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mercoledì 4 dicembre 2013

Frank Zappa - a vent'anni dalla morte






Esattamente venti anni fa, a quest'ora, tornavo da scuola a casa di mia nonna (personalità straordinaria alla quale devo geneticamente molte delle mie capacità dialettico-argomentative), con la quale all'epoca vivevo.
Mia nonna mi accoglie con la notizia: "E' morto Frank Zappa".
Io rimango senza parole, colpito dalla paradossalità della scena: "Come? Non ho capito...", e lei insiste: "Frank Zappa, il cantante americano, con i capelli lunghi e i baffoni! Ma che non lo conosci? Era un pazzo, ma era geniale. Mi dispiace".
Stessa scena era avvenuta due anni prima in occasione della morte di Freddy Mercury.
Ma, comprenderete, l'impatto in questo fu ancora più paradossale, spiazzante, surreale.
In una parola zappiano.

Zappa fu (accanto a Dylan, il "Don Giovanni" di Mozart e i Velvet Underground) la colonna sonora della mia adolescenza. Il suo poster gigantesco campeggiava nella mia cameretta con un'espressione di beffarda eleganza.
Come già menzionato in questo blog, ogni sera dei miei sedici anni trovava il suo apice nella scena consueta: Lorenzo Ceccotti, Daniele Capuano (che ce lo aveva fatto amare) e il sottoscritto per i vicoli di Trastevere,  a intonare ebbri integralmente almeno uno dei tre capitoli formanti la formidabile trilogia iniziale "Freak Out", "Absolutely Free" e "We're Only in it for the Money".
Se Dylan era la porta verso la poesia, la ricerca spirituale, il cantore dei sentimenti nobili e degli ideali vibranti, Zappa per me incarnava magnificamente la pars destruens (come nel prosieguo della mia formazione culturale faranno Cèline nella letteratura e Carmelo Bene nella riflessione filosofica), lo sberleffo trionfante dell'intelligenza nei confronti della sconfortante insensatezza del Brutto che ci assedia.
Senza di lui non avremmo avuto probabilmente: Prince, i Primus, Stefano Bollani, "I Simpson", "I Griffin", "South Park", Elio e le Storie Tese etc...ognuno di noi pensi quanto deve a quest'uomo.


Tale fu il debito di riconoscenza che il nostro primo tentativo editoriale fu intitolato "Lampi Grevi",   in omaggio al suo primo disco solista "serio" (per quanto possa avere senso tale definizione) "Lumpy Gravy".
Eccone il formidabile tema principale, per anni inno interiore delle nostre gesta:


A quella fanzine, dalla breve ma gloriosa esistenza, collaborarono (da co-fondatori) quelle che con molto affetto definisco alcune fra "le menti migliori della mia generazione": oltre ai citati Ceccotti e Capuano, c'erano Gianluca Abate, Lucio Villani, Daniele Catalli, Mariachiara Di Giorgio come valenti disegnatori, Francesco Fava, Alessandro Caroni, Luca Cruciani, Francesco Di Giorgio come fertili menti di idee e contenuti (chiedo perdono a chi eventualmente abbia dimenticato).
Lo strambo nickname che dà il nome al blog che state leggendo ebbe origine proprio in quel periodo, esattamente dal fotoromanzo "Neve e Sangue", ambientato a S.Pietroburgo e girato alla Garbatella, partorito dalle menti geniali di Alessandro Caroni e Luca Cruciani.

Oggi, per commemorare il ventennale della scomparsa, Lucio Villani sul suo blog non a caso ha ritratto proprio la copertina di quell'album.

Zappa visto da
Lucio Villani

Come raccontare la grandezza di Zappa nella tirannica brevità di un post?!
 (già sento le vostre battutine, sciocchi!)
Vorrei sottolineare aspetti meno immediatamente evidenti di quelli che chiunque può ricordare (il genio musicale, il respiro orchestrale delle sue composizioni, la provocazione oltraggiosa, lo sberleffo anti-perbenista etc.)
La prima considerazione è quella di sottolineare l'intelligenza assoluta, tutt'altro che sregolata, ma lucidissima, matematica, inesorabile del suo progetto musicale e della sua visione culturale.

A riprova di ciò, Zappa fu uno dei principali riferimenti del primo, fortunato post di questo blog (lo trovate QUI)

Come dice il titolo di uno dei suoi, se non erro, 64 dischi, Zappa & the Mothers of Invention erano davvero "Ahead of their Time": un anticipo strabiliante sui loro tempi che ora a distanza quasi di 40 anni dall'esordio dobbiamo pubblicamente riconoscere.



Solo un genio poteva architettare la più grande parodia del movimento hippy in tempo reale.
"We're only in it for the money", parodia frontale del disco feticcio dei Beatles fin dalla copertina.
Un disco che dimostra (oltre che una ricchezza incontenibile di spunti musicali e acrobazie melodiche) una capacità di analisi culturale che in quegli anni forse ha avuto solo Pasolini, e Gaber poi, per rimanere in Italia.
Solo un genio poteva decostruire seduta stante il mastodontico movimento culturale di illusoria ribellione, i cui penosi strascichi scontiamo ancora oggi nella sistematica inversione di segno di tutti i suoi protagonisti (per rimanere sempre nel nostro Paese si pensi alla larga parte di militanti di "Lotta Continua" trasferitisi in blocco tra le file berlusconiane).
Solo un genio poteva creare una bomba contro l'ipocrisia yankee come "Brown shoes don't make it", cioè "American Beauty" più corrosivo e profondo fatto trent'anni prima in 7.30 minuti di genio satirico assoluto: pochi minuti in cui Zappa riesce a prendere in giro magnificamente praticamente chiunque (da Schoenberg a Jim Morrison) scoperchiando sardonico il tappeto del perbenismo W.A.S.P., e mostrando spietatamente l'immondizia morale che ne era la sostanza.


E poi, potremmo parlare ore (sono vent'anni che lo facciamo!) dell'infinita aneddotica oltraggiosa, che ha reso Zappa il monumento vivente al politicamente scorretto vero, ben più delle adorabili provocazioni di "Catholic Girls", "Bobby Brown" o "Jewish Princess" (ebbe l'infallibile prontezza di raccogliere tutti i suoi brani offensivi nell'antologia "Have i offended someone?").
Mi riferisco soprattutto ai suoi rapporti con gli altri grandi geni del rock.



