Venerdi sera al Cinema America Occupato c'è stata una serata della quale, secondo me, tra vent'anni leggeremo nei testi di storia del cinema. Chissà se i volenterosi ragazzi del collettivo, che hanno con la sbarazzina disinvoltura dei loro vent'anni invitato il regista Paolo Sorrentino, passato per caso davanti al cinema mentre stavano ri-pitturando la facciata, a presentare "La Dolce Vita" nel loro spazio...chissà se ne sono resi conto.
Se questo è il livello degli eventi culturali proposti, lo sgombero incombente appare un crimine intellettuale.
Anzi, fossi il Sindaco finanzierei i ragazzi per comprare un adeguato sistema di climatizzazione all'interno della sala, che nel caso di opere di lunga durata si tramuta in una gigantesca opprimente sauna collettiva.
La contemporaneità rende da sempre, salvo luminose eccezioni, la critica miope.
Ecco che quindi, probabilmente, molti di voi giudicheranno la mia iniziale affermazione esagerata, fuori luogo, priva di fondamento. "La Grande Bellezza", per me un film-miracolo, un'opera fondamentale nel panorama del cinema italiano degli ultimi venticinque anni, è stato da molti giudicato tronfio, pretenzioso, inutilmente barocco. Per molti l'accostamento ( logico e naturale non solo per il sottoscritto) col capolavoro di Fellini è assolutamente fuori scala.
Quindi, non ci sarebbe nulla di particolarmente interessante, quanto mai di storico, nell'assistere a Sorrentino che ci parla esattamente di quell'opera, che è il precedente diretto e ineludibile del suo film.
D'accordo. Andatevi a leggere QUI le reazioni della critica, o dei contemporanei, proprio a "La Dolce Vita", e poi ne riparliamo.
Sorrentino esordisce dicendo che non è un bravo"parlatore".
Apre il suo discorso schermendosi, sostenendo che è sempre meno interessante parlare dei film, è più interessante farli, è più bello commuoversi vedendo un film che ragionarci sopra. Il contrario di quello che pensava da ragazzo, quando voleva sempre ragionare sulle opere cinematografiche, mentre con l'età adulta l'aspetto emotivo è divenuto prepotente.
Ma, eccepisce, su "La Dolce Vita" è importante ragionare. Si distingue da altri film di Fellini, come "Otto e mezzo" o "Amarcord", dei quali è altrettanto bello, per una peculiarità: non è importante, paradossalmente, che sia bello. Perché più che bello, "La Dolce Vita" è un film pericoloso. Pericoloso, innanzitutto, per i ragazzi. Pericoloso, perché esprime un sentimento pericoloso: quello di vivere in una costante transizione.
E' un film che ti fa vedere la vita senza un punto d'arrivo. Un'opera piuttosto desolante, insiste, in cui è quasi bandita l'ironia, e quando compare essa è vaga, evanescente. Elemento, l'ironia, che invece è fondamentale in altri film di Fellini, ad esempio ne "I Vitelloni", film per il quale Sorrentino definisce il Maestro come capostipite della "commedia all'italiana". Con una, a nostro giudizio, efficace analogia il regista napoletano descrive "La Dolce Vita" come un film lunghissimo, estenuante, a bella posta, perché è come la vita degli individui: lunghissima, faticosa ed estenuante.
Sorrentino, a questo punto, ricorda come il film abbia suscitato reazioni scomposte, solo apparentemente legate a fatti concreti. Reazioni legate al fatto che è un film che fa paura, modernissimo, in cui il personaggio potrebbe benissimo essere immerso nel contesto di oggi, sostituendo le attuali discoteche alle sale da ballo di fine anni'50. Egli vive in una costante condizione di vuoto, di dépense, il concetto di Georges Bataille per cui al culmine della produzione c'è il culmine della disperazione.
Un film ambientato in un contesto fastoso, e festoso, apparentemente meraviglioso, a cui tutti vorrebbero appartenere, dietro il quale però si cela la disperazione più nera, anche se costantemente dissimulata.
Un film senza trama, che si basa sulla vita così com'è.
Ribadisce il regista, un film bello, ma la cui bellezza è meno importante della sua pericolosità.
La pericolosità dell'emulazione dei personaggi della dolce vita, il continuo ricorrere alla distrazione che allontana dal senso della vita, seduti sulle sabbie mobili del vuoto esistenziale.
Un film sulla difficilissima condizione di vita dell'uomo moderno.
