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venerdì 18 gennaio 2013

Where are we now?

L'8 gennaio è stato il sessantaseiesimo compleanno di David Bowie.
La tentazione di tributare un omaggio era francamente irresistibile. Anzi, talmente forte da tramutarsi nel suo opposto: obbligo morale.
Se però il cuore traboccava di ghirlande filologiche e turiboli critici con cui accostarsi all'altare in madreperla dell'intatto idolo, la mente frenava il devoto palpito sulla soglia del tempio, obliterando la cerimonia con l'arida innegabilità del calcolo razionale.
All'entrata del Sancta Sanctorum su ogni critico incombe la mannaia del rischio più minaccioso: la noia del catalogo museale.

Avevo, dunque, già con tormento riposto i paramenti liturgici quando...
Hallelujah!
Con un colpo di teatro all'altezza del suo leggendario carisma, Godot è apparso, in tutto il suo stordente splendore, pubblicando a sorpresa un nuovo brano, "Where are we now", che addirittura preannuncia l'uscito di un nuovo disco, "The next day", per il prossimo marzo.
Nel 2003 intervistato dal suo grande fan Jonathan Ross, che notava sorpreso come il suo nuovo disco ("Reality") sorprendentemente seguisse il precedente ("Heathen") appena dopo un anno, Bowie, nel suo amabile humour, rispose: "Si, il prossimo uscirà fra 5 settimane...". Sono passati 10 anni.

Un nuovo disco dopo 10 anni di silenzio praticamente assoluto.
Questo di per sé è un evento.

Come avrebbe detto il buon vecchio Gianni Brera: in alto i canti e le bandiere per il Duca Bianco.
Ma c'è già chi non vuole festeggiare.
Non mi riferisco alle lamentazioni geriatriche di Mario Luzzato Fegiz sul "Corriere della Sera" (peraltro perfettamente coetaneo di Bowie, c'è di che riflettere)...del resto, in prima fila a guidare le celebrazioni c'è Lady Gaga...meglio stare con l'arcigno critico moraleggiante
Parlo della reazione fredda o delusa di alcuni fan sui social network.

Ho deciso di pubblicare con una settimana abbondante di ritardo, per evitare giudizi dettati da reazioni emotive.


Diciamolo subito: al primo ascolto mi sono emozionato.
 Non certo per l'ingenua acriticità del fan assetato da dieci anni di siccità, il quale, ormai rassegnato a trascinare nel deserto le reliquie di glorie passate, si ritrova a danzare ebbro di gioia alle prime gocce che cadono dal cielo avaro, purché siano appena potabili.
Non sono fatto così.
Come tutti i sacerdoti d'un culto, la mia priorità è difendere l'ortodossia.
 Le precedenti uscite di Bowie avevano destato certo interesse, stimoli, suggestioni, ma anche molte perplessità.
Non molte emozioni.
Stavolta è diverso. Ancora al ventiquattresimo ascolto (svanito ormai l'effetto sorpresa) l'emozione rimane. Potente e autentica.
E non è certo la voce impostata sul rimpianto straziante, o il tono minore degli accordi a generare commozione. In pochi versi, Bowie, come poche volte prima, espone l'anima nuda nello smarrimento esistenziale, senza maschere, senza travestimenti, senza il conforto del grande gesto estetico a velare le ferite interiori. Ed è ovviamente toccante intuizione, oltre che prodigio d'introspezione, il richiamo a Berlino, a quella Berlino, capitale magica per ogni fan di Bowie, culla creativa della rinascita straordinaria di fine anni '70.

C'è chi potrebbe accusare il ritornello di essere oggettivamente debole, con le sue ripetizioni facili facili ("The moment you know, you know you know")
Ma in realtà è proprio nei suoi capolavori minimali della trilogia berlinese, che Bowie giunse al culmine del suo percorso alchemico sulla forma canzone pop: nell'apice della ricerca sperimentale ha trovato la chiave del segreto per la conquista trionfale del mainstream, pochi anni dopo.
Mi spiego meglio.
E' anche giocando su le ripetizione di "You" e "I" che si è raggiunta l'epica essenzialità di "Heroes".
Gli anni di Berlino sono, come tutti sanno, non sono solo quelli della magnifica trilogia
( "Low", "Heroes" e "Lodger") ma sono anche quelli della resurrezione di Iggy Pop, di cui il Nostro co-scrive e produce le due gemme di delirio, "The Idiot" e "Lust for life", i cui bagliori luciferini ancora illuminano le performance dell'Iguana come vette intramontabili.
Ora, non tutti ricorderanno che il repertorio del Bowie inizi anni'80, del Bowie idolo romantico delle folle, che si contendeva con Lady Diana le prime pagine dei giornali, che duettava in giacca e cravatta con Tina Turner...ebbene quel repertorio proveniva dalle oscurità subconscie del garage ermetico berlinese.
Gli stessi versi sussurati dal Bowie compassato che scalava le classifiche, erano quelli pochi anni prima urlati come un animale torturato dall'Iggy post-rehab.
L'oltraggio della controcultura diventa ritornello canticchiato da tutti sotto la doccia.
Questo è genio (torniamo a Baudelaire, "creare luogo comune è genio").
 Una delle chiavi del genio bowieano è proprio nel estendere all'infinito la tensione romantica (attraverso una teatralità eccessiva, quasi dannunziana) per poi discioglierla con sofisticata ironia in una imponderabile ambiguità.
Una sorta di versione pop della "sospensione del tragico" di Carmelo Bene.
Ad esempio, qui lo troviamo come un attore alla Bogart ("and i felt like an actor", potrebbe essere messo in calce ad ogni sua esibizione dal vivo), in un vertice di commozione romantica pura (1.22), che si svela "parodia della vita interiore" (come appunto si disse di "Nostra Signora dei Turchi"), spazzata via dalla folle ironia di "TAKE ME TO THE DOCTOR!"






Stavolta, invece, niente giochi, niente infingimenti.
Un cosmo di riferimenti, di autocitazioni, di gloriose memorie, dissolto in un purissimo dolore esistenziale.
  E' per questo motivo che "Where are we now" è un brano insieme intelligentissimo, elaboratissimo e commovente, pur essendo all'apparenza banale.