Dalle scaramucce sul palco con i Velvet Underground durante il concerto del 1966 (si dice che gli introdusse più o meno: "ora suonano loro, fanno schifo", approfondimenti QUI); allo stentoreo "Fxxx You, Captain Tom" ripetuto a David Bowie, colto di sorpresa a soffiargli il chitarrista Adrian Belew (lo racconta quest'ultimo QUI); al famoso episodio con Dylan: dopo averlo accolto con giocose battute antireligiose, la leggenda narra che Zappa rispose alla proposta di fare un disco insieme (da parte ricordiamo del futuro Premio Pulitzer e più volte candidato al Premo Nobel per la Letteratura) : "Va bene Bob, ma i testi li scrivo io!" (va detto che Bob era reduce dalla trilogia cristiana ben poco affine all'ispirazione di Frank, come spiegato QUI);

Come non menzionare il colpo di teatro assoluto: la candidatura al Presidente degli Stati Uniti d'America.
Il genio.
Ora, personalmente non condivido l'iper-laicismo ideologico di Zappa, ma vederlo sbeffeggiare l'ottusità della censura perbenista americana con i suoi proclami alla Groucho Marx è uno dei grandi piaceri della vita (dato questo assunto QUI, gioitene QUI).

Questo intende essere solo un doveroso omaggio, senza nessuna pretesa esaustiva di raccontare una carriera irripetibile.
Ma soprattutto, vuole essere un invito a non confinare un artista straordinario nelle stanche etichette di "provocatore", "goliarda", "genio e sregolatezza".
Frank Zappa è stato non solo uno degli artisti più eclettici e preparati della recente storia musicale americana, ma è stato una delle poche figure della cultura "pop" a manifestare la consapevolezza culturale dei grandi maestri.
Il talismano dell'intelligenza contro i condizionamenti della società.
Era anche un fulminante aforista.
Tra le innumerevoli citazioni, scelgo:
 "Se passi una vita noiosa e miserabile perché hai ascoltato tua madre, tuo padre, il tuo insegnante, il tuo prete o qualche tizio in tv che ti diceva come farti gli affari tuoi, allora te lo meriti."

Non dimentichiamocelo mai.
Grazie Frank.

venerdì 29 novembre 2013

Un anno di SPEZZANDOLEMANETTEDELLAMENTE

Lo stendardo di  maicol&mirco per il nostro blog

Qualche giorno fa questo blog ha festeggiato il suo primo compleanno.
Non posso esimermi dai proverbiali bilanci.
Il primo post è stata la lunga analisi del primo volume de "Gli Scarabocchi di maicol&mirco" (lo trovate QUI).
Il blog è nato, infatti, in seguito ai decennali ripetuti inviti (spesso in forma di calci) di Lorenzo Ceccotti (illustratore principe e protagonista anch'egli del blog QUI), e ha trovato il suo battesimo in occasione della introduzione succitata al libro di maicol&mirco.
Ne abbiamo parlato poi altre volte (QUI e QUI), accompagnandoli in ogni pubblicazione, abbracciati in una spirale ascendente di superamicizia.

Un blog, lo dico non per vezzo, davvero nato per gioco, rompendo l'incantesimo d' una ventennale pigrizia, che ha raccolto, sarebbe sciocco nasconderlo, una notevole ondata di apprezzamento.
Mi era parso naturale intitolarlo pensando a uno dei  miei versi preferiti (In every cry of every Man,/ In every Infants cry of fear,/ In every voice: in every ban,/ The mind-forg'd manacles I hear) di William Blake, di cui ieri ricorrevano gli illuminati natali.
All'inizio mi sono occupato degli ex-Superamici, ora ribattezzatisi solennemente Fratelli del Cielo, ma via via ho scatenato le tigri della mia logorrea su vari ambiti dello scibile.
Mi era sempre sembrato strano dover mettere su carta le mie mille opinioni su qualsiasi cosa.
Ora mi sembra strano non scrivere qualcosa su ogni film che vedo o libro che leggo.
Il Tempo tiranno e quel pò di pigrizia che sopravvive vi salva da una tempesta di spam quotidiano, cari lettori.
A proposito, miei fedeli esegeti, nei primi tempi vi stimavo nell'ordine di venticinque, omaggiando l'amato (contro ogni luogo comune) Manzoni.
Ora, dopo un anno ci sono tre zeri dopo quel numero.
Per carità, sappiamo che è un numero ben poco clamoroso.
Siti di amici, o sui quali pubblico regolarmente, hanno lo stesso numero di visualizzazioni in un mese, talvolta perfino in un giorno.
Ma se vediamo la lunghezza media degli articoli (croce e delizia di chi legge) e soprattutto gli argomenti trattati, da gli elementi esoterici nelle fiabe al concetto di castità in Nietzsche, beh il dato non è certo sconfortante.
Inoltre, a costo di venir tacciato di piaggeria, al di là dei numeri è la qualità dei lettori che mi rende fiero.
Il blog è stato il biglietto da visita per guadagnarmi la stima e l'amicizia di numerosi addetti ai lavori nei campi del fumetto, della musica e del cinema. E, inoltre, i miei incontenuti deliri mi hanno portato a collaborare con siti prestigiosi come Conversazioni sul Fumetto  prima e Fumettologica poi, e poi recentemente anche per Linkiesta.it

 Ma soprattutto, mi ha consentito di conoscere persone di grande cultura e fine sensibilità, che mi hanno accordato il privilegio della loro fedele attenzione. Alcune sono diventate veri amici e carissime amiche.
Altre, spero, saranno presto compagne in  progetti folli e divertentissimi.
Io qui le ringrazio, una ad una.


Dimenticavo, il  mio primo blog in realtà era un altro, condiviso con Daniele Capuano.
Dopo aver scritto poche sciocchezze abbandonai il progetto, che quindi è diventato l'archivio delle perle di una delle più grandi menti contemporanee.
Seguitelo, quello si che è un blog serio:
http://hortus-confusus.blogspot.it/

Per concludere, non posso che parafrasare ciò che disse David Bowie in occasione del suo cinquantesimo compleanno (vado a memoria): non posso garantirvi cosa scriverò in futuro, ma posso dirvi che di sicuro non vi annoierete.
Buona Lettura



martedì 1 ottobre 2013

INTERVISTA A LRNZ!!!!



Aspettavo questo momento da circa 20 anni.
Esattamente dal novembre '93, quando durante un'occupazione al Liceo divenni amico di Lorenzo Ceccotti.
Un'amicizia sancita dalla consegna del primo numero del "Manuale di Conversazione Metropolitana", sorta di dizionario gergale delle più colorite espressione romanesche, in seguito saccheggiato da una pletora di comici romani e non, di cui LRNZ aveva fatto la copertina.
Non voglio tediarvi con toni da libro "Cuore" (anche se in realtà gli aneddoti che mi sovvengono vi ricorderebbero più "Paura e Delirio a Las Vegas"), posso solo dirvi che, dal punto di vista meramente intellettuale, tutte le pietre miliari della nostra ricerca, tutti gli autori che ci hanno ispirato, sconvolto la vita o spaccato il cervello (da Tarkovskji a Carmelo Bene, da Frank Zappa a Simone Weil) li abbiamo scoperti, con tremore e meraviglia,  insieme, spesso sotto la sapiente guida del nostro caro amico Daniele Capuano ( le cui qualità ciceroniane chi segue questo blog ha già potuto apprezzare  QUI e QUI).