Si apre a questo punto una breve sessione di domande. Alla prima domanda, cioè quanto Fellini lo avesse influenzato, il regista risponde che l'influenza è totale: sa tutti i suoi film a memoria.
L'influenza è cosi forte che Sorrentino dichiara d'avere addirittura un blocco, che lo inibisce a parlarne in maniera disinvolta, perché (non potremmo essere più d'accordo) quando si è troppo fan si diventa patetici. L'influenza, comunque, è enorme , anzi il regista dichiara che tutti i suoi film precedenti sono smaccate imitazioni da Fellini, ma i critici non se ne sono accorti. Mentre, a riguardo de "La Grande Bellezza", dove sostiene di non averlo voluto imitare, lo hanno detto tutti!
A questo punto, cogliendo la palla al balzo sulle pressioni per far sgomberare Cinema America Occupato, Sorrentino auspica più che la chiusura dei cinema, la chiusura della critica!
La seconda domanda trae spunto proprio dal rapporto con la critica, infatti l'autore viene bonariamente rimproverato di non aver difeso il film "L'amico di famiglia" da le ingiuste critiche ricevute. Anche qui Sorrentino, da un lato si schermisce, dall'altro spiazza. Nega la benevola accusa, asserendo non solo d'aver difeso il film, ma ampliando la riflessione: per lui una volta fatti i film sono andati, chiusi. Dopo aver occupato anche in maniera ottusa la mente per un lungo periodo, una volta realizzati, sono finiti, dunque, è pronto a difendere il prossimo film, non i precedenti.
L'intervento successivo torna sull'accostamento, entusiasta, fatto dalla critica internazionale tra "La Grande Bellezza" e Fellini. La domanda posta è se Sorrentino si spiega la diversa accoglienza ricevuta dal film all'estero, dove è stato salutato come un capolavoro, e in patria, dove è stato oggetto anche di forti critiche.
Il regista riconosce che la ricezione critica è stata diversa, sottolineando che tutte le critiche sono pericolose: quelle negative perché fanno arrabbiare, quelle positive perché lasciano il dubbio che non siano del tutto sbagliate. Inizialmente, dichiara che, pur essendoselo chiesto tante volte, a tutt'oggi non sa ancora dare una risposta alla domanda. Ma poco dopo ammette con una battuta, che in realtà lo ha capito ma non vuole dare la risposta. "La Grande Bellezza", dice, è un film che mette in difficoltà, tocca nervi scoperti, per questo, secondo il regista, non definirebbe la critica italiana come negativa, piuttosto come "esagitata".
E' un film che è rimasto impigliato nella testa dei critici, che ancora oggi lo confrontano i nuovi film usciti nelle sale. E' certamente un film che non ha lasciato indifferenti.
Sorrentino, tornando al discorso accennato prima, vorrebbe che si cambiassero certi approcci alla visione dei film, approcci datati o legati al personalismo. Per questo auspica una modalità diversa di lettura dei film, anche perché quella corrente non è utile ai lettori, che infatti se ne fregano delle critiche. Un tempo, ricorda, venivano seguite, tuttora in Inghilterra il parere dei critici è molto seguito, ma in Italia ormai il pubblico non li ascolta più. Per cui, i critici dovrebbero fare un pò di autocritica, com'è giusto che la facciano a volte i registi.
Continuando a rispondere al secondo aspetto della domanda, il regista continua a smarcarsi dall'ingombrante accostamento col gigante felliniano, spiegando che all'estero il cinema italiano arriva a singhiozzo, per cui i critici internazionali si ricordano Fellini e Antonioni, perché quelli conoscono, e ogni volta devono trovare un aggancio con i registi attuali.
Tornando a chiosare su "La Dolce Vita", si ribadisce che è un film che tocca corde molto profonde, se si guarda sotto la bellezza delle immagini celeberrime di Anita Ekberg che si bagna nella Fontana di Trevi, si vede il pericolo della mancanza dei sentimenti fondamentali.
Ad esempio, nel film, il padre del protagonista è inizialmente esaltato della bella vita, ma poi preferisce tornare subito a casa. "La Dolce Vita" racconta che la modernità è un assassino dei sentimenti.
Definizione, quest'ultima, per noi stupenda.
