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lunedì 9 settembre 2013

Paolo Sorrentino e "La Dolce Vita" di Federico Fellini - al Cinema America Occupato




Venerdi sera al Cinema America Occupato c'è stata una serata della quale, secondo me, tra vent'anni leggeremo nei testi di storia del cinema. Chissà se i volenterosi ragazzi  del collettivo, che hanno con la sbarazzina disinvoltura dei loro vent'anni  invitato il regista Paolo Sorrentino, passato per caso davanti al cinema mentre stavano ri-pitturando la facciata, a presentare "La Dolce Vita" nel loro spazio...chissà se ne sono resi conto.
Se questo è il livello degli eventi culturali proposti, lo sgombero incombente appare un crimine intellettuale.
Anzi, fossi il Sindaco finanzierei i ragazzi per comprare un adeguato sistema di climatizzazione all'interno della sala, che nel caso di opere di lunga durata si tramuta in una gigantesca opprimente sauna collettiva.

La contemporaneità rende da sempre, salvo luminose eccezioni, la critica miope.
Ecco che quindi, probabilmente, molti di voi giudicheranno la mia iniziale affermazione esagerata, fuori luogo, priva di fondamento. "La Grande Bellezza", per me un film-miracolo, un'opera fondamentale nel panorama del cinema italiano degli ultimi venticinque anni, è stato da molti giudicato tronfio, pretenzioso, inutilmente barocco. Per molti l'accostamento ( logico e naturale non solo per il sottoscritto) col capolavoro di Fellini è assolutamente fuori scala.
Quindi, non ci sarebbe nulla di particolarmente interessante, quanto mai di storico, nell'assistere a Sorrentino che ci parla esattamente di quell'opera, che è il precedente diretto e ineludibile del suo film.
D'accordo. Andatevi a leggere QUI le reazioni della critica, o dei contemporanei, proprio a "La Dolce Vita", e poi ne riparliamo.



Sorrentino esordisce dicendo che non è un bravo"parlatore".
Apre il suo discorso schermendosi, sostenendo che è sempre meno interessante parlare dei film, è più interessante farli, è più bello commuoversi vedendo un film che ragionarci sopra. Il contrario di quello che pensava da ragazzo, quando voleva sempre ragionare sulle opere cinematografiche, mentre con l'età adulta l'aspetto emotivo è divenuto prepotente.
Ma, eccepisce, su "La Dolce Vita" è importante ragionare. Si distingue da altri film di Fellini, come "Otto e mezzo" o "Amarcord", dei quali è altrettanto bello, per una peculiarità: non è importante, paradossalmente, che sia bello. Perché più che bello, "La Dolce Vita" è un film pericoloso. Pericoloso, innanzitutto, per i ragazzi. Pericoloso, perché esprime un sentimento pericoloso: quello di vivere in una costante transizione.
E' un film che ti fa vedere la vita senza un punto d'arrivo. Un'opera piuttosto desolante, insiste, in cui è quasi bandita l'ironia, e quando compare essa è vaga, evanescente.  Elemento, l'ironia, che invece è fondamentale in altri film di Fellini, ad esempio ne "I Vitelloni", film per il quale Sorrentino definisce il Maestro come capostipite della "commedia all'italiana". Con una, a nostro giudizio, efficace analogia il regista napoletano descrive "La Dolce Vita" come un film lunghissimo, estenuante, a bella posta, perché è come la vita degli individui: lunghissima, faticosa ed estenuante.
Sorrentino, a questo punto, ricorda come il film abbia suscitato reazioni scomposte, solo apparentemente legate a fatti concreti. Reazioni legate al fatto che è un film che fa paura, modernissimo, in cui il personaggio potrebbe benissimo essere immerso nel contesto di oggi, sostituendo le attuali discoteche alle sale da ballo di fine anni'50. Egli vive in una costante condizione di vuoto, di dépense, il concetto di Georges Bataille per cui al culmine della produzione c'è il culmine della disperazione.
Un film ambientato in un contesto fastoso, e festoso, apparentemente meraviglioso, a cui tutti vorrebbero appartenere, dietro il quale però si cela la disperazione più nera, anche se costantemente dissimulata.
Un film senza trama, che si basa sulla vita così com'è.
Ribadisce il regista, un film bello, ma la cui bellezza è meno importante della sua pericolosità.
La pericolosità dell'emulazione dei personaggi della dolce vita, il continuo ricorrere alla distrazione che allontana dal senso della vita, seduti sulle sabbie mobili del vuoto esistenziale.
Un film sulla difficilissima condizione di vita dell'uomo moderno.