Ora, non intendo fare l'avvocato di uno degli artisti più venerati del pianeta.
Preferisco invece approfondire una questione estetica che riaffiora ogni qual volta una vetusta autorità (non solo nel rock) scende dal pantheon per rigettarsi nella polvere bruciante dell'agone artistico.
Come già ho fatto nel breve passato di questo blog, porrò come pietra di paragone per guidare la riflessione, l'icona più enigmatica, prima dello stesso Bowie, della cultura pop contemporanea: Bob Dylan.

Chiarisco, non lo faccio perché Dylan è per me il più grande artista popolare del Novecento.
Lo faccio, perché egli E' (è stato e sarà) la pietra di paragone, l'esempio, l'antesignano, il modello, il padre da uccidere, la vetta da raggiungere e, se possibile, da superare, per tutti i grandi mostri sacri, Bowie incluso.
Egli è letteralmente il mito dei miti, la leggenda delle leggende, l'idolo degli idoli (e lui che ama così tanto il Vecchio Testamento e, in esso, il Cantico dei Cantici riconoscerebbe l'eco cabalistica di tali iperboli).
Non lo dico io, lo dicono, o lo hanno detto, loro:  Lennon ("Dylan mostra la strada"), Mc Cartney e tutti i  Beatles, gli Stones con i loro ripetuti omaggi fin dalle copertine dei loro dischi storici, Hendrix con la sua venerazione espressa in numerose cover (non solo "All along the Watchtower"),  Springsteen che in questo discorso gli elenca tutti meglio di me, facendo risparmiare a me e a voi un sacco di tempo prezioso...
Ed è per questo che per me è il più grande artista popolare del Novecento.

Dylan é l'archetipo della rockstar, semplicemente perché é stata la prima, almeno in senso moderno.
 Il primo a essere protagonista di un documentario, il primo a essere oggetto di una attenzione maniacale dei fan e ossessiva dei media (non parlo delle fan starnazzanti per i Fab Four, parlo di Alan Weberman che con lui inaugura il costume apice del voyeurismo da fandom, rovistare nella spazzatura dei divi), il primo ad avere la libertà artistica di fare un disco doppio, con una traccia che copriva un'intera facciata...il primo a divenire non solo un idolo pop (come Elvis),  o un fenomeno di costume (come i Beatles) ma un simbolo culturale, a dare alta dignità artistica e intellettuale a quelle che erano considerate canzonette...a portare la "poesia nei juke-box", secondo la celebre definizione di Allen Ginsberg.


Il rapporto tra Bowie e Dylan è complesso e fecondo, come il dialogo tra due enormi personalità artistiche logicamente prevederebbe. E non parlo del famoso primo incontro (che smentì il verso "Though i don't suppose we meet" nel brano di "Hunky Dory") riportato nell'infausta intervista del 1976, in cui l'ipertrofia cocainomane di Bowie si scontrava col silenzio della Sfinge dylaniana.
Sono gli artisti che (assieme al loro amico comune, per uno maestro per l'altro allievo, Lou Reed) hanno incarnato enigmaticamente la trasformazione alchemica, l'incessante divenire artistico, la lotta del genio contro la mediocrità.
Bowie nel clamore quasi programmatico ("Ch-ch-ch changes!") dei capovolgimenti di stile, del gioco delle identità, insieme Fregoli e Amleto dei generi e non solo dei travestimenti.  
Dylan, meno spettacolarmente, ma piu' interiormente, cantore costantemente in cammino, arso nella ricerca, perennemente al bivio di ogni percorso mistico, viandante e bagatto, toccato dalla grazia del volo poetico e al contempo incatenato al peso della sua stessa dolente sapienza. Entrambi albatri baudeleriani, le cui ali da gigante hanno divelto le reti della ciurma giornalistica a colpi di capolavori e provocazioni.
Entrambi hanno sofferto nelle loro carni il loro ineluttabile e irreparabile divenire icona.

E' interessante notare, in due personalità così grandi e così diverse, praticamente la stessa reazione, uguale e contraria, alle invariabili etichettature mediatiche che negli anni li hanno claustrofobicamente accerchiati: qui Bowie (4.22), qui Dylan.

In entrambi agisce (come ebbe a dire Battiato parlando di Dylan) una potenza mantrica.
Non solo nei confronti dei loro ascoltatori (sempre citando Bowie nell'omaggio a Dylan: "His words of truthful vengeance/They could pin us to the floor" e ancora "And you sat behind a million pair of eyes
And told them how they saw") ma anche e soprattutto nei confronti di sè stessi.
E' come se il potere evocatore del genio poetico chiedesse, nelle carni stesse dell'artista, il dazio per aver estratto oro dal fango del caos interiore.
Bowie, che si faceva ritrarre mentre scimmiottava quel pericoloso cialtrone di Crowley, comprenderebbe bene quello che sto tentando di dire.
Con suprema e spiazzante ironia esistenziale (sigillo dell'attenzione degli Dèi),  il karma inchiodò il Duca Bianco, ben prima del suo battesimo da novello alter-ego, alla mostruosa incontrollabilità del proprio mito.
Si ritrovò a fare i conti con platee oceaniche che gli rinfacciavano beffarde lo stesso interrogativo da lui posto a Dylan nel suo inno da fan tradito: "Now hear this Mr.Bowie...ask your good friend Ziggy/ If he'd gaze a while/ Down the old street". Ma ben altro inquietante prodigio avvenne.
Il  Bowie scheletrico, solo e tremante nella lussuosissima casa di Los Angeles, posseduto dalla cocaina e dalla paranoia per la magia nera (custodiva la pipì nel frigo perchè temeva che Jimmy Page, un altro che pagò caro la seduzione crowleyana, la usasse per rubargli l'anima in riti di magia nera),  quel Bowie carnefice di sè stesso, alienato più che alieno, travolto dalla sua fama, divenne l'incarnazione spettrale, l'incubo realizzato dell'epitaffio di Ziggy Stardust: "Making love with his ego, Ziggy sucked up into his mind".
Come già detto di F.Scott Fitzgerald, Bowie divenne posseduto dagli incubi che egli stesso aveva liberato.
E fu solo Berlino porta di salvezza, rivelandosi  un mastodontico forno alchemico a cielo aperto, dove rinascere nel miracolo dell'ennesima trasformazione.