Finalmente, dopo aver esplorato tutto l'universo grafico in ogni riposto anfratto, LRNZ è riuscito a pubblicare una storia a fumetti, dopo anni di tentativi, di numeri zero, di progetti sempre più ambiziosi, volta per volta accantonati o rielaborati.
Pochi sanno che inizialmente, una decina di anni fa, avevamo lavorato insieme ai testi della prima versione ASTROGAMMA, ma né la storia era delineata in tutte le sue sfaccettature, né il mio contributo (all'epoca meramente umoristico) era all'altezza delle potenzialità nascoste della storia.
Onore, quindi, ad Alessandro Caroni, che ha saputo enfatizzare gli aspetti di profonda riflessione esistenziale già presenti nella storia di LRNZ, conferendo a un'opera già portentosa un ulteriore ricchezza filosofica.
Ho solo amici intelligentissimi.
Mi compiaccio.

P.S.
Ah, l'intervista la trovate QUI, sulle colonne di Conversazioni sul Fumetto

P.P.S.
Nell'intervista si parla anche di questo blog, e di continuare la collaborazione con LRNZ iniziata QUI, QUI e QUI)
Exultate, Jubilate!

martedì 2 aprile 2013

"The Next Day" - il mondo in fiamme del veggente bugiardo


Ancora una volta il Duca Bianco è tornato, “lanciando dardi negli occhi degli innamorati...”

Molto si è speculato, legittimamente, sulla copertina di
"The Next Day", ove un quadrato bianco col titolo del disco oscura il volto di Bowie, al massimo dello splendore iconico, sulla copertina di "Heroes". Il disco-simbolo, forse il vertice, della gloria artistica passata del Nostro.




Numerosi commentatori hanno interpretato questa scelta, supportati anche
dalle dichiarazioni di Tony Visconti a riguardo, non come una mera provocazione, ma come un annuncio di svolta, un invito rivolto in primo luogo alla platea globale di devoti: affrancarsi dalla nostalgia mitizzante, obliterando il volto sacralizzato dell'idolo, proiettandosi verso l'ignoto oceano delle possibilità future."Au fond de l'inconnu pour trouver du nouveau"? D'accordo, ma se di
"Invito al Viaggio" si tratta, è un'odissea interiore, quella alla quale siamo sospinti.Infatti, come è stato notato, il disco in realtà trabocca di riferimenti, nemmen tanto celati, alla indimenticabile produzione precedente. Non solo all'epocale trilogia berlinese, come esplicitamente suggerito, ma anche agli esperimenti jungle degli anni '90, al parzialmente abiurato exploit da "king of pop" di inizio anni'80, passando per le suggestioni sonore di "Scary Monsters".
Ancor di più, a mio modesto avviso, il Duca ha seminato tracce che ci riconducono addirittura ai lati oscuri di
"Hunky Dory", e alla malata bellezza di "The Man who sold the World".
Briciole di citazioni, più o meno immediatamente riconoscibili, che consentono, se raccolte ,
all'ascoltatore smarrito di ritornare a casa, "bringing it all back home", togliendo i capolavori dai mortiferi Musei del Rock, e restituendoli alla vita, trasformati in nuova creazione.
Così per il finale di
"Five Years", evidentemente ripreso da "You Feel so Lonely You Could Die", oppure per la schitarrata ritmica di "Fame" e il riff furbetto di "China Girl" ben nascosti in "Dirty Boys", e molti altri, più sottili, riferimenti, che di volta in volta richiameremo nella trattazione.
Un gioco cosi raffinato e genialmente auto-ironico da applicarsi in corso d'opera all'opera stessa: le prime note di
"Valentine's Day" ricalcano immediatamente il commovente refrain dell'appena terminata "Where are we now?"
, quasi a già consegnare il nuovo singolo ad una certa consacrazione da classico ulteriore.
Dunque, nessun impossibile colpo di spugna estetico, al contrario un complesso e introspettivo laboratorio di rigenerazione creativa.
Una resurrezione artistica che porta in dote le accecanti memorie antecedenti alla morte apparente.
Bowie aveva perfino convocato Robert Fripp, la chitarra siderale del brano-manifesto title-track dell'album evocato/rimosso fin dalla copertina. Il leader storico dei King Crimson
non solo ha declinato l'invito, è stato anche l'unico a rivelare la segretissima notizia del nuovo progetto del Duca. Ma, tale è il potere del misterioso magnetismo bowieano, nessuno gli ha creduto.
Ho già mostrato
QUI, commentando la meravigliosa sorpresa di Gennaio, l'inattesa uscita del singolo, come
Bowie da più di 30 anni sia costretto a giocare pazientemente a scacchi con la sua leggenda. Con la stessa sapienza, e più pirotecnica impertinenza, di Dylan.
Nel già citato
articolo avevo accostato i due mostri sacri (s'intenda la definizione in senso etimologico, di segno divino prodigioso che ammonisce e rivela, meraviglia e atterrisce), nella quasi necessaria affinità di de-costruire e lottare contro il Doppio demonico del proprio mito.
L'ascolto approfondito del disco ha confermato la non ingannevole intuizione.
"The Next Day" è pervaso dallo stesso soffio qohèletico che ispira gli ultimi, foschi capolavori del genio dylaniano: si pensi alla quasi diretta citazione dall'Ecclesiaste in "Love is Lost" ("You know so much, it's making you cry"), o ai versi quasi villoniani di "I'd Rather Be High" ("I stumble to the graveyard and I/ Lay down by my parents, whisper/ Just remember duckies/ Everybody gets got"). Del resto, il Padre di tutti i Cantautori Moderni "with a voice like sand and glue" è citato più o meno direttamente almeno in un paio di occorrenze: come stella più luminosa del firmamento del Greenwich Village inizio anni'60 in "(You Will) Set the World on Fire", e nella gemma finale "Heat", proprio nel gioco tra "Love" e "Theft" (non a caso più critici hanno paragonato questo sontuoso ritorno di Bowie proprio al precedente dylaniano del 2001).
La vena scaturisce potente fin dal primo brano, la title-track:
Bowie si presenta come un Caligola medievale, alla fine del suo regno di decadenza, linciato dal popolo inferocito. Ma, con rasputiniana insolenza, sentenzia nel ritornello "Here i am/ not quite dying", miglior modo possibile per ripresentarsi al cospetto del mondo (e anche qui non possono non venir mente i versi relativamente recenti del Dylan di "Spirit on the water"
: "You think, I'm over the hill/ Think, I'm past my prime/ Let me see what you got/ We can have a whoppin' good time").
All'inizio del secondo brano,
"Dirty Boys"
, corredato dalle già segnalate auto-citazioni, sembra di ascoltare un crooner dai toni morrisoniani improvvisare su un motivo del Tom Waits di “Swordfishtrombones". Molti hanno qui colto un omaggio al magnifico "The Idiot", prodotto e creato assieme all'amico/fratello/amante Iggy Pop nei leggendari Hansa Studios di Berlino, durante l'irripetibile stagione creativa di fine anni '70. Personalmente, invece vi ho letto un altro riferimento, forse inconscio, ma obbligatorio quando si parla di Bowie e Berlino. La strofa "I will buy a feather hat/ I will steal a cricket bat/ Smash some windows, make a noise/ We will run with Dirty Boys" mi ha fatto immediatamente venire in mente una celebre scena. Quella di "Christiane F.-Noi i ragazzi dello Zoo di Berlino" in cui, sulle note di "Heroes", i ragazzi all'inizio del film si abbandonano, con paradossale innocenza, all'ebbrezza liberatrice del vandalismo.