Si apre a questo punto una breve sessione di domande. Alla prima domanda, cioè quanto Fellini lo avesse influenzato, il regista risponde che l'influenza è totale: sa tutti i suoi film a memoria.
 L'influenza è cosi forte che Sorrentino dichiara d'avere addirittura un blocco, che lo inibisce a parlarne in maniera disinvolta, perché (non potremmo essere più d'accordo) quando si è troppo fan si diventa patetici. L'influenza, comunque, è enorme , anzi il regista dichiara che tutti i suoi film precedenti sono smaccate imitazioni da Fellini, ma i critici non se ne sono accorti. Mentre, a riguardo de "La Grande Bellezza", dove sostiene di non averlo voluto imitare, lo hanno detto tutti!
A questo punto, cogliendo la palla al balzo sulle pressioni per far sgomberare Cinema America Occupato, Sorrentino auspica più che la chiusura dei cinema, la chiusura della critica!
La seconda domanda trae spunto proprio dal rapporto con la critica, infatti l'autore viene bonariamente rimproverato di non aver difeso il film "L'amico di famiglia" da le ingiuste critiche ricevute. Anche qui Sorrentino, da un lato si schermisce, dall'altro spiazza. Nega la benevola accusa, asserendo non solo d'aver difeso il film, ma ampliando la riflessione: per lui una volta fatti i film sono andati, chiusi. Dopo aver occupato anche in maniera ottusa la mente per un lungo periodo, una volta realizzati, sono finiti, dunque, è pronto a difendere il prossimo film, non i precedenti.
L'intervento successivo torna sull'accostamento, entusiasta, fatto dalla critica internazionale tra "La Grande Bellezza" e Fellini. La domanda posta è se Sorrentino si spiega la diversa accoglienza ricevuta dal film all'estero, dove è stato salutato come un capolavoro, e in patria, dove è stato oggetto anche di forti critiche.
Il regista riconosce che la ricezione critica è stata diversa, sottolineando che tutte le critiche sono pericolose: quelle negative perché fanno arrabbiare, quelle positive perché lasciano il dubbio che non siano del tutto sbagliate. Inizialmente, dichiara che, pur essendoselo chiesto tante volte, a tutt'oggi non sa ancora dare una risposta alla domanda. Ma poco dopo ammette con una battuta, che in realtà lo ha capito ma non vuole dare la risposta. "La Grande Bellezza", dice, è un film che mette in difficoltà, tocca nervi scoperti, per questo, secondo il regista, non definirebbe la critica italiana come negativa, piuttosto come "esagitata".
E' un film che è rimasto impigliato nella testa dei critici, che ancora oggi lo confrontano i nuovi film usciti nelle sale. E' certamente un film che non ha lasciato indifferenti.
Sorrentino, tornando al discorso accennato prima, vorrebbe che si cambiassero certi approcci alla visione dei film,  approcci datati o legati al personalismo. Per questo auspica una modalità diversa di lettura dei film, anche perché quella corrente non è utile ai lettori, che infatti se ne fregano delle critiche. Un tempo, ricorda, venivano seguite, tuttora in Inghilterra il parere dei critici è molto seguito, ma in Italia ormai il pubblico non li ascolta più. Per cui, i critici dovrebbero fare un pò di autocritica, com'è giusto che la facciano a volte i registi.
Continuando a rispondere al secondo aspetto della domanda, il regista continua a smarcarsi dall'ingombrante accostamento col gigante felliniano, spiegando che all'estero il cinema italiano arriva a singhiozzo, per cui i critici internazionali si ricordano Fellini e Antonioni, perché quelli conoscono, e ogni volta devono trovare un aggancio con i registi attuali.
Tornando a chiosare su "La Dolce Vita", si ribadisce che è un film che tocca corde molto profonde, se si guarda sotto la bellezza delle immagini celeberrime di Anita Ekberg che si bagna nella Fontana di Trevi, si vede il pericolo della mancanza dei sentimenti fondamentali.
Ad esempio, nel film, il padre del protagonista è inizialmente esaltato della bella vita, ma poi preferisce tornare subito a casa. "La Dolce Vita" racconta che la modernità è un assassino dei sentimenti.
Definizione, quest'ultima, per noi stupenda.
L'ultima domanda verte sul rapporto del regista con Roma, un elemento innegabilmente in comune col grande precedente felliniano. Ed ancora una volta, Sorrentino dribbla il paragone, anche su un oggettivo terreno condiviso. Dichiara di non comprendere i discorsi sulle città, i confronti, i "rapporti"...i rapporti si hanno con le persone, non con le città, sostiene. Per lui, Roma è una città talmente bella da sembragli un perenne luogo di villeggiatura, ci vive felice perché si sente come un turista senza biglietto di ritorno, una condizione ideale. Ai fini del film che ha realizzato, però chiarisce, Roma è uno sfondo di bellezza, come sarebbero potute essere New York o le Dolomiti, nei film si descrivono gli esseri umani, non le città.



