parmigiana di mia nonna (grande leitmotiv del libro NdT)...prima delle più grandi vittorie mangiava sempre la parmigiana di mia nonna...per lui era come la banana di Chang...



CZ AHAHHA...Non mi ricordo invece quale giocatore una volta agli Internazionali di Roma stava per vincere con Federer tipo per la prima e unica volta...e si dovette ritirare per indigestione da straccetti hahahah---


DP hahahahahahah!!!


CZ Ora, affrontiamo il cuore del libro: questa bellissima intuizione di accostare ricette ad artisti musicali (già ti aspetti la domanda che ti farò ovviamente...)...vorrei che ci parlassi della cucina come sinfonia! Non solo la ricetta, ma proprio la gestualità del cuoco (c'è un brano bellissimo nel libro quando descrivi il parmigiano che scende dall'alto come neve, quasi come manna...). Quanto c'è di artistico e di "compositivo" nella cucina?


DP Beh, certo, sicuramente l'elemento sinfonico è nei passaggi, nelle diverse fasi...


CZ Infatti, il libro stesso è costruito, ritmato quasi, sui movimenti di una sinfonia...


DP Esatto. Dal momento dell'acquistare, anzi, dal momento di pensare cosa cucinare. Poi, il momento dell'acquistare, e quindi il cambiamento improvviso, perché non trovi l'ingrediente che ti serve. Poi, il momento del cucinare, e il momento dell'offrire. Già questa è una sinfonia. All'interno di ogni movimento c'è una serie di momenti emotivi, quindi è sinfonica perché ogni momento ti porta a vivere un differente stato d'animo.Quando ho cominciato a parlare di cucina e musica mi riferivo soprattutto all'atto del cucinare e non del consumare. E poi c'è l'altra sotto-sinfonia che sono: antipasto, primo, secondo e dolce.


CZ L'antipasto è l'ouverture...


DP Rappresentano degli stati emozionali che cambiano radicalmente...


CZ Sempre collegato al discorso alchemico, è come se fossero le diverse fasi dell'Opera...


DP L'antipasto di fritto è "Allegro", poi viene ovviamente il "Largo"...


CZ Un elemento per me di grande interesse, collegato sempre al discorso della cucina come superamento delle identità regionali, è il fatto che tu colleghi i piatti della tradizione nostrana ad artisti in realtà di tutte le culture e i paesi (...splendida la citazione ad esempio del grande Nusrat Fateh Ali Khan). Le tue origini sono nel Salento, Carmelo Bene parlava di "bisticcio etnico" a riguardo (lo trovate QUI). Tu pensi ci sia una ricchezza (al di là degli abusati luoghi comuni) costitutiva, etnicamente, che possa ispirare una forma mentis come la tua, capace di tali associazioni per me intuitive, ma per molti magari assurde...





DP La domanda è bella, e me la sono posta tante volte. Teoricamente, il Salento è un luogo arretrato, di destra, così è sempre stato. Mi cambiò completamente l'opinione del Salento, lo racconto nel libro, quando ci fu l'arrivo degli albanesi. Un momento drammatico, in cui al contrario del Nord è già di per sé una minaccia a prescindere, per noi la prima reazione è stata il gesto dell'offrire: "Questi stanno arrivando dopo un viaggio allucinante...diamogli da mangiare, poi vediamo che succede!" . Non ci si è posti proprio il problema. Parlando con un leghista, col quale teoricamente ci si poteva parlare, rimasi sconvolto, compresi il concetto dei gesti ancestrali fra i cattolici...


CZ Infatti, deriva dalla Magna Grecia, ancora prima dall'India, l'idea che l'ospite è sacro, perché in esso può celarsi il dio...


DP Esatto. Leggendo l'"Odissea" infatti mi sono reso conto che ad ogni tappa del suo viaggio ad Ulisse offrono le braciole,  lo accolgono un canto e del vino. Questo aspetto è profondamente radicato in Salento. La caratterizzazione del Salento fondamentalmente è quella di un'isola abbandonata, sottosviluppata, ci si impiegavano ore per arrivarci, in un'arretratezza devastante. Questo ha favorito il mantenimento di codici ancestrali, antropologicamente immutati, al contrario di altri luoghi che li hanno smarriti nello sviluppo. Questo ha creato il corto-circuito rispetto alla contemporaneità: nel momento in cui la contemporaneità non sa rispondere a determinate dinamiche, ti rendi conto che nei meccanismi ancestrali si risponde in maniera equilibrata.