 Un momento entusiasmante alla prima visione, ma straziante se rivisto in seguito: i gioiosi teppisti che nell'euforia della fuga scivolano, inciampando l'uno sull'altro, non sono consapevoli di vivere una sardonica premonizione, la più precisa metafora del loro destino. Saranno loro stessi, all'inizio quasi impercettibilmente, poi via via con ineluttabile accelerazione, a trascinarsi l'un l'altro come reciproche sabbie mobili nell'inferno dell'abiezione. Uno strazio reso ancora più dolente dal controcanto ironicamente eroico del celebre brano di
Bowie: il canto fiero e disperato d’una impossibile rivolta romantica, è colonna sonora della perdita dell’innocenza d’una intera generazione.

Il terzo brano, “The Stars (Are Out Tonight)” è il secondo singolo, lanciato dal videoclip di Floriana Sigismondi, a cui certo un artista iper-consapevole come Bowie ha affidato una delle possibili chiavi di lettura del suo ritorno. Nel brano, possente e accattivante, il mondo fatato del jet-set, delle star, non desta più le proiezioni dello stupore infantile, come in “Life on Mars?”, o la trasfigurazione nel fascino del proibito, come in “Starman”. La leggenda vivente che ha passato tutta la vita sotto i riflettori dipinge l’ambito status con minacciosa inquietudine (“They burn you with their radiant smiles/ Trap you with their beautiful eyes”). Già 14 anni fa, nel video di ”Thursday’s Child” il gioco metaforico del Doppio era stato affrontato, ma in maniera abbastanza lineare.  Il Bowie maturo, stanco, alla fine del giorno prima delle abluzioni notturne, in un sussulto d’introspezione intravedeva dall’altra parte dello specchio se stesso giovane, ardente di oscura bellezza, rivivendo in un attimo straniante l’impossibile emozione del passato, per poi tornare bruscamente alla “normalità” delle abitudini quotidiane (significativi i versi: “Something about me stood apart/ A whisper of hope that seemed to fail”, sussurati nei momenti precedenti alla visione).





Lo stesso gioco ora si moltiplica e rifrange in una raffinata complessità di livelli di interpretazione.
Un gioco condotto con spiazzante auto-ironia, fino a un illuminante capovolgimento dei ruoli.

Bowie, l’icona oltraggiosa e conturbante del diverso, dell’alieno, del trasgressivo, si presenta nei panni di un innocuo borghese, appagato dalla sua fin troppo serena vita di coppia accanto alla moglie, interpretata da Tilda Swinton. E qui c’è la prima apparizione del Doppio, complice l’impressionante somiglianza fra i due protagonisti. I due appaiono per la prima volta officiando il rituale materialista della quotidianità borghese: facendo la spesa insieme in un supermercato.
Una scena che sembra il finale di
“Eyes Wide Shut” al contrario: se nel controverso testamento di Kubrick la coppia trovava nell’eros una liberazione e una riconquista della propria identità (per chi scrive, un abbaglio freudiano), qui assistiamo alla resa totale ai condizionamenti della società. Bowie scambia un paio di battute qualunquiste col commesso, il quale, gli addita con sdegno una coppia di star sregolate sulla copertina di una rivista di gossip (in cui si vede il cantante stesso come l’alieno Thomas Jerome Newton ne "L'Uomo che cadde sulla Terra"). Bowie
sembrerebbe provare simpatia e fascino per la vitalità delle “twisted antics” (le “contorte buffonate”), ma viene subito ripreso dalla moglie che lo riporta al comandamento della normalità sociale: “We have a nice life”, frase che egli ripete meccanicamente con malcelata rassegnazione. Il matrimonio, nella sua versione falsa e convenzionale, invece di essere il congiungimento delle energie archetipiche, è l'istituzionalizzazione della schizofrenia: l’Androgino si è diviso, l’unità primordiale smarrita.
Ma al termine della scena, vediamo i due spiati e inseguiti dalle star della copertina: due presenze conturbanti, demoni dell’apparenza.
In
“Mulholland Drive” le presenze demoniache, che inducevano nel finale da incubo la protagonista al suicidio, erano i fantasmi lillipuziani degli anziani sorridenti, che all’inizio del film la accoglievano benevoli nell’inganno dorato dell’American Dream, arconti del crudele regno dell’apparenza. Non possiamo a questo punto non ricordare come lo stesso Lynch abbia scelto proprio Bowie come protagonista di una enigmatica scena chiave di “Fuoco cammina con me”, fondata sempre sullo sdoppiamento e sulla perdita dell’identità. Qui i demoni hanno le fattezze patinate di due fotomodelle, anch’esse androgine, dalla nervosa sensualità, fantasmi di algida bellezza (per Leopardi la moda è “sorella della morte”). Una di esse è il palese alter-ego femminile (lo yin? l’es? il dionisiaco? l’ombra junghiana?) di Bowie
, la cui inquietante bellezza, nel prologo del video, viene spiata dalla moglie, con sospetto e ripulsa, nascondendosi dietro le tende di casa. Tornati a casa, Bowie e la Swinton stanno celebrando l’altro grande rito della “nice life”,intrattenendosi amabilmente davanti alla tv, quando vengono disturbati dal chiasso dei vicini. Il buon marito borghese si alza per lamentarsi, per pretendere il rispetto delle regole convenute, ma presto intuisce, ri-conosce che dall’altra parte si trova la propria controparte femminile. Il proprio alter-ego, nella totale scissione interiore della vita moderna, non è più un’ombra in cui specchiarsi, bensì un chiassoso dirimpettaio da mettere a tacere. I due volti ci vengono mostrati simmetricamente in ascolto l’uno dell’altro, ma separati irrimediabilmente da un muro (un’ennesima allusione a Berlino?). Tale è l’incomunicabilità col proprio sé interiore, che non desta più nostalgia o desiderio, ma solo disturbo e inquietudine.
 Lo specchio è divenuto muro.
Sarà la moglie, custode dei vuoti rituali sociali, a cedere all’influenza tentatrice, come una grottesca marionetta posseduta dagli spasmi dell'eros e dai capricci della vanita'.
In uno speculare cortocircuito, sarà invece Bowie a rifuggire spaventato dai fantasmi della trasgressione e del successo, che lui stesso ha per tutta la vita incarnato a livello di coscienza collettiva.  Un gioco di sdoppiamenti raddoppiati che si concluderà con la definitiva inversione dei ruoli tra le due coppie (le presenze tentatrici diverranno i due sul divano davanti alla tv, e, mutatis mutandi, viceversa). Lontano dalle velleità del suo amico
Mick Jagger, che a 70 anni ancora gioca a fare il sex-symbol, Bowie
si conferma artista supremamente intelligente, in grado di anticipare e neutralizzare, con le armi intatte della sensibilità e dell’ironia, qualsiasi possibile luogo comune.