L'intervento di Sorrentino, per quanto apparentemente dimesso e improvvisato, è stato in realtà un capolavoro di affabulazione, propria di chi da anni si è dimostrato un grande narratore, non solo per immagini. A partite dall'inizio, in cui si dichiara imbarazzato come un oratore incapace, e poi sfodera un discorso bellissimo, non solo per i concetti espressi o per il linguaggio forbito, ma proprio in quanto ben costruito, pieno di ritmo e passione, pause, tempi comici e sferzate improvvise.
Fino alla fine: negare l'unicità del teatro di Roma come scenario perfetto, nella sua barocca, stordente e annoiata decadenza, per la vicenda narrata, è un abile nascondere le carte.
"La Grande Bellezza" come, appunto, solo Fellini aveva saputo fare, è  un supremo omaggio d'amore all'antico splendore della Città Eterna, e nel contempo la più spietata esposizione delle brutture, dell'orrenda volgarità, dell'insopportabile cacofonia esteriore, specchio del deserto interiore, che possiede la Capitale.
Punto fondamentale della grande affabulazione, che dura da mesi, è che il regista ha sempre negato, smentito, ridimensionato l'accostamento con "La Dolce Vita", quando, oltre alle numerosi evidenti affinità, è stato proprio il suo omaggio nella presentazione del film a rivelarlo, a suggerirlo, a confermarlo. Le riflessioni da lui dedicate all'opera felliniana, infatti, potrebbero tranquillamente essere rivolte a "La Grande Bellezza". Più che mai solare è apparso il legame, quasi un inconscia confessione, quando ha detto che la condizione del protagonista può essere benissimo essere immersa nella realtà d'oggi, sostituendo al ballo con Celentano magari una serata in discoteca. A parte che una delle scene chiavi de "La Grande Bellezza" è girata nella stessa location del famoso cameo del Molleggiato...soprattutto non possiamo non pensare alle scene di sguaiata danza collettiva sul terrazzo di Jep Gambardella (interpretato da un Toni Servillo ormai oltre ogni lode), versione contemporanea e cafonal degli stanchi festini nelle ville in riva al mare del finale felliniano. E quanto appare astutamente ironico il dire che nei film precedenti ha copiato il Maestro, mentre nell'ultimo no! Sfido io voi tutti a trovare uno sguardo felliniano in "This must be the place" o ne "L'amico di famiglia". E sfido voi tutti, compreso lo stimatissimo autore, a negare la mastodontica impronta felliniana del suo ultimo film. "La Dolce Vita" è, in realtà, evocata, omaggiata, citata, sfidata, parodiata, scavalcata per tutta quanta la durata de "La Grande Bellezza". Come evita  e smentisce il paragone nelle interviste (ad esempio QUI e QUI), nel film Sorrentino accetta il confronto, lo stimola, lo provoca, lo impone, lo capovolge.
Jep Gambardella è, ciò che sarebbe divenuto Marcello Rubini ai giorni nostri, quarant'anni dopo aver scelto male al bivio della sua esistenza, voltando le spalle all'Innocenza sorridente nel finale, spostando lo sguardo dalla fissità giudicante del mostuoso pesce sulla riva (dagli ammessi risvolti cristologici come rivelatomi da Alessandro Caroni), e scegliendo di essere rapito e fagocitato dalla mortifera compagnia degli "indifferenti" mondani annoiati, ormai larve senza un'anima.


E  a rivederlo venerdi sera, per l'ennesima volta (ma mai quanto "Otto e mezzo", per chi parla il film più significativo della Storia del Cinema), nonostante il caldo crematorio e asfissiante del cinema, "La Dolce Vita" perpetua il suo incanto cupo, il suo quasi baudelairiano splendore. E nella sua intatta, assoluta bellezza, nel suo essere non solo altissima arte poetica, ma bruciante profezia sociale e antropologica (come Fitzgerald trent'anni prima in America non è solo uno scrittore, ma il profeta martire del fallimento a venire dell'American Dream), si conferma il grande, ineludibile precedente de "La Grande Bellezza".
Ci si potrebbe scrivere un libro.
Qualcuno forse ci sta già lavorando.



lunedì 8 aprile 2013

ABRACADABRA - L'incantesimo della Murga



Uno dei rischi, quando si apre un blog, è quello di riempirlo di tutte le cose che ci piacciono e che sentiamo di conoscere abbastanza da poter dire qualcosa di sensato a riguardo.