Concludendo il discorso da dove avevamo iniziato, non possiamo pretendere che il "nuovo" pezzo di artisti così irriducibilmente iconici, possa avere la freschezza, l'impatto e la potenza rivoluzionaria dei loro capolavori di 40 o 50 anni fa.
Non si può ri-ottenere l'effetto devastante di "Like a rolling stone" o di "Ziggy Stardust", dopo averle scritte.
Non per mancanza d'ispirazione. Dico sempre che dal sottovalutatissimo Dylan "in crisi" degli anni '80 si potrebbe estrarre un greatest hit da far invidia a tanti cantautori lodati a sproposito.
Il motivo è semplice: non si può non fare i conti con la propria grandezza.
Avendo creato, di fatto, una nuova epoca, un nuovo linguaggio, Bowie e Dylan, mutatis mutandi, diventano i T.S.Eliot di sè stessi, cercando nella "Terra Desolata" della loro anima e della loro opera i frammenti con cui puntellare le proprie rovine.
L'aveva già capito Bowie estraendo dieci anni dopo un nuovo classico, "Ashes to Ashes", dallo spin-off  del suo battesimo incandescente, "Space Oddity".
Ha poi alluso al gioco costantemente, fino ad esplicitarlo in "The pretty things are going to hell".
La gioventù fiera e oltraggiosa che doveva annunciare il Superuomo nietzscheano ormai se n'è andata all'inferno.
E così Dylan, lontano dalle smancerie borghesi e furbastre di Mc Cartney che porta il cane a fare la pipì sulle strisce pedonali di "Abbey Road" (per i complottisti  confessione in codice della sua morte), ha lottato con genio per non diventare il poeta alessandrino di sè stesso.
Ha così rovesciato nel disincanto e nell'amara ironia gli inni immortali, per scardinare la prigione in cui il suo stesso altare si era trasformato: dal furore profetico di "The times they are a-changin'" si passa al sarcastico cinismo di "Things have changed", dal canto abusatissimo di "Knockin' on Heaven's door" al passo trascinato dello stanco vagabondo spirituale in "Tryin' to get to Heaven".

Ci aspettiamo molto da "The next day".
Speriamo che il Duca sia di parola, come lo è stato il Maestro con l'ultimo album "Tempest".
Di questo e di altro, parleremo prossimamente.




giovedì 20 dicembre 2012

Alan e il Genio di Tuono


Se è stato davvero dimostrato scientificamente che l’intelligenza è direttamente proporzionale al senso dell’umorismo, e che quest’ultimo favorisce la longevità,  devo darvi due belle notizie:  abbiamo trovato l’elisir di lunga vita, e trascorreremo una lunga esistenza felice accompagnati dai suoi inventori.
Per completezza di scoop vi rivelo anche i nomi degli autori della straordinaria scoperta: Francesca Riccioni e Tuono Pettinato.
La loro opera “Enigma-La strana vita di Alan Turing” (Rizzoli Lizard), se accostata alle pubblicazioni migliori degli ultimi anni, s’impone comunque come un piccolo prodigio d’intelligenza emotiva.
Ma se la caliamo nel contesto delle pubblicazioni nostrane attuali, non solo fumettistiche ma anche letterarie e cinematografiche, beh, diventa una gemma accecante.





Tutti i pregi delle precedenti opere di Tuono Pettinato (schematizzando: stimolo intellettuale pari a un viaggio nel tempo sotto anfetamina, potenziale comico superiore a un dialogo tra Sheldon Cooper e Isaac Davis, ) sono qui esaltati, e sorpassati, da un surplus di erudizione e sensibilità.
Mi par d’obbligo introdurre, alle dis-graziate creature non ancora confortate dal balsamo della sua conoscenza, la figura adorabile del Nostro.
Innanzitutto non tutti avranno notato che fin dal nome si cita uno dei racconti più celebri e significativi di un maestro assoluto della letteratura: "La biblioteca di Babele" di Jorge Luis Borges  (signori, in piedi!).  Se solo accennassi a una qualsiasi riflessione sul tema il post assumerebbe le dimensioni del "Mahabharata", per cui do per scontato che tutti lo conosciate (i manchevoli s'apprestino a colmare l'imperdonabile vuoto, conferendo con l'occasione maggior senso alla propria esistenza).

Basti dire che memorie del racconto, magari inconsce, si avvertono qua e là anche nelle interviste di Ratigher, compagno di milizia artistica di Tuono nella selezionatissima compagine dei Superamici.
Come un bambino intelligentissimo, Tuono accompagna nello smarrimento più totale, nel cosmo labirintico di conoscenza incomprensibile de "La Biblioteca di Babele" globale.
Un giorno parleremo dei rapporti tra lui e un altro grande scrittore, Cortazar.
Ma non vi adontate se per ora mi limito solo a lui.

Tuono Pettinato è il  Campione mondiale di calembour.
Gli déi lo hanno benedetto con la grazia assoluta concessa solo alle menti superiori: l'umorismo intelligente.
Egli ha anche un ruolo artistico di capitale importanza per le sorti dell’arte nel nostro Paese.
E’ il volto gentile dei Superamici.
Nel suo caso,  la definizione s’applica con rigorosa aderenza icastica.
Ed è davvero ironico che nel caso di un grande ironico una definizione ironica non risulti ironica.
Che ironia, eh?!
 Essere Superamico nel caso di Tuono non è l’antifrasi imbevuta di acido muriatico di maicol&mirco, non si tinge di sarcasmo lisergico come nelle avventure del Dr.Pira; non ha nemmeno  la spietata autocoscienza dei personaggi di Ratigher; e siamo lontani anche  dal vulcanico eclettismo di Lorenzo Ceccotti.
Al termine della lettura  lo vorresti proprio abbracciare fraternamente, baciando la sua barba da Pope imbarazzato, dicendogli, senza ironia alcuna: grazie amico Tuono, mi hai restituito il buonumore. 

 Le sue opere, questa in primis, sono la versione postmoderna e finalmente godibile dell'odiatissimo schema “imparare divertendosi”.
Leggendo le storie di Tuono Pettinato ci auto-inebriamo di dopamina, proviamo lo stessa delizia che ci avvolge leggendo J.K. Jerome (del resto “Il Magnifico lavativo” non può che avere “I  pensieri oziosi di un ozioso”),  avvinti dallo stesso interesse innescato dalle piu' riuscite divulgazioni di Augias o Eco.