CZ Certo, poiché è una saggezza eterna. Quindi, è sempre attuale.


DP Ed è di tutti. Non è che il fascista non ce l'ha. E' pre-politica e pre-cattolica. Il che rende questa zona particolare. Chiaramente, luogo di mare, luogo di invasioni...non so dire se c'è un discorso culturale, di sovrastrutture che si siano create, ma sicuramente la persona che arriva non è considerata un nemico. Anche l'invasore, a un certo punto t'insegna qualcosa. Non so perché, ma è un popolo tollerante. Tollerante perché curioso. Il mio lavoro nasce proprio dall'attitudine di non porsi il problema di una cosa, prima che avvenga. Ciò che in Maghreb esprimono con "Inch'Allah!".


CZ Arriviamo alla domanda clou...

...noi ci siamo conosciuti tramite Laura Cionci (di cui abbiamo parlato QUI )e al mio delirio fluviale su Dylan...tu lo citi nella prefazione, però nel libro manca una ricetta su di lui...Ora è vero che come correttamente illustrato in "I'm not there" Dylan è una Sfinge dai numerosi aspetti, non so se puoi riassumerlo in una ricetta...a quale piatto istintivamente lo assoceresti? Puoi anche dividerlo in periodi, se vuoi...prima e dopo la svolta elettrica etc...

DP Hahahahahhaha! Premetto che stava nei primi due libri: in "Food Sound System" e in "Wine Sound System". Nel primo lo associavo al risotto con gli asparagi selvatici. "Blowin' in the Wind" diventava ovviamente "Blowin' in the Wine"! Ci tengo a dire questo: cosa mi rende assolutamente folle riguardo Dylan? Innanzitutto che qualsiasi musicista successivo negli anni'60 e '70 lo considerava una sorta di divinità..


CZ ESATTO! Lo dico sempre...


DP Jimi Hendrix...





CZ John Lennon...





DP I Rolling Stones...





CZ e DP in coro: TUTTI!


DP ...ma anche nei gruppi garage, tutti facevano le cover di Bob Dylan...ha sconvolto la Storia... ma perché non gli danno il Nobel?!


CZ Ma infatti la cosa che dico sempre quando parlo della grandezza unica di Dylan è: non è che lo dico io!!!  Tutti i più grandi dicono che lui è il più grande. Magari, a uno può piacere più, che so, Neil Young o Leonard Cohen, ma che lui sia il Cantautore Padre è oggettivo.


DP E' come Omero.


CZ Fernanda Pivano diceva: "è l'Omero del XX° secolo".


DP Una cosa che spiega benissimo il senso del lavoro è alla fine di "I'm not there"...si mostra tutto il tempo quanto lui abbia lottato contro il ruolo di "Salvatore della Tradizione" al quale era stato relegato...lui dice una cosa che ogni volta che lo vedo piango: non puoi salvare la Tradizione, è la Tradizione che salva te, perché è un movimento popolare, irrazionale che per raccontarti ti parla, ora non ricordo esattamente, degli orologi come cocomeri...la musica tradizionale non ha bisogno di essere protetta, è sacra. Ma è sacra nel movimento intimo delle persone (QUI trovate il brano alla fine della pagina in inglese), e quindi lui che fu al contempo il più grande scopritore e il più grande violentatore della tradizione


CZ Proprio il profanatore del Tempio a Newport...







DP...esatto, per me quello è stata la più grande lezione sul senso del mio lavoro. A me una volta chiesero di fare un lavoro sulla tradizione salentina, e per me i Sud Sound System sono la più grande esperienza a riguardo, proprio perché la pizzica era scomparsa, e attraverso di essi che mettevano gli stornelli sul Ragamuffin' si riscoprì completamente l'orgoglio e la coscienza del popolo. Ancora una volta, l'elemento democratico dell'oralità, come del cibo. Per me oralità e cibo fanno parte di questa sapienza democratica e popolare.

Quindi, Dylan diceva in fondo non c'è proprio bisogno di parlare di Tradizione, la Tradizione è nei fatti. Il pericolo, chiaro, è quando si rompe, ma l'oratore, il raccontatore della Tradizione per forza di cose deve discostarsi da essa, per poterla raccontare. Ma ce l'ha dentro, è qualcosa che si tramanda attraverso il movimento intimo delle persone. Quel  bellissimo discorso di Dylan mi permise molto di pormi di fronte alla Tradizione in modo sano e onesto.
Io devo tutto alla Tradizione, e proprio per questo posso mischiarla.