Il disco prosegue con
“Love is Lost”
, brano di grande tensione poetico-musicale, in cui il tema abusatissimo del disagio giovanile assurge a puro paradigma della dolente condizione umana, in violento contrasto con la fatuità delle esteriorità sociali (“Your country's new, your friends are new/ Your house, and even your eyes are new/ Your maid is new, and your accent, too/ But your fear is as old as the world”).
Su
“Where are we now?”, sulla sua importanza e sulla pura commozione che m’ispira, già mi sono diffusamente espresso QUI.“Valentine’s Day” ha secondo me un illustre precedente in “Running Gun Blues”. Ma se nel disturbante brano di “The Man who Sold the World” i pensieri del serial-killer venivano narrati attraverso la parodia delle canzoni di protesta, qui, con antifrasi più sottile ma non meno interessante, vengono affidati all’apparente gradevolezza di un rassicurante brano pop. “If You Can See Me” è chiaramente, in questa grande rivisitazione della propria carriera, il brano che si rifà al periodo sperimentale, per il sottoscritto discutibile, di “Earthling”. In “I’d Rather Be High” si coglie invece l’eco di “All the Madmen”, altro diamante nero di “The Man who Sold the World”. Basti confrontare il ritornello del primo ("I'd rather be dead/ Or out of my head/ Than training these guns on the men in the sand") con gli antichi versi ("...I'd rather stay here/ With all the madmen/ Than perish with the sadmen roaming free"). Ma anche qui Bowie
inverte il suo ruolo storico: da vittima predestinata in quanto diverso, a nolente e disgustato carnefice. I due volti, apparentemente contrapposti, della schiavitù contemporanea.
Gli altri brani continuano lo svolgimento del discorso principale, riecheggiando ambiguamente sonorità e tematiche che hanno puntellato tutte le rinascite della vita artistica bowieana.
Vorremmo soffermarci però sugli ultimi due brani, per noi i più importanti accanto al primo singolo, in cui il Duca ha nascosto magistralmente i suoi tesori.

In
"You Feel So Lonely You Could Die", Bowie continua il magnifico prodigio alchemico sulla canzone pop innervando una ballata dal titolo rubato a Elvis con dolente poesia esistenziale. Aleggiano ancora i fantasmi dello Zoo di Berlino (presto dedichero' le mie riflessioni a un eccellente libro sul tema), in versi che  potrebbero benissimo essere dedicati a Christiane F
.: "You’ve got the dangerous part./ You stole their trust, their moon, their sun./ There'll come an assassin's needle/ On a crowded train./ I bet you´ll feel so lonely you could die./ Buildings crammed with people./ Landscape filled with wrath./ Grey concrete city./ Rain has wet the street./ I want to see you clearly/ Before you close the door./ A room of blood history./ you made sure of that./ I can see you as a corpse/ Hanging from a beam./I can read you like a book./ I can feel you falling./I here you moaning in your room.".
Ma il vero capolavoro del disco, forse, almeno il brano più significativo, degno di essere posto accanto alle ballate classiche,  è proprio l'ultimo brano,  l'abissale
"Heat".
Era, forse, da i tempi di
“I Can’t Read”, che Bowie non scriveva un brano così profondo e autentico.
Il
Duca chiude il cerchio della sua bruciante parabola, riscrivendo una nuova "Space Oddity",
brano evidentemente citato negli arrangiamenti. Ma stavolta, come accennato, l'odissea è nel proprio spirito.
Dopo la vana esplorazione del cosmo esteriore, sfociata nella decadenza morale dei "sordidi dettagli" in
"Ashes to Ashes" (con dinamica uguale e contraria l'alieno Bowie-Jerome finira' alcoolizzato sulla Terra), Major Tom al fine del suo peregrinare si smarrisce nel piu' vasto degli universi: l'impero della propria interiorita' (l'autentico "Inland Empire"
).
Ma piu' che
Lynch, ancora una volta sovviene Kubrick (amato e citato ogni sera in apertura dei concerti dell'era Ziggy), nel maestoso finale di "2001-Odissea nello Spazio"
(proprio il film che ispiro' il celebre brano d'esordio).
Al termine del viaggio psichedelico al di la' tempo e dello spazio, sorta di ultra-moderno "folle volo" dantesco, passata l'effetto illusorio della folle ubriacatura tecnologica l'Uomo si ritrova, inerme e agonizzante, nudo nella sua miseria ontologica al cospetto del nero Monolite, significante assoluto del Mistero.
Il ritornello rivelatore (“and i tell myself/ i don’t know who i am”) ricorda quello famoso di
“Quicksand” (“I ain’t got the power anymore”). Una reminiscenza non casuale, il grande manifesto negativo (quello di “Don’t believe in yourself”), in cui, all’epitome della falsa conoscenza, Bowie
riusciva ad omaggiare in una strofa due figure diversamente demoniache (Himmler e Crowley).
Lontano dal compiacimento originario di
“Changes”
(“So I turned myself to face me/ But I've never caught a glimpse/ Of how the others must see the faker/ I'm much too fast to take that test”), Bowie getta la…o meglio le, infinite, maschere: ”I am seer/ and i am a liar”. Identificando il proprio potere psichico, la propria visione, con la menzogna, egli confessa il suo tragico fallimento, il mancato raggiungimento dell’obiettivo di ogni ricerca spirituale: gnosi seauton, conosci te stesso.
 La ricerca dell’identità interiore, differita negli innumerevoli travestimenti, parodiata nelle maschere cangianti, camuffata nel gioco schizofrenico degli alter-ego, si è alfine smarrita, nel più colossale, e disperante, dei divertissement. Il momento magico (“one magical moment from Kether to Malkuth”) evocato in “Station to Station” (la prima apparizione del Duca Bianco!) si è rivelato un trucco effimero e beffardo, lasciando solo le pornografiche macchie bianche dell’inganno crowleyano a contaminare l’anima (chi volesse conoscere il vero volto del satanico pagliaccio si affidasse al ritratto donatoci da W.S. Maugham ne “Il Mago”). Accanto a tale pericolosa guida, il percorso cabalistico, evocato nel verso citato, da Kether a Malkuth, invece di condurre alla manifestazione della Shekinah (la Divina Presenza di Dio, Suo aspetto femminile per alcuni filoni della Qabbalah), ha costretto Bowie a materializzare i suoi stessi incubi. Invece di portare (come nell’originario intento mistico) l’invisibile luce dello Spirito nella creazione, il tragitto è stato una rovinosa discesa dall’illuminazione alla morsa infernale dei sensi e delle dipendenze.
La Sposa non è apparsa, e le Stazioni della Croce hanno condotto a un calvario senza Resurrezione.
Il brano si chiude sul rintocco kafkiano di “My father ran the prison/ My father ran the prison”.
Ora, chi scrive considera Freud un dannosissimo cialtrone, e la psicanalisi (prima di Jung) una delle maledizioni del Kali-Yuga. Ma stiamo parlando di Bowie.
Un artista che ha fondato la sua
Weltanschauung sull’unheimlich
(per chi non ama il tedesco: ha fondato la sua visione del mondo su ciò che è perturbante, spaesante, sinistro, su ciò che non è ci è familiare e che non ci mette a nostro agio). Non credo, dunque, sia una forzatura peregrina leggere in questi versi un richiamo a quello che, psicanaliticamente, è quasi luogo comune: accostare, a livello inconscio, la figura del Padre a quella di Dio.
L’intera creazione, ci rivelerebbe inconsciamente
Bowie, si configura come una prigione universale, una gabbia per l’Angelo Ribelle, un esilio crudele per l’alieno luciferino, reso cieco ad ogni visione superiore (come ne "L'Uomo che cadde sulla Terra"), inchiodato alla eterna punizione della sua hybris
.
E per un ricercatore della Verità la più tremenda Nemesi è non poter più conoscere se stessi.
P.S.
Come anche il precedente, questo articolo è impreziosito da un ritratto (per me tra i più belli e significativi mai realizzati sul tema)  dell'artista in questione realizzato dal genio fraterno di di LRNZ (Lorenzo Ceccotti).
E, anche in questo caso, Lorenzo ci "illustra" la sua illustrazione, donandoci una riflessione quanto mai pertinente, che sottoscrivo parola per parola:

"Oggi parliamo di questo disegnino su David Bowie. (DEVID BOIV, per gli intenditori fumettari, quello che un occhio è...)
L'ho fatto di gusto.
Mi ha sempre annoiato tutto questo sfaccendare per ingraziarsi il diavolo.
Stare dalla parte dei cattivi è una roba pallosa, ed è molto più facile, visto che sono SEMPRE tutti d'accordo che è figo essere tasgressivi col diavolo, pochissimi ad esserlo con il bene, con ciò che è equilibrato, con quello che è bello e difficile: costruire. Non è un caso che mi piacciano da impazzire Moebius nel disegno, o gli Autechre nella musica: devono molto a questo percorso di ricerca solitaria, ascetica in una continua trasgressione nel perfetto.
Capirete quindi che oltre a annoiarmi mi colpisce molto la condizione infantile e frustrata in cui vive buona parte del mondo dei musicisti rock: venerare il male per essere venerati da chi non ce la fa neanche  a trasgredire in prima persona. Mi ha colpito anche di più questa situazione paradossale in cui si è trovato uno dei padri del Rock, Jimmy Page. Jimmy Page era amico di Bowie, ed era un fervente seguace di Aleister Crowley, come tutti i protometallari. Ora Bowie nel suo progetto musicale si è ritrovato a dover far fronte ad un successo che molto deve a fattori insondabili endemici del suo corpo: gli occhi così incredibili, il suo aspetto androgino, la perfezione nel portamento di una diva, una voce decisamente maschile avvolgente e purissima, Bowie incarnava in un momento di rivoluzione culturale totale, tutto quello che c'era di trasgressivo, con la promiscuità sessuale (inteso nel senso di una sempre più modernamente labile distinzione fra uomo e donna) in cima alla lista, condita con la contaminazione fisica delle droghe. Rappresentava la decadenza, la celebrazione dell'appassire di una bellezza effimera. Un sabotaggio all'idea popolare di cosa dovesse essere un uomo modello, della forza, di una star. Rappresentava lo svanire inafferrabile di una perfezione sovrumana, irraggiungibile con la volontà. Era un capolavoro corrotto, dalla nascita. Ecco quindi che se proprio devo trovare un fascino autentico nel "male", inteso come lato oscuro dell'esistenza e non come una banale voglia adolescenziale  di sfasciare tutto, la trovo in Bowie, visto che Bowie E' Lucifero: è la cosa che gli si è avvicinata di più nella storia della musica (e al Ryo di Devilman, si). E ha rappresentato con la sua musica, principescamente semplice e nostalgica, proprio questo aspetto scurissimo della perdita della incorruttibilità angelica, in una caduta libera dalla candida rosa inziata 40 anni fa e che ancora non ha fine, testimoni noi che lo vediamo consumarsi nella zona più buia del suo viaggio. Si racconta che Jimmy Page desiderasse conservare i liquidi corporei di Bowie, per poter svolgere i suoi riti (e che Bowie, ne fosse abbondantemente terrorizzato, e vorrei vedè!). Forse non si era neanche accorto che per quanto cercasse la trasgressione e l'affrancamento da una vita misera venerando il diavolo durante i suoi sabba virilissimi, il vero inafferrabile spirito dell'eversione, la vera stella nera, la luce che brilla nel buio portando il seme della trasgressione aveva già scelto il suo corpo da molto tempo, lasciando al rock "deviato" giusto la possibilità di fare rumorosissime e omologatissime festicciole invocando la venuta di una creatura aliena che stava già cadendo consumandosi senza protezioni in un solitario viaggio verso il punto più oscuro dell'inferno."
 

Se siete interessati a comprarne una stampa o entrare in possesso dell'originale potete farlo qui.

giovedì 14 marzo 2013

"Tempest"- la quiete del saggio dopo la tempesta del genio



Sono passati molti mesi dalla pubblicazione di "Tempest", l'ultima opera del più grande artista popolare, a mio avviso, dell'ultimo secolo, Bob Dylan.
Mesi di ascolto quasi quotidiano, in cui antiche riflessioni e intuizioni improvvise hanno danzato nella mente, alternandosi nel più scomodo dei ruoli: essere la guida che incerta tiene la lampada ("always carry a lightbulb!") nel labirinto oscuro, irto di insidie ma gravido di tesori nascosti, della filologia dylaniana.
In molti, e con grande competenza, si sono cimentati nell'immenso sforzo di ricomporre lo sterminato mosaico di citazioni, riferimenti, omaggi al limite del furto, serissimi giochi e continui rimandi all'intera tradizione della cultura popolare, non solo, americana, che Dylan ha, stavolta più che mai, ricamato come un dispettoso cabalista.
Giunti alla fine della loro paziente ricostruzione, gli speranzosi ricercatori (a cui va tutta la nostra rispettosa solidarietà) hanno atteso l'illuminazione definitiva, trepidando nel posizionare l'ultimo, agognato tassello, che avrebbe finalmente rivelato il grande disegno d'insieme...
Ma si sono ritrovati ancora una volta davanti, come la mappa necessariamente incompleta d'un percorso infinito, l'enigma che da sempre sfidano invano, l'immagine che puntualmente li irride nel suo mistero.
 Il volto, più ambiguo della Gioconda nel suo beffardo sorriso, della Sfinge dylaniana.