Se e' nerd lo e' con l'erudizione di Pico della Mirandola, se e' hipster (termine tornato inspiegabilmente di moda con un significato imponderabilmente lontano dall’originario) lo e' con la consapevolezza di  T.S. Eliot.
Come il grande poeta, con sacralità ieratica lo è ne l'alta letteratura, così Tuono con sapienza ludica, lo è nelle storie a fumetti:  il cantastorie alessandrino del Kali yuga.
Egli tiene alta la bandiera della filocalìa in un mondo posseduto dal Brutto.  
Tutte le sue opere potrebbero avere in calce il verso epitome de “La Terra Desolata”, e del Novecento tutto (“these fragments i have shored against my ruins”),  accanto a una battuta di Groucho Marx (non a caso il genio poetico invitò a cena il genio comico, come spassosamente narrato da quest’ultimo).


Entriamo ora un po’ più nel dettaglio di questo libro.
Pur mantenendo una scorrevolissima continuità narrativa, nonostante la complessità tragica dei concetti esposti,  grazie a una leggerezza d’ispirazione che incanterebbe Calvino, “Enigma” in realtà potrebbe essere definito un mosaico di finezze.
Ogni tavola trabocca intelligenza, cultura, poesia, umorismo.
Siamo nell’albedo della coincidentia oppositorum: è un libro che apre il cuore e sveglia il cervello.
Nulla, neanche il teorema più complicato, o l’episodio più avvilente, riesce ad appesantire una lettura, che ha il tocco fatato di un racconto confidenziale e la solennità avvincente di una testimonianza d’autore. 


Un sincero plauso va ai testi di Francesca Riccioni.
Non è facile narrare una vicenda come quella di Alan Turing,
I testi colgono bene i paradossi continui che hanno ritmato laceranti  la sua vita: genio e sprovveduto, stratega vittorioso e ingenuo accusatore di sé stesso, timido innamorato platonico e solitario dissoluto, eroe nazionale messo al bando dalla società…
 Non mi addentro nei dettagli della "strana vita" (molti dei quali famosi), insieme esaltante e tristissima, perché il modo migliore per scoprirne il possente significato è proprio seguire il racconto che vi stiamo presentando.
Gli autori hanno colto Il modo più bello e appropriato per omaggiare Alan Turing, una folgorante intelligenza, affascinata dagli incastri logici e dal candore fiabesco,  tragica vittima della crudele ignoranza dei suoi contemporanei : compensare con un giocoso contrappasso poetico l’abisso d’incomprensione che lo destinò a una violenta infelicità, risarcire attraverso l’innocenza della trasfigurazione fumettistica il vergognoso credito di solitudine e sofferenza che il genio che sconfisse Hitler fu costretto ad aprire dall’umanità che aveva salvato.


Ed ecco quindi a redimere i torti infami del moralismo ottuso gli antidoti più micidiali e  amabili:  lo stupore fiabesco, il senso del gioco, il pudore della poesia, l'acume dell'ironia.
Ora, nel libro di Tuono Pettinato su "Garibaldi" l'ironia faceva da provvidenziale contraltare alla retorica risorgimentale, che era riuscita a rendere una figura dal fascino epico (che non avrebbe nulla da invidiare a Che Guevara, anzi) un sepolcro scolastico.



Qui,  il velo dell’ironia copre pudico lo squallore dell’ipocrisia che vive parassitaria sui vizi che essa stessa nutre, l’orrore della mostruosità imposta al diverso, prima come etichetta morale e poi come marchio fisico.
E' insieme arguta e commovente la poetica delicatezza con cui vengono resi gli ultimi tragici anni della vita di Turing.
Lontani anni luce dalla sciatteria del buonismo, Francesca Riccioni e Tuono Pettinato non hanno paura di ricordarci, col tono discreto della loro sorridente leggerezza, l'eterna identità kalòs kai agathòs.

Non vorrei però essere accusato di scrivere una recensione troppo entusiastica, tacendo ipocritamente d'un difetto macroscopico ed evidente a chiunque, che deturpa il profilo per il resto apollineo dell'opera.

Si badi bene, non si tratta di un mero errore, di una debolezza stilistica, una svista grafica, o un'imprecisione anagrafica.
Si tratta di una catastrofica falla, di una lacuna strutturale che mina i presupposti stessi della godibilità dell'opera.
Sono rimasto dolorosamente esterrefatto dall'incresciosa occorrenza: come è possibile che due autori così arguti e solitamente rispettosi (ma punto il mio dito accusatore anche sugli editori, innegabilmente correi, almeno moralmente) abbiano perpetrato quello che è oggettivamente un affronto nei confronti dei lettori.

Sono contrario agli spoiler, ma la mia coscienza mi impone di rendervi edotti su questa vergogna, a protezione della vostra sensibilità, che presumo virginale.

Il libro, a un certo punto, finisce.

Non sto scherzando. 
Finisce: non c'è scritto più nulla, proprio fisicamente giri pagina, e non c'è più niente.
Non si fa così.
Il lettore, sopraffatto dalla dopamina, ne vuole ancora e ancora e si ritrova abbandonato crudelmente nella più violenta delle crisi d'astinenza.