Questo, naturalmente, porta in dote entusiasmo, passione e magari una discreta competenza, rendendo le nostre considerazioni interessanti o quantomeno non del tutto irritanti a chi condivide i nostri stessi interessi.

Ma, a lungo andare, ciò che inizialmente appare come una ricchezza peculiare potrebbe tramutarsi in un limite soffocante.
Per cui ho deciso di vivacizzare un pò i contenuti di questo mio diario virtuale, andando ad esplorare qualcosa che conosco pochissimo (in questo caso, una forma di teatro-danza popolare sudamericana) unita a qualcos'altro che non mi seduce per nulla (l'arte contemporanea).






L'occasione me l'ha data Laura Cionci, artista davvero poliedrica, reduce da una lunga e felice permanenza artistica in Argentina ed Uruguay, ma in primo luogo romana fino al midollo: un'esplosione mercuriale di idee, progetti, intuizioni.
Un ponte vivente tra culture apparentemente distanti.
Laura è tra le massime esperte e praticanti in Italia di Murga, una sorta di coloratissimo e vivace teatro di strada, dalle origini spagnole e dall'ispirazione potentemente satirica.
La mia prima, pregiudiziale reazione di fronte a simili manifestazioni artistiche è molto simile a quella dei vecchietti milanesi del video di "Parco Sempione" di Elio e le storie tese (per chi non avesse avuto il piacere li trova QUI a 2.26). Ma visto che questo blog invita a spezzare i limiti imposti della nostra mente, sarebbe ben sciocco e ipocrita esercizio da parte dell'autore assecondare i propri pregiudizi.
E cosi ho scoperto un mondo non solo traboccante di ritmo, cromatismi e brillanti arguzie, ma anche di illuminanti riferimenti culturali.
Infatti, le origini della Murga sono particolarmente interessanti e sorprendentemente italiane, specificamente romane. Le radici, come vedremo, affondano nel significato più profondo del Carnevale, che altro non è che la versione cattolica (ormai depauperata di qualsiasi valore simbolico) delle antiche Dionisie: momento di capovolgimento delle gerarchie sociali, propizio iniziaticamente al ritorno dell'armonia.
Se gli intellettuali dovessero storcere il naso di fronte a certe manifestazioni di creatività popolare, gli ricorderei come il momento di svolta della visione filosofica di Antonin Artaud avvenne nel 1931, quand'egli potette assistere ad un'esibizione di teatro balinese, nel quale trovò l'applicazione primordiale delle sue intuizioni sul teatro, " il senso di un nuovo linguaggio fisico basato su segni e non più su parole".



Facciamoci dunque guidare da Laura Cionci
(trovate le sue opere QUI) alla scoperta di questa forma d'arte, da noi ancora poco conosciuta:

CONTE ZARGANENKO - Assistendo ad ad una performance di Murga il primo impatto è quello di essere investiti da tantissima energia, storditi da una confusione gioiosa. Ma in realtà dietro questo caos funambolico, apparentemente improvvisato, c’è una grande disciplina.
LAURA CIONCI - C’è un complesso intreccio di storia e cultura. Un aspetto interessante è che la Murga qui non è molto conosciuta, perché parte di una cultura sudamericana, però ha radici anche mediterraneee, italiane, in particolare romane.
CZ -Chiariamo dunque: il concetto di Murga non è limitato solo alla danza, ma è una una sorta di filosofia della vita o visione del mondo.
LC - Esatto. E’ quello, è l’essenza della Murga ciò che mi interessa, al di là delle nozioni che uno può acquisire, ciò che mi interessa al di là dell’iter storico-cronologico, come è nata, come si è sviluppata, le varie influenze...
CZ- D'accordo, però ricostruiamo una traccia storica... 
LC - La Murga si sviluppa in vari paesi. La più celebre è quella uruguayana.
Si è sviluppata anche in Argentina, ma sono stati due modi diversi di svilupparsi. E la Murga, in realtà nasce in Spagna...