CZ Comprendo perfettamente.





DP Come ricetta: per la prima parte della sua storia secondo me era corretto il risotto con gli asparagi selvatici, un piatto buffo. Teoricamente il risotto sappiamo è del Nord, ma gli asparagi selvatici hanno per me una storia familiare molto buffa. Mia nonna, come ogni autentico raccoglitore di asparagi, non rivela il luogo della raccolta, deve rimanere segreto. A un certo punto, per arrampicarsi, scivolò e si ruppe una caviglia , ma pur di non rivelare il posto tornò a casa con la caviglia rotta. E là fu obbligata a 80 anni a prendersi un cellulare, ma la cosa impotante era non rivelare il posto segreto. Quindi, il risotto con gli asparagi è la cosa più tradizionale in quanto assolutamente selvaggio...il primo Dylan era brutale, era la perfezione della semplicità...


CZ La spontaneità assoluta...


DP Spontaneità, ma di una perfezione assoluta...l'equilibrio, il risotto con gli asparagi è delicatissimo, quindi bisogna lavorare molto sugli equilibri, che sono infinitesimi...e che Dylan era in grado magnificamente di gestire, una macchina perfetta a partire da niente...


CZ Due accordi, una voce "stonata"...


DP Uno che "non sapeva cantare" ed è diventato il più importante dei cantanti...la seconda fase, che è altrettanto importante..."Like a Rolling Stone" è qualcosa di sconvolgente per l'umanità intera!...(prende tempo per riflettere)....qui ci devo mettere del meticciato...è poi una canzone lunga...direi la Scapece, le sarde alla scapece...una versione delle sarde in saor, in ogni nazione mediterranea c'è questa parola, che tra parentesi è ebraica, in cui per conservare il piatto, intanto friggi, poi metti aceto, pane vecchio, zafferano, quindi ci sono tutte le regole fondamentali: il meticciato, la conservazione, la frittura...hai la sintesi dell'umanità, e quindi della musica...e quindi Bob Dylan. Qualcosa di assolutamente meticcio e assolutamente antico. Come "Like a Rolling Stone". Non è che Dylan avesse dimenticato la Tradizione, ci stava assolutamente dentro, cambiava semmai la forma, nell'essenza ribadiva di essere sempre se stesso.






CZ Infatti, Johhny Cash, alfiere e custode della Tradizione, diceva di non rompergli le scatole, "il ragazzo sa quel che fa" (QUI trovate le sue celebri e splendide parole sul giovane Dylan)


DP Appunto. Ma perché nel fondo non c'era nessuna rottura. Era la gente che era pazza, erano fanatici in maniera surreale, come si può vedere. E' anche vero che lui aveva talmente scombussolato l'identità delle persone che questi lo vedevano come un dio in terra. Ma era un problema loro, non era un problema suo.

CZ Esatto.


DP ...E quindi la Scapece mi piace perché è tradizionale e meticcia, popolare e raffinata allo stesso tempo, è rock e molto complessa, come appunto le sarde in saor, la pasta con le sarde siciliana... ci sono equilibri interni che raccontano tutta la storia dell'umanità.


CZ Già che ci siamo: Bowie come lo cucineresti?


DP Ti confesso di non essere un grande grande amante di Bowie, ho sempre avuto un rapporto un pò conflittuale...per carità un genio, ma l'ho cominciato a conoscere tardi, venivo dal punk, era troppo "raffinato" per me...più andavo avanti però mi rendevo conto che era un genio assoluto, troppo complesso rispetto al mio gusto...quindi l'ho sempre visto come un'amante, non una relazione stabile, ma contrastata...mentre adesso ho cambiato i miei gusti, li ho sviluppati, quindi quando ascolto Bowie dico solo: "E' meraviglioso!" . Allora, direi ovviamente una cosa raffinata. Vivo a Tolosa, la patria dell'anatra, anche questo piatto che nasce popolare. Ricordiamoci che Bowie è un raffinato ma non "fighetto", anch'egli a suo modo punk, ribelle...


CZ Beh, con "Rebel, Rebel" ha scritto proprio l'inno di quella generazione, anche se in anticipo...




DP L'anatra, al contrario di quello che si possa pensare, è assolutamente un  piatto popolare, è il piatto più povero che si possa pensare. Tra l'altro, l'anatra si cucina nel suo grasso, che è leggerissimo in realtà. Anatra, ovviamente all'arancia, che è un piatto complicatissimo da realizzare, ma io lo faccio così: conservo un pò di grasso dove cucinarla, ci metto delle scorze di arancio (trucco che ho imparato in Maghreb), taglio in fettine molto fine e cuocio nel succo di arancia. Secondo me è allo stesso tempo dolce e amaro, si sentono proprio basso e batteria forti...