Già sento le scontatissime obiezioni di qualcuno (i soliti sapientoni, si! Vi conosco bene voi, odiosi custodi dell'ovvio...e vi disprezzo!"): "Ma scusa è una storia biografica, parla di un uomo che è vissuto, è morto, in circostanze oscure ma celebri, scusa, cosa pretendi...".
Quale patetico limite di visione! Quale rozzo tappo imposto forzosamente sulla fonte sorgiva della fantasia!
Ma dico io, benedetti ragazzi, ammiratissimo Tuono e apprezzatissima Francesca, ma ci vuole tanto a vedere che una via d'uscita, comodissima, c'è, a questo fittizio e vile "problema"!??
La metafisica indiana, che certo frequentate vista la serafica calma che ispirano le vostre pagine, vi offre un gancio narrativo inesauribile: il Samsara. L'eterno ciclo delle rinascite e delle morti.
Avete un campo infinito come l'Assoluto per continuare a deliziarci!
Alcuni modesti spunti, i primi che verrebbero in mente, credo, a chiunque:
 Turing che ritorna come vendicativo dio grecizzante a imporre alla perfidamente bigotta Albione il karma infernale della sodomia robotica; Colossus come nuovo Golem evocato in un futuro asimoviano per difendere i puri e i sensibili dalle schiere ferine dei mediocri ciccioni; anche nel passato, magari: Godel che gliela incarta a Minosse provando a spiegare il "Teorema dell'Incompletezza", mentre di nascosto Dante, Virgilio e Turing portano in salvo Brunetto Latini nel Limbo, dove i quattro si intrattengono con Omero e il Saladino sulle influenze orfiche nei dialoghi platonici...
Lo so, idee banali, già viste...ma siete voi gli artisti, o no?!

Ma nonostante tutto, miei cari, vi perdono.
E vi ringrazio.

 Vi ringrazio a nome di Turing, per essere stati in grado di tributargli un omaggio allo stesso tempo divertente e toccante, e anche a nome di tutta l' umanità, che dovrebbe chiedere perdono al grande genio, per avere ripetuto una lezione antica ma eternamente valida.
Dimostrate che si può essere intelligenti senza essere necessariamente, e facilmente”cattivi".
Con buona pace di Dark Helmet e del suo indimenticabile assunto.



...

sabato 15 dicembre 2012

Ancora sulla Triade e Il Maestro...


Avevo cominciato a rispondere al commento di Spartaco Lombardo sul post precedente (lo trovate qui), ma siccome poneva temi molto interessanti, il discorso si è allargato e ha raggiunto le dimensioni di un post breve (almeno per i miei standard, chilometrici finora):

Caro Spartaco, grazie per la tua attenzione.
Grazie anche per darmi la possibilità di chiarire un punto cruciale (differenza e rapporto tra originalità, qualora possibile come plausibilmente tu interroghi, e "plagio" o influenza dominante). E' un tema che merita di essere sviluppato con cura, quindi ora mi limiterò a brevi cenni, mi, e ti, riprometto di affrontare presto con la dovuta attenzione la questione. Ora, in breve: nel momento in cui prendo Dylan a pietra di paragone, in realtà già dò per "scontato", o implicito, un discorso sull'impossibilità d'essere integralmente originali. Il Dylan saccheggiato da De Gregori, o che ha  influenzato pesantemente De Andrè (e mille altri) potrebbe (ad una valutazione superficiale) essere lui messo sul banco degli accusati, con imputazioni pesantissime (infatti in America lo è stato da sempre, più che mai negli ultimi tempi): è stato da giovane  il primo ad essere una sorta di "scimmietta" dei bluesmen alla Leadbelly, inventandosi la storia finta del suo viaggio da hobo, come un bambino fanfarone (azzeccata in questo senso la scelta di "I'm not there"); ha vissuto per anni nella cieca pedissequa imitazione/adorazione di Woody Guthrie; ha attinto spudoratamente all'oceano della tradizione popolare americana (e non solo, irlandese, addirittura pugliese come nel caso di "Seven Curses"), tante sue melodie popolarissime come "Don't think twice, it's alright" o "Girl from the north country", o "Wedding Song" o "Sara", derivano da brani precedenti, tradizionali o meno, per non parlare dell'incipit di "Hard Rain", etc..; ha palesemente dichiaratamente continuamente rubato musica (T.S. Eliot docet: "I poeti immaturi imitano. I poeti maturi rubano"): dai dischi che rubava agli amici, alla versione di "House of the rising sun" di Dave Van Ronk, dai dialoghi di "Confessioni di uno yakuza" alla famosa querelle dei versi di Henry Timrod (analizzata benissimo da Alessandro Carrera qui)...
il punto è che (proprio come T.S.Eliot, che però citava le fonti) dalla gigantesca conoscenza della poesia/musica precedente, dal caos primordiale di una ispirazione molteplice e ribollente, Dylan è riuscito a trovare una forma nuova, è riuscito a divenire (benedizione nell'arte, maledizione nella vita) la voce, l'icona, il simbolo di una nuova arte, di una nuova generazione etc...
La sua risposta nell'ultima grande, bellissima intervista di quest'estate a "Rolling Stone", è profondamente significativa.
Verso il termine d'una intervista piena di saggezza spirituale, all'ennesimo riproporsi della questione, ha improvvisamente fatto esplodere la frustrazione di 50 anni di fraintendimenti e etichette appiccicategli addosso (per questo poteva capire cosi bene Lenny Bruce, "They stamped him and they labeled him/ like they do with pants and shirts/ He fought a war on a battlefield where every victory hurts"): "Sono sfigati senza palle quelli che si lamentano di queste cose. E’ una cosa vecchia che fa parte della tradizione; risale a molto tempo fa. Queste persone son le stesse che mi hanno affibbiato il nome di Giuda. Giuda a me, Giuda; il nome piu’ odiato nella storia dell’uomo!
Se pensi di essere stato insultato, prova a pensare che ti venga detto quello che han detto a me. E poi, per cosa?
Per aver suonato una chitarra elettrica? Come se farlo fosse paragonabile a tradire nostro Signore e consegnarlo perche’ fosse crocifisso. Tutti quei maledetti figli di puttana devono marcire all’inferno."