 CZ - Letteralmente cosa vuol dire Murga?
LC - Nel dizionario Murga indica un gruppo di gente che si unisce per fare confusione: il caos! E' presente infatti anche nel vernacolo come espressione popolare (Murgòn= casino, "Que murgòn estàs haciendo?!"). Le origini sono indefinite. Storicamente possiamo riassumere cosi: dalla Spagna arriva in Uruguay un gruppo di teatranti di strada che non potendo tornare in Spagna, perché non avevano soldi, creano questa forma di espressione. Le radici sono ricchissime e intrecciate da varie influenze. Gli stessi strumenti vengono da regioni diverse del Mediterraneo, ad il piattino del bombo (uno strumento che è solo della Murga porteña, quella di Buenos Aires) si dice che provenga dalla Turchia. L'impronta spagnola si è stabilizzata nella Murga uruguayana: una banda che canta, con dei musicisti fissi. Lo scopo è diretto: comunicare attraverso il canto informazioni importantissime a livello sociale, politico e culturale.
CZ - Quindi tematiche vive ardenti, puntuali..
LC - Legate alle difficoltà quotidiane delle persone senza casa o senza lavoro...quelle che, per farlo intendere qui in Europa, si cercano di riunire nei centri sociali. Ma in Sudamerica è fondamentale l'unione tra le persone dal vivo, per strada...
CZ - C'è un brano di Gaber che esprime questo concetto..."c'è solo la strada sui cui puoi contare/ la strada è l'unica salvezza"...

LC - Esattamente. A prescindere dal messaggio che si vuole comunicare, il mio desiderio è informare che esiste una nuovo modo di comunicazione, che si intreccia alle altre culture.
Fondamentalmente è lo spirito originario del Carnevale, ma qui se uno dice Carnevale pensa a Venezia, alle maschere,
CZ - ...A Rondò Veneziano...o ai tanga ipnotici di Rio de Janeiro...

LC- Liberandoci però dagli stereotipi è questo il senso originario...

CZ -... un momento di rovesciamento delle convenzione.,

LC - Esatto, l’elemento popolare che ha la meglio sul Potere.

CZ- Prima hai accennato che la Murga è un mezzo di comunicazione artistica per esprimere problematiche sociali. In quale modo esattamente, attraverso i testi dei canti si quali si danza, o attraverso i significati del gesto?

LC - Entrambi gli aspetti. Per chiarire possiamo dividere schematicamente in due forme principali di Murga: la Murga uruguayana e la Murga porteña. Hanno molte cose in comune, ma storicamente sono ben distinte.
La Murga uruguayana ha una struttura complessa: 15 persone che cantano, divise per sezioni, con un direttore del coro, 3 musicisti, elaborati arrangiamenti musicali. Tecnicamente ecco come si struttura: prendono una canzone molto conosciuta, per cui il pubblico già conosce la melodia, e ne riscrivono il testo con un forte connotato satirico. Si tratta sempre di qualcosa contro il Potere, un commento satirico dell’attualità, di ciò che è accaduto anche a livello internazionale.
In Argentina, la derivazione uruguagia ha cambiato forma, mescolandosi al carnevale italiano. Addirittura il musicologo Coco Romero, uno dei più grandi studiosi di Murga, ha ritrovato radici in alcuni elementi del carnevale romano (ad esempio come vedremo, l'utilizzo della parola "Corso", ma date le origini degli argentini sono molte le influenze italiane).
CZ - Come le contrade del Palio di Siena…
LC - In un certo senso...Ogni quartiere invita i quartieri amici nel loro quartiere a fare il carnevale…dunque in 500 metri c’è una sfilata di una Murga diversa, per tutta la notte…Questa tipologia di festa è chiamata Corso è deriva proprio da Via del Corso a Roma, dove facevano la sfilata di carnevale…
CZ - Che poi il nome nasce perché in quell’occasione lì si tenevano le corse dei cavalli…
LC - Da lì prendono il corso le le murghe che sfilano in ogni settore (quartiere) specifico. E qui si instaurano gli scambi dialettici ispirati alle rivalità fra murghe scambi dialettici,

CZ- ...divertente questa dimensione, una mentalità da "Guerrieri della Notte" in versione artistica. Quanto è importante lo scambio dialettico, lo sberleffo?
LC -...se non ci fosse questo aspetto non ci sarebbero le murghe.

CZ- In Italia come viene vissuto lo spirito della Murga?
LC - In italia ha uno stampo sociale politico connotato. Le Murghe appoggiano manifestazioni, nascono spesso in centri sociali. La seconda Murga, la Malamurga (che quest'anno compie 10 anni), è nata durante il periodo della guerra in Iraq, dall'esigenza di manifestare in modo diverso, superando i vecchi schemi che non davano alcun risultato. Io sono nata nella Malamurga, e poi 4 anni fa ho fondato con alcuni murgheri della murga "Los Adquines de Spartaco", Murga del Quadraro, quartiere della Resistenza.





CZ- Quanto è diffusa la Murga nei paesi che hai visitato?