Come il Nostro all'apice della sua leggenda, non ci rimane che accettare il caos, sperando che esso accetti noi. Perdersi nel labirinto, rinunciando alla mappa, danzando nella tenebra, evitando le sabbie mobili dell'esegesi, ma abbandonandosi estaticamente all'ascolto, lasciando risuonare l'eco interiore dei versi, confidando di trovare per caso, magari inciampandovi, lo scrigno magico della verità simbolica.


Più che una recensione, lo stralcio d'un diario intimo, più che una critica, appunti dettati da un ascolto interiore.




Come il volto della statua (un particolare del fiume Moldava, rappresentato come una giovane addormentata, del basamento della Pallade Atena di Vienna) lo è nel rosso della copertina, la grazia stentorea del magistero compositivo dylaniano è qui immersa nel sangue, il flusso dell'ispirazione è avvolto dalla morte, sotto lo sguardo severo e ardente della Dea della Sapienza.

La Verità testimonia, nella sua potente eterna saggezza, lo scorrere perenne della sofferenza e del dolore umano.

Già ho scritto altrove, parlando sempre di Dylan, non possiamo pretendere che il nuovo disco di un'artista della sua potenza iconica possa avere l'impatto  rivoluzionario dei suoi dischi storici. 

Se tutti hanno dovuto fare i conti con la grandezza del modello dylaniano, figuriamoci Dylan stesso (questo vale per qualsiasi genio rivoluzionario raggiunga la vetta in qualsiasi campo, da Orson Welles nel cinema a McEnroe nel tennis). Egli ha dunque dovuto combattere, come già scrissi, "con genio per non diventare il poeta alessandrino di sè stesso" (verrebbe da aggiungere col suo stesso genio, come preannunciato in uno dei suoi tanti capolavori nascosti, "Where are you tonight?": "i fought with my twin, that enemy within, 'til both of us fell by the way") .

Come ogni vero sapiente esoterico (vedasi la citazione di Carlo Tenca in calce a "Il Cimitero di Praga" di Umberto Eco, laddove si dice "...gli episodi sono pur necessari, anzi costituiscono la parte principale di un racconto storico...e...hanno il pregio di sviare più che mai la mente del lettore dal fatto principale"), Dylan ha spostato l'attenzione dall'essenza segreta del disco, consegnando alla 
storia brani destinati a una facilissima celebrazione, a divenire evento mediatico obbligatorio ("Dylan scrive una canzone di 14 minuti sul Titanic!", "Dylan scrive una canzone per John Lennon!").
Oppure, dissimulando il messaggio dirompente dietro l'innocua apparenza di un motivetto anacronistico come "Duquense Whistle".
Per me le vere gemme del disco sono altre, non "Roll on, John" (qualcuno ha mai riflettuto che l'ultima cosa che fece Lennon in pubblico fu la parodia del suo antico mito e amico Dylan appena convertito al Cristianesimo?! Questo spiegherebbe i 22 anni di riflessione...), nemmeno la title-track sul Titanic, che è in realtà una magistrale trasposizione in rima del film di Cameron.
I diamanti, oscuri e taglienti fino allo sfregio,  per me sono "Tin Angel" e, soprattutto, "Scarlet Town". La prima è una sontuosa "murder ballad", ipnotica come un richiamo infernale, in cui scorrono e confluiscono in una possente ispirazione tutte le grandi storie d'amore tragiche che hanno puntellato il cammino del grande cantautore, da "She died of Love" a "Black Jack Davey", passando per "Lily, Rosemary and the Jack of Hearts", capovolta però nel suo rovescio anti-eroico e noir.
La seconda è, accanto a "Missisipi" ed "Ain't talkin'", il brano dell'ultimo ventennio dylaniano che porrei a fianco, per intensità, ricchezza d'immagini e possesso formale, a classici assoluti come "Dirge" o "Wedding Song". Un microcosmo colmo di contraddizioni eppure perfettamente conchiuso, una Macondo per gnostici disillusi, dove il Bene e il Male si mescolano nel cuore degli uomini sotto forma di fedeltà e vizio. Una città al di là del tempo e dello spazio, che forse solo chi ha percorso fino in fondo "Desolation row" può arrivare a visitare. 
Le altre tracce non fanno altro che rendere compiuta e definitiva l'opera di costante rielaborazione che il grande cantautore fa da ormai più di 20 anni di tutta la tradizione a lui antecedente: "Early Roman Kings" come "Beyond here lies nothin'" è una variazione interessante su accordi celeberrimi; "Narrow way" e "Soon after midnight" sembrano l'evoluzione e l'aggiornamento degli omologhi brani, per genere e tematiche, di "Love and Theft" e "Modern Times"; "Long and wasted years" è un'amara riflessione sulla caducità dell'amore, come decine di notevoli precedenti da "Infidels" in poi, passando per "Oh, Mercy", fino all'ultima Trilogia del Disincanto.
Un'ultima considerazione su un aspetto che meriterebbe da solo un libro a parte (e in effetti è stato fatto, un importante libro di Alessandro Carrera "La voce di Bob Dylan -una spiegazione dell'America"!): la voce di Dylan. Quella voce irriconoscibile, ormai così luciferinamente arrochita, strozzata in un ghigno sardonico o intenerita in una ironica posa da crooner, che per anni dal vivo abbiamo maledetto come una fornace deformante che tramutava gli altissimi versi in grugniti inintellegibili, ora finalmente è  il medium perfetto, posseduto e modulato con paradossale maestria canora, per amplificare il furore veterotestamentario di questi novelli "proverbi dell'Inferno".

Ma, fedele all'assunto iniziale, non vorrei dilungarmi in sterili interstardimenti filologici, per ampliare la riflessione all'ultimo Dylan in genere.


Il disco segna una maturità raggiunta nel nuovo percorso della inesauribile creatività dylaniana.