Mutatis mutandi (cambiandosi, cioè, le mutande ;))), questa emancipazione dai modelli, pur ottenuta attraverso la frequentazione di essi, ancora di più vale per Guccini: cantautore dottissimo, che ha sempre citato, omaggiato addirittura provato ad imitare Dylan (oltre le citazioni in "Eskimo" e "Farewell", disse che "Noi non ci saremo" nacque dal fraintendimento di un testo dylaniano), ma che ha una sua indipendenza autoriale fortissima, una personalità creativa, un marchio compositivo che magari può risultare monotono e scostante per i non appassionati, ma immediatamente riconoscibile e soprattutto AUTENTICO, genuino, spontaneo (per quanto raffinatisimo e colto).
 Sintetizzando: Dylan ha attinto a tutto, ma poi ha scritto "Like a rolling stone", qualcosa di mai sentito prima. Guccini ha attinto a molti, ma poi ha scritto "Dio è morto", canzone che, per quanto il  titolo e l' incipit siano entrambi citazioni da frasi famosissime (l'annuncio dello Zarathustra nietzschiano e i primi versi di "Howl" di Ginsberg), almeno in Italia, non aveva precedenti. De Gregori, invece, s'ispira, diciamo eufemisticamente, a Dylan, e poi la cosa più originale che scrive è....aiutami tu:
 "La leva calcistica del'68"?! "La donna cannone"?!
Entrambe bellissime canzoni, a cui siamo tutti affezionati, ma denotano come De Gregori per essere diverso dal suo modello dominante debba rifugiarsi in un clichè ancora più convenzionale e locale, quello della canzone melodica italiana.
Ottima l'idea di scrivere su Gaber, che nel suo teatro-canzone fa un utilizzo interessante della  rielaborazione di precedenti modelli. Per esempio nei confronti di Brel, di cui prende a spunto diverse canzoni, cambiandone però il senso in maniera nuova (anche se secondo me fa un passo indietro, "Les Bourgeois" di Brel è più sottile de "I borghesi" di Gaber). Rapporto diverso con le fonti, più disinvolto di quello di De Andrè, che quando traduce Brassens o Cohen è molto bravo e fedele, mentre su Dylan è costretto a inventare per ricreare l'effetto visionario, a volte prendendo cantonate micidiali (il cambio di senso che ho criticato di "Desolation Row", tradotta con De Gregori, non è come in Gaber da Brel un consapevole utilizzo di un'opera precedente per dire cose proprie, ma è un tentativo fallito di creare lo stesso effetto dell'originale tentando soluzioni nuove).
Ho parecchie cose in cantiere, molte già richieste dai miei "venticinque lettori"
(ho citato così spesso Leopardi che per par condicio devo menzionare Don Lisander, il fraintesissimo grandissimo scrittore Alessandro Manzoni, sul quale davvero vorrei scrivere qualcosa per spazzare via i superficialissimi luoghi comuni a riguardo), e la cosa mi fa enormemente piacere, ma sicuramente Gaber è un autore che merita, per la sua splendida anomalia, di essere studiato e approfondito.

P.S:
Lo scopo dei miei scritti (come credo di molti autori) è quello proprio di creare discussioni, approfondimenti, nuove interpretazioni etc...
trattando di autori così grandi e fecondi, per evitare di scrivere 100 pagine a post a volte devo sintetizzare o limitarmi a enunciare concetti che meriterebbero maggiore elaborazione.
Per cui benvenuti gli interventi come quello di Spartaco, che torno a ringraziare, i quali consentono di esplorare maggiormente affermazioni risultate meno esplicite e argomentate nella trattazione, e che danno senso e vita a questo blog.

martedì 11 dicembre 2012

L'Ultima Thule (part III)

a Piergiuseppe Caporale



Finalmente arriviamo alla terza e ultima parte di questo tributo gucciniano, conferendo finalmente senso al titolo del trittico che lo compone.
Partiremo infatti dall'analisi dell'ultimo disco del Maestrone,  per rievocare picchi e tematiche ricorrenti nella sua ricchissima e costantemente alta produzione.

Iniziamo dalla prima traccia, "Canzone di notte n.4", che dà subito il senso del compimento d'una carriera, raggiunto con giocosa malinconia. Nel disco dell'addio, il cantautore ritorna all'inizio della sua avventura poetica, facendoci rivivere con graziosa ironia i rimbrotti dei genitori al ragazzino dalla fantasia avida di sogno, che passa la notte a leggere invece che a dormire.
La traccia è, proprio numericamente, la quadratura del cerchio delle "canzoni di notte" di Guccini, che hanno scanditole fasi della sua carriera, direbbe lui "da allora sempre diversa ed uguale".
Se la prima, ("Canzone di notte", dal disco "L'isola non trovata") era l'ingresso scanzonato e scettico nel grande mare dell'ispirazione notturna, in perfetta armonia con l'atmosfera crepuscolare del disco ("Mattino o notte, hai perso il tempo,/ la malinconia ti sembra di toccarla, ma forse è l'ora dell' avvento e chiami l' ironia per aiutarla./E forse c'è qualcuno che ora muore, e forse c'è qualcuno che ora nasce,/ qualcuno compie un crimine d' onore, passeggiano sui viali le bagasce./ Bagasce sono i tuoi ricordi che fra canzoni e vino ti disturbano,/ che ti molestano pian piano e il giorno sembra ormai così lontano,/ e il giorno sembra ormai così lontano...."); se la seconda ("Canzone di notte n.2" dallo storico album "Via Paolo Fabbri, 43") era il corrosivo e disincantato inno anarchico, che ha regalato, involontariamente, tanti slogan ai libertari di tre generazioni ("E' facile tornare con le tante/ Stanche pecore bianche./ Scusate, non mi lego a questa schiera:/ Morro' pecora nera."): se la terza ("Canzone di notte n.3" da "Signora Bovary") era l'ironico ripiego interiore di una stagione talmente colma di disillusione da rinunciare a qualsiasi orgoglio di rivalsa ("Ogni giorno è un altro giorno regalato, ogni notte è un buco nero da riempire, / ma per quanto non l' ho mai visto colmato, così per dire,/ resta solo l' urlo solito gridato, tentare e agire,/ ma si pianga solo un po' perchè è un peccato/ e si rida poi sul come andrà a finire..."; quest'ultima, definitiva "Canzone di notte n.4", partendo dal capriccio del bimbo nottambulo (le battute iniziali), e ricordando ovviamente le grandi esperienze passate ("ehi notte, larga e oscura di altre notti/ rabbiose, fatte a morsi, divorate,/ prendendo a gabbo ipocriti e bigotti/ lunghe d'inverno, eterne nelle estati/chitarra e vino e via come cazzotti,/ notti passate"), arriva a vedere la notte come porto della pace agognata,  sospesa tra il tuffo nel mistero e il sempre latente cupio dissolvi ("ehi notte, che mi lasci immaginare,/ fra buio e luci quando tutto tace/ i giorni per la quiete e per lottare/ il tempo di tempesta e di bonacce/ notte tranquilla che mi fai trovare forse, la pace").