LC - Già nel 2004 a Buenos Aires, c'era più di una Murga per ogni quartiere. Ogni quartiere dovrebbe avere un movimento del genere, poichè ogni quartiere ha la sua storia, la sua identità. Ogni quartiere ha una sua Murga storica che raccoglie le persone del quartiere: anche le mamme bambini, i nonni, tutti fanno qualcosa, hanno un ruolo, seppur minimo...cento, duecento persone che si riuniscono...

CZ - Una sorta di antenato nobile del flash-mob...

LC - Molto interessante come definizione..in Argentina c'è un forte riconoscimento culturale, il governo finanzia concorsi, ma c'è sempre in agguato una volgarizzazione folcloristica che svuota il tutto di significato.

CZ- Se nella Murga uruguayana il messaggio è affidato al canto, attraverso le parodie satiriche di canzoni popolari, in quella porteña come si esprime il messaggio?



LC - Innanzitutto, anche nella Murga porteña sono presenti canzone di protesta. Ma poi lo spettacolo è introdotto da una "glosa", una introduzione che spiega i contenuti e i contenuti  della Murga...

CZ - Una sorta di prologo da fool shakesperiano...le coreografie come vengono elaborate, ci sono delle forme stabili classiche, o vengono elaborate volta per volta?

LC - Non parlerei di coreografie. C'è una base di movimenti standard, ma fondamentalmente si tratta di un ballo di strada. Ha origine da danze africane, ma all'interno si ritrovano numerose forme di ballo sudamericane: dalla salsa alla cumbìa acrobatica, passando per il tango. Su questa già fertile base, volta per volta ballerini e musicisti importanti hanno lasciato il segno della loro personalità, contribuendo a plasmare la Murga come la conosciamo oggi.

CZ- Quando è esploso il fenomeno della Murga in Sudamerica?

LC - In Argentina negli ultimi 10/15 anni. Negli anni della dittatura è stata quasi completamente repressa.  In Uruguay, la tradizione è più antica e definita. Si è creata proprio una dimensione accademica. Anche perchè, non è molto rinomato, ma in Uruguay c'è il carnevale più lungo del mondo. In quei giorni è l'attrazione principale: ci sono concorsi, selezioni, preselezioni. Ci sono canali televisivi con la moviola di ogni spettacolo, come da noi per i Mondiali di calcio. Dovunque, per la città ci sono i "tablados", teatri dove si può assistere spettacoli "in progress". Al Teatro del Verano c'è l'apoteosi della Murga. Dal teatro partono vere e proprie parate, con un tempo specifico 45 minuti, che culminano nell'abolizione della distanza tra palco e platea: gli artisti scendono dal palco e camminano cantando fin dentro gli spalti. La Murga uruguayana non balla, è un vero spettacolo, una sorta di musical, con veri e propri sketch al suo interno. Il ruolo fondamentale lo ha il canto, ma la struttura è molto complessa: rapidi cambi di vestiti e trucco, un'altissima professionalità viene messa in campo. C'è una giuria per le voci, una per il trucco, una per i costumi...

CZ - Come ai Grammy Awards...invece nella Murga porteña come si giunge a creare una nuova, per intenderci, coreografia?

LC- C'è una struttura di passi-base e di momenti-base, su cui poi ogni Murga innesta il proprio stile. Ad esempio cruciale è il momento della "matanza": i ballerini si pongono in cerchio e, se c'è connessione, inizia un'improvvisazione basata sulla semplice intesa di sguardi.
CZ - Puoi parlarci brevemente delle tre fasi della "matanza"?
LC- Ci sono fondamentalmente tre tempi: la rumba, i tre salti e la linea.
La rumba rappresenta lo schiavo in catene, è un ballo stretto, chiuso, per l'appunto "legato". i "tre salti" rappresentano la liberazione dalle catene, e la linea è il ballo della liberazione.
CZ - Beh, è palesemente un simbolo iniziatico.
LC - Si, il significato della "matanza" sta nella figura della vittima sacrificale che viene posta al centro e poi risorge, come ha sottolineato Coco Romero. Il ballo della liberazione è il momento in cui il ballerino esprime tutte le sue potenzialità, le mosse più acrobatiche, deve rappresentare la più completa libertà fisica.
CZ - Mi viene in mente uno dei miei riferimenti prediletti, il duende di Garcìa Lorca: "Il duende può comparire in tutte le arti, ma dove lo si trova con maggiore facilità, com’è naturale, è nella musica, nella danza e nella poesia recitata, giacché queste necessitano di un corpo vivo che le interpreti, poiché sono forme che nascono e muoiono di continuo ed elevano i propri contorni su di un preciso presente. " (come già ricordato da Moira Chiavarini QUI)
LC- Si, anche se quello è un discorso più individuale, questa è una dimensione collettiva.
Il culmine di tutto il ballo è la sfilata, il canto della liberazione.
CZ- I costumi hanno colori sgargianti e vivaci. Hanno una valenza simbolica?
LC - Le maschere corrispondono a delle maschere allegoriche. I colori molto forti nascono originariamente dall'esigenza di farsi vedere da lontano, dal pubblico. Da qui anche l'esasperazione nel trucco della bocca e degli occhi, per amplificare le espressioni. Ognuno ovviamente poi aggiunge il proprio modello, il proprio stile, la propria energia.
La cosa difficile è estrarre il concetto, la forza, il senso universale della murga, senza scadere nel didascalico. Scrissi un articolo per una rivista di psicanalisi sulla "maschera che smaschera".