CZ Bowie classico anni'70, con Mick Ronson...


DP Si, Bowie anni '70. Un piatto rock, ma elegante, sobrio, solido, nel senso vero, con alla base basso e batteria.


(In questo momento nel bar appare Laura Cionci!!! Effetto "Carramba che sorpresa!" I due non si vedevano da dieci anni....)




Mi appoggio a due colonne: Laura Cionci e Don Pasta




CZ A questo punto domanda obbligatoria. Tu hai deciso di trasferirti a Tolosa. Come vivi questo tuo essere esule, con rimpianto o convinzione?


DP Lo vivo in maniera drammatica e conflittuale. In realtà, è un piccolo esilio, non ho problemi drammatici...ma come dire: me rode er culo!

L'esempio emblematico è "Soul Food", avevamo fatto un lavoro lunghissimo per parlare di resistenza attraverso l'agricoltura, realizzando progetti importanti, l'anno scorso portando detenuti a cucinare fuori durante le "cene carbonare", etc... Al di là degli artisti prestigiosi che hanno partecipato, non ci hanno mai dato un finanziamento, non ci hanno mai cercato..

CZ In Italia, dici...


DP In Italia. Come se non esistessimo. Come se non fosse un progetto, non dico importante, ma culturalmente e socialmente utile. Questa è la ragione per cui me ne sto in Francia, perché in Francia come succede ogni volta un progetto così me lo finanziano! E questo mi permette di vivere in maniera coerente il rapporto fra arte e società. Per la cultura francese è fondamentale che gli artisti possano vivere in maniera coerente la loro dimensione e portare i dilemmi attorno al rapporto tra arte e società

In Italia, non gliene frega niente. Ogni soldo viene speso all'interno di un sistema di clientele, a destra come a sinistra, quindi il dramma è che me ne devo stare in Francia, perché qui non si possono fare lavori seri e svilupparli serenamente. Mi manca tantissimo l'Italia.
Quando faccio le cose in carcere in Francia mi pagano, qui lo fai se hai voglia di farlo, solo l'idea che un artista possa dare il suo contributo e campare di questo onestamente qui è una barzelletta. Non si pongono proprio il discorso: soldi = bene pubblico, soldi = strumento per far bene alla comunità. Si è rotto proprio il meccanismo. In Francia, devo dire, il soldo pubblico per la cultura serve per sostenere democraticamente la comunità.

CZ Il paradosso evidente è che i paesi culla della cultura europea, Grecia e dopo Italia, sono quelli che investono meno nella cultura, e non a caso soffrono economicamente. Il paradosso più osceno.


DP Quindi, l'esilio lo vivo male. Il mio lavoro è legato alla cultura popolare italiana. Lo spettacolo sulla parmigiana in Italia me lo ha finanziato l'ambasciata di Francia!!!


CZ In Italia?


DP A me il tour in Italia me lo ha finanziato l'ambasciata francese! E stavo male, non me lo sono goduto per niente. Per loro è normale, attraverso il finanziamento pubblico tu usi soldi per creare bellezza per tutti. Alla Provincia di Roma, con tutti gli assessori presenti alla manifestazione, niente.


CZ Ultima domanda, chiudiamo in allegria.

Ma la famosa foto col pugno chiuso e la presina...è un omaggio a Frank Zappa?




DP CERTO!!







Abbracci, commozione, esplosione d'amore fraterno!




Concludiamo con un brano indimenticabile del libro, che per noi, è proprio il caso di dirlo, ha il sapore di un manifesto: "Abbiamo bisogno di spiriti insoddisfatti dai realismi. Di barattoli conservati a bagnomaria, senza bisogno di microonde. Mettiamo a disposizione il nostro savoir faire. Esperti e pluridiplomati in cazzeggio.

...Siamo paladini della chiacchiera inutile. Siamo il partito degli occhi rivolti verso il cielo.
Siate carbonari sino in fondo. Esercitatevi alla perdita del tempo.
E soprattutto, strutto, strutto, strutto.
Votate Donpasta!"