Proseguiamo con il secondo brano, "L'ultima volta": un nuovo classico della poetica gucciniana della rimembranza.
Si ritrova subito il magistero del grande autore, ormai maturo ed equilibrato.
Ci avvolge familiare quella poesia dai tratti bucolici e domestici, quel canto quasi  parlato, intimo e confidenziale, tratto peculiare di  recenti capolavori come "Vorrei"  e "E un giorno" (anche se chi scrive ne predilige la prima parte, cioè "Culodritto", in cui il cinismo negatore dell'uomo disilluso si scioglie in giocoso stupore di fronte alla saggezza infantile)
La morte, da sempre interlocutore silente dei monologhi gucciniani, appare fin dalla prima canzone, presenza discreta e pacificante,  quasi attesa con pazienza nella sua naturale ineluttabilità.
In tutto il disco (fin dal titolo), l'evocazione di quest'orizzonte misterioso, ma non minaccioso, viene declinata nei suoi vari aspetti, a seconda delle diverse ispirazioni che  di volta in volta risuonano nel grande animo di questo impenitente Gemelli.

Nella traccia successiva, "Su in collina" (da anni già in scaletta nei concerti), la morte torna a essere, come in un Foscolo furioso, matrice di  indignazione, e promessa di rabbiosa giustizia.
Vibra qui, certamente, il Guccini poeta civile, fieramente antifascista, testimone coraggioso dell'eroismo e accusatore indignato della violenza del potere (dalla memorabile "Primavera di Praga", ispirata al suicidio in Piazza Venceslao dello studente  Jan Palach, fino a "Piazza Alimonda", commovente ed equilibrata ricostruzione degli incidenti del G8 di Genova che portarono alla morte di Carlo Giuliani, passando per "Canzone per Silvia", j'accuse alla "nazione di bigotti" per ottenere la liberazione di Silvia Baraldini).
Ma c'è sicuramente anche il talento del grande narratore, non a caso gli avvenimenti del brano sono quasi una narrazione parallela del libro "Tango e gli altri", scritto da Guccini con Loriano Machiavelli.
Visto che ha detto che la sua principale attività d'ora in poi sarà la scrittura, vale la pena cominciare a prendere confidenza con le sue opere precedenti.
Un filo rosso lega al brano precedente "Quel giorno d'aprile", in cui la Resistenza e la Liberazione vengono visti dall'altra parte della medaglia, non nella condizione ungarettiana di foglie su un ramo d'autunno dei combattenti sui monti, ma nella gioia festosa del popolo, a guerra finita ("E l'Italia cantando ormai libera allaga le strade/ sventolando nel cielo bandiere impazzite di luce/ e tua madre prendendoti in braccio piangendo sorride/ mentre attorno qualcuno una storia o una vita ricuce").
Non poteva mancare, in questa grande parata finale dei  leit-motiv gucciniani, la risata provocatoria, lo sberleffo clownesco, la satira graffiante ed amara.
Ecco, quindi, "Il testamento del pagliaccio" (anch'essa già nota ai devoti fan dei concerti), figlia sia di "Nostra signora dell'ipocrisia" e de "Il Matto", ma con ricordi anche de "Gli Amici" e "Addio", forse un omaggio al De Andrè villoniano dei primi anni.
E qui la morte, in un atmosfera da carnasciale medievale con ovvi riferimenti all'attualità ("Vi vuole tutti, amici, al funerale/ con gli abiti migliori come a festa; /sarà civile, ma ci vuole in testa/sei politici servi e un cardinale./ Vaniloqui ed incenso siano attorno/ promesse non risolte, altri rumori,/non risparmiate amici peccatori/qualche laica bestemmia per contorno./Poi ci vorrebbe qualche "mi consenta", / uno stilista mago del sublime,/ un vip con la troietta di regime, /e chi si svende per denari trenta;/un onesto mafioso riciclato,
un duro e puro e cuore di nostalgico,/travestito da quasi democratico/ che si sente padrone dello stato./E per chiusura del mesto corteo/noi tutti fingeremo un'orazione/ricordando quel povero coglione/cantando in gregoriano "marameo"."), diventa supremo punto d'osservazione, un pò come il patibolo diviene palco privilegiato in una famosa scena, forse la più bella, de "Il Marchese del Grillo"



E, quasi, a ribadire la centralità dell'ispirazione notturna, il brano successivo si intitola "Notti".
Con la stessa abilità poetica di brani come "Acque" o "Una canzone", il cantautore è ormai espertissimo nell'elencazione delle varianti descrittive del medesimo tema ("Notti che durano non so quante ore/ cascate impetuose o gocce in un mare/ notti che bruciano su una ferita, notti boccate di vita").

La notte, è da sempre, tempio dell'ispirazione gucciniana.
Come tutti i cantautori (e proverbialmente i poeti, anche se non tutti) Guccini attinge, o meglio quasi vive interamente la sua creatività, in una dimensione interiore, in una atmosfera psicologica ben delineata.
Quella che i sapienti orientali hanno definito, con diversi nomi e sfumature a seconda della dottrina di riferimento: tamo guna, yin, lato sinistro...cioè, il cosmo interiore delle emozioni, dei ricordi, della malinconia, del rimpianto, dei sogni etc...

Guccini è poeta sommo di questo oscuro regno interiore, che tutti quanti, non solo nell'adolescenza, abbiamo visitato.
E da grande conoscitore ha saputo definirlo in versi stentorei, che ricordano la capacità d'introspezione dei grandi scrittori russi di fine ottocento. Ad esempio: "quel male a cui non si dà il nome, un' ossessione circolare fra la volontà ed il non potere". Versi definitivi, tratti da "Canzone per Anna", da sempre uno dei miei brani preferiti, che ho scoperto con meraviglia (come confermatomi dallo stesso Guccini) essere stato scritto assieme a un mio vecchio maestro e amico, Piergiuseppe Caporale, al quale con affetto dedico questo mio scritto.

http://www.youtube.com/watch?v=1oeH3URH4jE

Ma già nel brano precedente dello stesso disco ("Canzone delle domande consuete"), la riflessione sul tema si faceva perentoria e di grande saggezza:
"Rimanere così, annaspare nel niente, custodire i ricordi, carezzare le età; è uno stallo o un rifiuto crudele e incosciente del diritto alla felicità... ".