CZ - il famoso gioco su ri-velare come velare due volte..
LC - Esatto. Non ti copri ma scopri di più se ti dipingi il volto.
CZ- Mi viene in mente il mio amato Dylan, che durante i concerti storici della Rolling Thunder Revue si truccò il volto affinchè potesse essere visto di più...e naturalmente, questa esigenza pratica, portò a una soluzione che realizzata da un artista iconico come Dylan portò con sè una serie imprevedibile di significati...
LC- Infatti, il trucco è qualcosa che utilizzi perchè vuoi comunicare di più. Ora, in Uruguay è stata professionalizzata la figura del truccatore, prima i murgheri si truccavano da soli. Il momento in cui io mi trucco, poi qualcuno ti trucca e tu trucchi qualcuno a tua volta, è un percorso diverso...

CZ - "Il trucco è meditazione" diceva Carmelo Bene, ne "Il Principe cestinato", citando in realtà un altro attore...
LC - Ad esempio, questa mia opera, "Carnevalma"  può essere intesa nel suo messaggio sociale, ma ha un suo aspetto spirituale più interiore.

CZ – Ci sono differenze di stile e approccio tra le varie Murghe?

LC - Nel momento in cui ti comunicano una cosa come gruppo, ogni Murga ha un proprio stile. Alcune hanno una ispirazione più sentimentale, introspettiva. Temi di intima poesia  come gli anziani, il bambino della fine del mondo etc… ad esempio la mia Murga preferita, “Agarrate Catalina” (espressione popolare che potremmo tradurre con il nostro “Porca Miseria!”, trovate un loro spettacolo QUI) hanno invece attaccato satiricamente una legge in Uruguay che concedeva la maggiore età a 16 anni. Inizialmente, può sembrare una concessione democratica, un’apertura di diritti, ma in realtà era solo un escamotage per mettere più facilmente in galera i ragazzi di sedici anni.
Tutte le Murghe hanno affrontato il tema in maniera riflessiva, loro attraverso l’ironia. Nello spettacolo partono solenni, ma poi esplode il ringraziamento al politico che ha creato la legge, perché in questo modo diventa legale fare tante cose che prima non si potevano fare, come il sesso ad esempio…quindi c’è il rovesciamento parodistico e il paradossale ringraziamento.

CZ- Passiamo ora a parlare delle tue opere, come porti nell'arte contemporanea lo spirito della Murga?
LC- Tornando a Montevideo, dalla Colombia, ho lavorato al progetto “ABRACADABRA” , che parte da una linea murghera. Nasce da un proseguimento del progetto "Carnevalma". M’interessava il rapporto tra parola e realtà, tra parola e volontà. In una società che si fonda sull’impossibilità di soddisfare i desideri, “ABRACADABRA” è una parola con la quale tu puoi avere tutto ciò che vuoi nel momento esatto in cui la proferisci.
CZ - Tu vuoi mostrare la gioia della soddisfazione o l’illusorietà del desiderio che svanisce?
LC - M’interessava cogliere il momento in cui sta per avverarsi il tuo desiderio, si sta realizzando ciò che vuoi di più…lo stupore che ti invade mentre aspetti che si manifesti ciò che desideri…non sai che cosa c’è dopo…il momento della felicità…e dopo un secondo non si è più contenti…ovviamente utilizzando i brillantini d’oro del trucco, l’interpretazione vira più sulla seconda opzione che hai indicato, la vanità dell’illusione…
CZ- Un tema felliniano…al di là del trucco che rimanda ovviamente al circo, ma tutta “La dolce vita” è una riflessione sulla vanità dei desideri…
LC – Non a caso, per tutto il viaggio avevo compagno un libro “Fare un film di Fellini”…mi ha scoperchiato il cervello! Collegato a Fellini c’è un mio video “InVita”, che è stato selezionato in un Festival internazionale a Buenos Aires su 500 video. E’ stato presentato anche a Montevideo, ma è ancora inedito in italiana.Un video sull’occupazione di Cinecittà del luglio 2012, per protestare contro l’annunciata distruzione dei padiglioni di Fellini per costruire una Spa per americani con 6 mila parcheggi!!!