Finalmente, un candidato degno di rappresentarmi!





mercoledì 8 maggio 2013

Anni '50: Bob Dylan e David Lynch

E' con grande onore che ospito sulle pagine di http://contezarganenko.blogspot.it/
un articolo di Davide Martirani, pubblicato tempo fa sulle pagine di un compianto blog, "Il Grande Roe". Una riflessione di alto livello su due ricorrenti protagonisti di queste pagine:
Bob Dylan e David Lynch.
Buona Lettura.


Stavo ascoltando questa singolare compilation, una raccolta delle canzoni proposte da
Bob Dylan (nel bizzarro ruolo di DJ), durante il programma radiofonico Theme Time
Radio Hour
, andato in onda dal 2006 al 2009.
Com’è noto a chi ancora segua His Bobness, negli ultimi anni la musica di Dylan si
è mossa sempre di più verso sonorità e atmosfere anni ’50. Lo stesso look da cow-
boy, che ricorda analoghi travestimenti di Elvis, per quanto ai limiti del ridicolo sulla
figura sparuta e rinsecchita del vecchio Zimmerman, indica una volontà ben precisa di
ricollegarsi alla matrice country-blues da cui, a suo tempo, era sorto in lui il demone
della musica. Una sorta di amniotico ritorno alle origini.
La conferma di questa intenzione è proprio la scelta dei brani proposti in Theme Time,
che si arena fatalmente all’inizio degli anni ’60, e sciorina una miriade di artisti tra
jazz, blues, country e rock i cui nomi credo facciano ai più lo stesso effetto che hanno
fatto a me: blank face, direbbero gli inglesi. L’unico pezzo che davvero potevo dire di
conoscere prima di ascoltare il disco era questo – famosissimo – degli Everly Brothers:



E, anche lasciando da parte l’aria spettrale dei due fratellini, già qui c’è un punto di
partenza: il tema del sogno che è voluttà e rovina al tempo stesso (I’m dreaming my life
away) introduce bene una sorta di discorso sotterraneo che mi pare di ritrovare altrove,
in primo luogo – ovviamente – nella produzione recente dello stesso Dylan. Con alterne
fortune, infatti, zio Bob ha tirato fuori negli ultimi anni un gran numero di pezzi che
sembrano apparentemente usciti dai tempi di Chuck Berry. Dico apparentemente perché
non serve neanche un secondo ascolto, a mio parere, per cogliere il contrappunto
di disperazione che rivela subito il radicamento di questi componimenti nel suolo
avvelenato della contemporaneità. Sentiamone uno (uno dei migliori), dal suo disco del
2006 significativamente intitolato Modern Times. Il pezzo è "When the deal goes down",
cioè più o meno “quando il destino compie il suo corso”, “quando arriva l’ultima ora”, e
cose così.                                                          
Il brano, con la fondamentale cornice iconografica del video (lo trovate QUI), rappresenta
 al meglio il punto in cui la laudatio temporis acti diventa qualcosa di più che semplice nostalgia, e si rivela per quello che, al suo fondo, è: un terremoto dell’animo, un gesto di
contestazione radicale verso un mondo (il mondo) capace solo di distruggere, ferire,
annientare nel suo corso ogni attimo di felicità (more frailer than the flowers,
these precious hours), non lasciando dietro di sé che un cumulo di macerie, o una
registrazione sfocata in super8. "I heard the deafening noise, I felt transient joys. I know
they’re not what they seem": il “rumore assordante” è appunto quello del mondo, sotto
il cui rullo compressore vengono schiacciate le “gioie effimere” che “non sono ciò che
sembrano”. Il moralista nostalgico, dunque, si rivolge a un passato particolare solo come
tramite per quello che è il vero oggetto del suo desiderio: il passato ideale, assoluto,
perfettamente felice perché ormai cristallizzato, sottratto alla crudeltà del caso (cioè,
in ultimo, del movimento, del molteplice). Il passato come forma, più che sostanza del
tempo.
"You come to my eyes like a vision from the skies". Ed è certo una visione celestiale (in
senso tecnico, non trivialmente iperbolico) Scarlett Johansson, in una muta ma non per
questo meno efficace interpretazione della ragazza di provincia anni ‘50 *. La
morbidezza luminosa del suo corpo, l’incerta coscienza di un fascino offerto senza
calcolo, lo sguardo che ogni tanto si offusca sotto la nube di tristezze ignote: tutto
concorre a rinforzare la sensazione di rimpianto, di perdita. Come di qualcosa che si
aveva a portata di mano in abbondanza, e che ci si è lasciato sfuggire per folle,
imperdonabile leggerezza. Una donna così – che instillerebbe anche nei cuori più
corazzati da un gelido razionalismo il dubbio di una volontà superiore, di una scintilla di
luce ultraterrena – non solo era presente e viva, nell’universo impalpabile e semi-onirico
degli anni ’50, ma era una presenza quotidiana, familiare, che giocava con i bambini,
lavava i piatti, si spaventava nel tunnel degli orrori al luna park, divinamente
inconsapevole del proprio status empireo ("Ella si va, sentendosi laudare, /
benignamente d'umilta' vestuta"). Proprio come accade di solito, ci si accorge di tutto
questo con evidenza bruciante solo nel momento in cui si è costretti a constatarne la
perdita irreversibile. Ed ecco allora che la nenia tranquillante dalle sonorità vintage
rivela una composizione molto meno anodina di quanto apparisse in principio, e i
quadretti stucchevoli del tempo che fu si mostrano intessuti del filo amaro delle Parche.
Ma che gli anni ’50 nell’immaginario americano – e quindi, in parte, anche nel nostro -
siano una sorta di buco nero, di abisso in cui l’innocenza perduta si mescola alle tinte
cupe dell’orrore e della morte, era stato messo in chiaro già con grande forza altrove.
Prima ancora dei torbidi liceali di "Twin Peaks" – agghindati anacronisticamente come
i loro coetanei di trentacinque anni prima – la mente di David Lynch aveva operato
il cortocircuito tra passato e presente creando la cittadina di Lumberton, ridente e
bigotta comunità degli Stati Uniti settentrionali, percorsa da una corrente sotterranea
di perversione e violenza. In una scena giustamente famosa, il cattivissimo Frank Booth **
ordina a uno dei suoi sgherri di “cantare” (di fatto interpretare in playback) il classico
pezzo di Roy Orbison, "In dreams".