L'ultima domanda verte sul rapporto del regista con Roma, un elemento innegabilmente in comune col grande precedente felliniano. Ed ancora una volta, Sorrentino dribbla il paragone, anche su un oggettivo terreno condiviso. Dichiara di non comprendere i discorsi sulle città, i confronti, i "rapporti"...i rapporti si hanno con le persone, non con le città, sostiene. Per lui, Roma è una città talmente bella da sembragli un perenne luogo di villeggiatura, ci vive felice perché si sente come un turista senza biglietto di ritorno, una condizione ideale. Ai fini del film che ha realizzato, però chiarisce, Roma è uno sfondo di bellezza, come sarebbero potute essere New York o le Dolomiti, nei film si descrivono gli esseri umani, non le città.
L'intervento di Sorrentino, per quanto apparentemente dimesso e improvvisato, è stato in realtà un capolavoro di affabulazione, propria di chi da anni si è dimostrato un grande narratore, non solo per immagini. A partite dall'inizio, in cui si dichiara imbarazzato come un oratore incapace, e poi sfodera un discorso bellissimo, non solo per i concetti espressi o per il linguaggio forbito, ma proprio in quanto ben costruito, pieno di ritmo e passione, pause, tempi comici e sferzate improvvise.
Fino alla fine: negare l'unicità del teatro di Roma come scenario perfetto, nella sua barocca, stordente e annoiata decadenza, per la vicenda narrata, è un abile nascondere le carte.
"La Grande Bellezza" come, appunto, solo Fellini aveva saputo fare, è un supremo omaggio d'amore all'antico splendore della Città Eterna, e nel contempo la più spietata esposizione delle brutture, dell'orrenda volgarità, dell'insopportabile cacofonia esteriore, specchio del deserto interiore, che possiede la Capitale.
Punto fondamentale della grande affabulazione, che dura da mesi, è che il regista ha sempre negato, smentito, ridimensionato l'accostamento con "La Dolce Vita", quando, oltre alle numerosi evidenti affinità, è stato proprio il suo omaggio nella presentazione del film a rivelarlo, a suggerirlo, a confermarlo. Le riflessioni da lui dedicate all'opera felliniana, infatti, potrebbero tranquillamente essere rivolte a "La Grande Bellezza". Più che mai solare è apparso il legame, quasi un inconscia confessione, quando ha detto che la condizione del protagonista può essere benissimo essere immersa nella realtà d'oggi, sostituendo al ballo con Celentano magari una serata in discoteca. A parte che una delle scene chiavi de "La Grande Bellezza" è girata nella stessa location del famoso cameo del Molleggiato...soprattutto non possiamo non pensare alle scene di sguaiata danza collettiva sul terrazzo di Jep Gambardella (interpretato da un Toni Servillo ormai oltre ogni lode), versione contemporanea e cafonal degli stanchi festini nelle ville in riva al mare del finale felliniano. E quanto appare astutamente ironico il dire che nei film precedenti ha copiato il Maestro, mentre nell'ultimo no! Sfido io voi tutti a trovare uno sguardo felliniano in "This must be the place" o ne "L'amico di famiglia". E sfido voi tutti, compreso lo stimatissimo autore, a negare la mastodontica impronta felliniana del suo ultimo film. "La Dolce Vita" è, in realtà, evocata, omaggiata, citata, sfidata, parodiata, scavalcata per tutta quanta la durata de "La Grande Bellezza". Come evita e smentisce il paragone nelle interviste (ad esempio QUI e QUI), nel film Sorrentino accetta il confronto, lo stimola, lo provoca, lo impone, lo capovolge.
Jep Gambardella è, ciò che sarebbe divenuto Marcello Rubini ai giorni nostri, quarant'anni dopo aver scelto male al bivio della sua esistenza, voltando le spalle all'Innocenza sorridente nel finale, spostando lo sguardo dalla fissità giudicante del mostuoso pesce sulla riva (dagli ammessi risvolti cristologici come rivelatomi da Alessandro Caroni), e scegliendo di essere rapito e fagocitato dalla mortifera compagnia degli "indifferenti" mondani annoiati, ormai larve senza un'anima.
E a rivederlo venerdi sera, per l'ennesima volta (ma mai quanto "Otto e mezzo", per chi parla il film più significativo della Storia del Cinema), nonostante il caldo crematorio e asfissiante del cinema, "La Dolce Vita" perpetua il suo incanto cupo, il suo quasi baudelairiano splendore. E nella sua intatta, assoluta bellezza, nel suo essere non solo altissima arte poetica, ma bruciante profezia sociale e antropologica (come Fitzgerald trent'anni prima in America non è solo uno scrittore, ma il profeta martire del fallimento a venire dell'American Dream), si conferma il grande, ineludibile precedente de "La Grande Bellezza".
Ci si potrebbe scrivere un libro.
Qualcuno forse ci sta già lavorando.