CZ- Sarebbe come fare una sala Bingo nel Pantheon ..parliamo ora di questa tua mostra a Sala1 a Roma.
LC- Si, fino al 13 Aprile, dalle 16.30 alle 19.30. Nata dall’intuizione della curatrice, Emanuela Termine, “Exodus” è una mostra che unisce 5 artiste, per caso tutte donne, che oltre a me hanno lavorato per lungo tempo in paesi stranieri (Sara Basta, Elena Bellantoni, Mariana Ferratto e Dunia Mauro). In questa mostra di esiliate, io ero l’unica in esilio anche il giorno dell’inaugurazione. C’era infatti l’inaugurazione di “ABRACADABRA” a Montevideo nello stesso giorno. Per cui accanto alla mia installazione c’era una postazione Internet, io ero costantemente connessa, chiunque poteva venire e chiedermi qualsiasi cosa, io rispondevo con immagini istantanee della città di Montevideo. L’aspetto interessante è che io avevo scattato queste foto, ad ognuna delle quali avevo dato un titolo, in precedenza, e ad ogni domanda rispondevo col titolo perfetto di ciascuna opera...
CZ – Da cosa nasce il titolo: “Non è tutto loro quel che luccica”?
LC – Al di là del discorso sull’illusione che abbiamo già affrontato prima, stando all’estero mi sono reso conto della visione deformata che hanno dell’Italia, dello stereotipo del Bel Paese, dei monumenti, della cultura…è un tema che già avevo affrontato in una grande mostra chiamata “Colorem habet substantia vera alteram” (“Ha un’apparenza, la sostanza reale è un’altra”). Una mostra all’interno della Facoltà di Giurisprudenza di Buenos Aires, con colonne immense, statue colossali che rappresentano il Professore e lo Studente, uno spazio chilometrico impossibile da riempire e che quindi ti costringeva ad un’opera iper-concettuale. Quindi ho realizzato queste opere ispirate ai luoghi storici romani, con una tecnica interessante: girando il foglio dopo il disegno, creando quindi un effetto incisione. Di giorno dunque apparivano tutti fogli bianchi, di sera con l’illuminazione radente affiorava l’opera. Era per mostrare che al di là della sostanza paesaggistica, non è rimasto più nulla…

CZ – Il simulacro, l’ombra di una gloria che è svanita...
LC – E davanti alla Bocca della Verità ho messo centinaia di mani giunte in cera sottile, simbolo quindi d’una speranza assolutamente precaria. Le ho ottenute tramite una lavorazione particolare: immergendo le mani nella cera liquida bollente (un dolore inverecondo!), non potendo muoverle altrimenti le spezzerei nel loro formarsi, poi aspettando che si raffreddi e si stacchi lo stampo. Uno strato sottilissimo, che si rompe facilmente.
CZ- Poi il gesto delle mani giunte è antichissimo, il famoso“Namastè”, un gesto universale di raccoglimento, preghiera, speranza…

LC – Infatti, volevo proprio comunicare la potenza del gesto in contrasto all’effimerità del materiale. Inoltre, le mani di cera erano dappertutto, per cui la gente ci camminava sopra…l’effetto sonoro era davvero simile a quello delle ossa rotte, perché creano all’interno cassa di risonanza…e il gesto di schiacciare una mano giunta in speranza è devastante.
CZ - Quali stimoli, quale ricchezza, ma anche quali difficoltà hai incontrato nel portare qualcosa di vivo, energico e popolare come la Murga in un contesto mentale e paludato come l’arte contemporanea?
LC - Coniugare arte contemporanea e impegno sociale è praticamente impossibile. Personalmente, non amo sovrastrutture, costrizioni,forzature. Le persone non hanno compreso lo spirito delle mie opere finché non hanno assistito dal vivo alla Murga. Essa è un fenomeno che contiene in sé altre discipline, ma che non sono in realtà direttamente arte contemporanea. Ma se però l’arte contemporanea è un mezzo di comunicazione, che può essere anche sublime a livello intellettuale, la Murga mi permette di comunicare anche in quel modo, a livello universale, qualsiasi cosa io voglia comunicare.