L’irrompere della voce malinconica di Orbison nella stanza in cui sono assiepati i
malviventi crea, come spesso accade in Lynch, un fortissimo effetto straniante; a
Hopper bastano poche inquadrature per suggerire alla perfezione il travaglio di Frank,
per convincerci all’istante dell’autenticità e della profondità della sua sofferenza,
portandoci a simpatizzare – almeno fugacemente – per uno dei villain più spietati del
cinema. Perché è evidente, in questi due minuti scarsi, che in quella melodia così
educata e per bene scorre un universo di dolore appena coperto dalla compostezza
dell’arrangiamento. E quello che si legge sul volto di Frank, mentre ascolta straziato il
salire di tono del ritornello, è esattamente quello che avevamo trovato nello scenario
dipinto da Dylan: il desiderio di recuperare un mondo perduto, di riaprire per un
attimo il varco di accesso verso una realtà pacificata, emancipata dalla violenza degli
ingranaggi che presiedono alla vita, e sottoposta al dominio incontrastato di un’unica,
gloriosa potenza d’amore.
Ma questo, appunto, può accadere solo nel sogno o nella memoria: laddove cioè le
connessioni tra le cose impallidiscono fino a disfarsi, e lasciano il posto a nuovi e più
giusti vincoli***. Però – e qui sta la vertigine – gli anni ’50 non coincidono con questa
dimensione onirica, ma verso questa a loro volta tendono nella disperata ricerca di
pace, di liberazione dal tormento del desiderio. Di nuovo, la vita reale viene rigettata e
sminuita in favore dell’autoannullamento, della dispersione di sé nel mondo dorato del
sogno ("I close my eyes, then I drift away, / into the magic night I softly say / A silent
prayer, like dreamers do, / then I fall asleep to dream my dreams of you").
Per chi li osserva da qui, allora, è inevitabile l’attrazione per quell’apparenza
dolcemente armonica, risolta. Ma è un attimo; e presto i segni non mistificabili di
una paura vecchia come il genere umano cominciano ad agitarsi sotto la superficie,
turbando, distorcendo la cara immagine della felicità antica fino a ridurla alle
sembianze di un orrore senza tempo.


*Ruolo, peraltro, già coperto brillantemente al principio della sua carriera, in quell’altro incubo a occhi aperti che è il magistrale film dei fratelli Coen, "L’uomo che non c’era". A proposito di lato oscuro degli anni ’50.

** E qui il pensiero corre per forza al titanico Dennis Hopper, che lo interpretava, e che ci ha da poco
lasciato
.

*** “Sappi che dal vero al sognato, non corre altra differenza, se non che questo può qualche volta essere molto più bello e più dolce, che quello non può mai”, dice il Genio a Torquato Tasso.