Brani presi non a caso dal disco "Quello che non...", in cui Guccini,  come un teologo negativo che ha smarrito la fede, elenca tutto quello che non siamo più. Nichilismo? Disillusione post-crollo delle ideologie? Più che altro consapevolezza montaliana dell'impossibilità d'affermare il vero.
 Posizione apparentemente pessimista, ma che ha le sue radici in una sapienza quasi mistica.
Qui è OBBLIGATORIO ascoltare il capolavoro "Shomèr ma mi-llailah?"

  http://www.youtube.com/watch?v=UtnAm2ok6t8

 Del resto Montale è richiamato esplicitamente fin dal titolo ("Codesto solo oggi possiamo dirti,/ciò che non siamo, ciò che non vogliamo", versi che il suo amico Carmelo Bene diceva essere un plagio da "La Gaia Scienza" nietzcheana), ma è da sempre presenza certa nelle variazioni gucciniani sul concetto di "male di vivere".
Sul brano omonimo, c'è un dato interessante da notare: non solo la musica che accompagna l'elencazione puntigliosa del nostro non-essere è in crescendo, il cantato è pieno e fiero, ma nelle esibizioni dal vivo il Guccio è sempre sembrato energico, quasi allegro nel cantarla.
Al di là della felicità artisticà di aver cosi ben espresso la propria ispirazione, e l'orgoglio di negare ogni dogma assertivo, di qualsiasi ideologia, Guccini ci riporta al paradosso leopardiano (suo riferimento ben più di Montale), evidenziato dal De Sanctis, e già citato in queste pagine:
nel momento in cui ci dice che la vità è un  crudele inganno, ci fa innamorare con entusiasmo della bellezza dell'esistenza.
Cosa che non si può sempre dire degli altri cantautori, esaminati nell'articolo precedente, De Gregori e De Andrè.
E' famoso il giudizio di Umberto Eco su Guccini: "Guccini è forse il più colto dei cantautori in circolazione, la sua è una poesia dotta. […] Guccini è omerico, procede per agglomerazioni, ha una gran sfacciataggine nell'osare una metafora dopo l'altra...la sua è poesia dotta, intarsio di riferimenti: che coraggio, far rimare "amare" con "Schopenhauer"!". E chissà se il dottissimo Eco ha notato la grande finezza di Guccini: quella rima (tratta da "Il Frate") è presente in un disco dedicato a Guido Gozzano, che nel suo capolavoro, "La Signorina Felicita", aveva fatto rimare "Nietzsche" con "camicie"...
Queste raffinatezze se le sognano gli altri cantautori.
Come si sognano la profondità psicologica di "Vedi Cara", la costruzione del racconto parallelo di "Amerigo", l'erudizione sognante di "Asia", l'almanacco quasi francescano, ma di un francescanesimo profano e carnale, delle bellezze della creazione in "Canzone dei dodici mesi" (non si può non citare l'esattezza proverbiale della strofa su settembre:  "Settembre è il mese del ripensamento sugli anni e sull' età,/ dopo l' estate porta il dono usato della perplessità, della perplessità.../ Ti siedi e pensi e ricominci il gioco della tua identità,/ come scintille brucian nel tuo fuoco le possibilità, le possibilità..."), etc..

Tornando al disco in oggetto, il penultimo brano è "Gli artisti", in cui l'autore tiene a ribadire la propria identità di "non artista, solo piccolo baccelliere" (da "Addio").
Una grande lezione d'umiltà ed ironia, da un artista plurilaureato ad honorem, celebrato da decenni ("io semplice essere umano,/ costretto a costretti ideali,/ sono solo un umìle artigiano e volo con piccole ali."), prima del gran finale.
Perchè di grande, degno finale si tratta.
Un' avventura finale, il culmine dell'eseperienza ulissiaca d'ogni artista autentico, nella perfetta metafora de "L'Ultima Thule", che non a caso dà il titolo all'intero album.
In questo brano, risentiamo, in una prodigiosa sintesi, tutti i pregi dei grandi capolavori gucciniani: la furia creativa della "Canzone dei dodici mesi"; la sapienza magico-filosofica di "Bisanzio" ("E qui da solo penso al mio passato,/ vado a ritroso e frugo la mia vita, /una saga smarrita ed infinita/di quel che ho fatto, di quello che è stato.");  le meravigliose suggestioni, poetiche e sonore, di "Asia" ("Io che ho doppiato tre volte Capo Horn/ e ho navigato sette volte i sette mari/e ho visto mostri ed animali rari,/l’anfesibena, le sirene, l’unicorno."); la consapevolezza disillusa di "Gulliver"(Guardo le vele pendere afflosciate/ con i cordami a penzolar nel vuoto,/che sbatton lenti contro le murate/con un moto continuo, senza scopo."); l'epica della conoscenza di "Cristoforo Colombo" ("Ma ancora farò vela e partirò/io da solo, e anche se sfinito,/la prua indirizzo verso l’infinito/che prima o poi, lo so, raggiungerò.") e, ovviamente, "Odysseus" (" Le verità non vere in cui credevo/ scoppiavano spargendosi d’intorno,/ ma altre ne avevo e giorno dopo giorno/se morivo più forte rinascevo.").
Anche se il finale è opposto al grande brano dedicato all'eroe omerico ("si perderà in un’ultima canzone/
di me e della mia nave anche il ricordo."), riecheggia in questi versi l'eternità della creazione poetica.

http://www.youtube.com/watch?v=yW2Zm488hok

Chi s'aspettava il disco d'un vecchio stanco, disilluso e malinconico, si ritrova un eterno bambino, curioso e adorabilmente disobbediente.
E' bello che il più grande cantautore italiano concluda il suo testamento enunciando a testa alta i suoi versi, e non con un commovente malinconico silenzio.
 Il disco si conclude con un tuono (al contrario dei versi celebri di un poeta da lui amato e spesso citato, il T.S.Eliot  di "The hollow men": "Questo è il modo in cui finisce il mondo/ Non con uno scoppio ma con un piagnucolio.").


E il rimbombo del tuono (che in India rappresenta l'annuncio della Verità) solenne si spegne nel mistero.