Una creatività che ha conquistato, nel biennio '64-65, vette mai più raggiunte, per nitore, universalità e prolificità, da nessun altro artista contemporaneo. Come una reincarnazione di RimbaudDylan ha bruciato tutte le tappe della musica popolare, stracciando codici, bruciano regole, creando nuovi linguaggi, rifondando una tradizione (quella del flok e del blues) e iniziandone un'altra (quella del rock). Tutto ciò in pochi mesi, nei quali ha composto una serie di capolavori impressionante non solo per numero, ma per diversità d'ispirazione, stile e orizzonte (si pensi ad esempio a "Chimes of Freedom", "Mr. Tambourine Man" e "Like a Rolling Stone").
Uno stato di grazia artistica assoluto, per molti aspetti senza riscontri.
Un collegamento Fastweb con l'Inconscio Collettivo.
E poi, conosciamo il racconto, l'invenzione del concetto di rockstar, l'esaltazione e l'eccesso dell'ego, il Destino che gioca la carta della più facile metafora: quando si va troppo veloce si va a sbattere, e si rischia la distruzione. La parabola d'un pre-Ziggy, ma risorto, redento e trasfigurato, che ritorna dal regno dei morti per iniziare la più grande e difficile opera di decostruzione che si possa mai immaginare: quella del proprio mito.
Con la consapevolezza del predestinatoDylan sa perfettamente di aver smarrito quella connessione mistica con l' Inconscio Collettivo (magnificamente descritto come "magica fonte perpetua di creatività").  E' il tema del più grande, a mio modesto avviso, capolavoro dell'ultima stagione dylaniana: "Ain't talkin'"Già dal titolo, un richiamo al silenzio mistico, nel paradosso, da koan zen, di scrivere 18 strofe per dire che non si sta parlando (si ricordi la famosa obiezione di un poeta satirico cinese che, al famoso detto "Colui che non parla sa, colui che parla non sa", rispose che il sapiente che l'aveva detto aveva scritto un libro lunghissimo...).

Lo smarrimento nel giardino deserto, abbandonato dal Giardiniere, è la più potente metafora della Caduta gnostica che un poeta (post) moderno e contemporaneo ci abbia consegnato.

Il Giardino mistico, antichissimo simbolo, non è solo, chiaramente, l'Eden, ma il Sahasrara, il loto dai mille petali della tradizione yogica e buddista, sede dell'armonia dei contrari, del contatto con il Divino, la Rosa Candida interiore, il Calice del Sè, allegoricamente il vero Graal.
Il castissimo talamo delle nozze alchemiche, definito poeticamente nelle Upanishad come la sede della Devi, il Tempio dell'intelletto illuminato dalla luce dell'Atma.  Non una metafisica Terra Promessa, non un vagheggiato Iperuranio, ma un luogo interiore.
 Come magnificamente descritto dal sublime poeta Kabir:
"Non andare al giardino dei fiori !
Oh amico! Non andarci !
E' dentro di te il giardino dei fiori !
Siediti sui mille petali del loto
E da lì contempla l'infinita bellezza."
(libera trad. mia)

Dylan ci descrive per lampi poetici, degni a tratti del suo amato Blake ("It's bright in the heavens and the wheels are flying/ Fame and honor never seem to fade/ The fire's gone out but the light is never dying/ Who says I can't get heavenly aid?"), la visione di sé stesso smarrito nel proprio Sahasrara, alla ricerca di un'illuminazione perduta. Un tema che ritorna ossessivamente fin dai tempi di "Time out of mind",  dacché in calce a tutte le composizioni dylaniane degli ultimi 20 anni si potrebbe mettere il verso: "While I’m strolling through the lonely graveyard of my mind"

  ("Can't wait"). Da questa frattura invisibile, da questo esilio spirituale, d'un viandante condannato a vagare nel proprio deserto interiore, nelle rovine della propria passata gloria, nasce l'immensa meditazione pessimista dell'ultimo Dylan.
Forse il "Never Ending Tour" è un disperato divertissement,  per sfuggire alla tortura del pensiero, per cercare d'afferrare il presente nell'attimo svanente di una variazione continua, lottando corpo a corpo ogni sera col demone gemello della propria leggenda.
Sia chiaro, per il sottoscritto queste non sono mere speculazioni. Dylan queste cose le sa.
Se non le sa, come io credo, consciamente attraverso il suo ininterrotto percorso di ricerca spirituale, che lo ha dichiaratamente condotto a visitare, almeno simbolicamente, i sibillini porti della Massoneria (si pensi alla famosa introduzione su Charlie Walker in "Theme Radio Hour", conclusa con "Preach on, my brothers"....che si riferisca a questo nella strofa "All my loyal and much-loved companions/ They approve of me and share my code/ I practice a faith that's been long abandoned/ Ain't no altars on this long and lonesome road"?!)...  se non le sa, ripeto, consciamente, le conosce nella luce della esperienza interiore, come spiegato mirabilmente da Jung in questa celebre intervista (4.39)
La perdita della connessione, la nostalgia dell'unione (spesso mascherata simbolicamente, come nel Cantico dei Cantici e nel sufismo, da desiderio amoroso) è tema che già ispirava le più riuscite composizioni degli anni'70, ad esempio nella già citata "Where are you tonight?" , o venendo tradotta sensualmente con irriverenza erotica in "Tough Mama"
Per non citare quella meravigliosa cavalcata onirica, sospesa tra iniziazione e profezia, di "Changin' of the Guards".
 Non solo come Dante e i poeti medievali che conosce e cita, ma soprattutto come la tradizione chassidica che scorre nella sue vene gli ispira, Dylan sa che la presenza del divino è (o si manifesta) nel femminile, e a questo aspetto si rivolge or come amante, or come sorella, or come madre, per saziare la sua sete di spiritualità. A volte confondendo i ruoli, 
nell' "errare-errore" che lo rende, purtroppo per lui, più che a Dante vicino a Petrarca (non a caso lo omaggerà nel racconto d'un amore impossibile eppure sempre ricercato, "Tangled up in blue":"Then she opened up a book of poems/And handed it to me/ Written by an Italian poet/ From the thirteenth century/ And every one of them words rang true/ And glowed like burning coal/ Pouring off of every page/ Like it was written in my soul from me to you"). 
Altre volte, con cristallina ispirazione, come nell'immortale "Shelter from the Storm",  dove all'apice del canto mistico confessa la sua hybris ("Now there's a wall between us something there's been lost/ I took too much for granted got my signals crossed").
Nel confuso, spesso, ma sempre fecondo sincretismo dylaniano, Iside è madre e sposa ("this is a song about marriage, it is called "Isis"!) , ed è archetipicamente anche Maria Christi sponsa (come canterà alla moglie Sara, con involontaria ironia poco prima del divorzio: "radiant jewel/mystical wife"). Se in "Ain't talkin'" rivolgeva alla Madre una preghiera sconsolata (I'm trying to love my neighbor and do good unto others! But oh, mother, things ain't going well"), all'inizio di "Tempest", album quasi omonimo d'una commedia shakespeariana ma in realtà nero come le più fosche tragedie del Bardo, nel momento del cambiamento, della crisi violenta ("when the wind of changes shift"), appare una materna nota di speranza: "I can hear a sweet voice steadily calling/ Must be the mother of our Lord".
La quiete del saggio dopo la tempesta del genio.

P.S.

Oggi con mio immenso piacere e grande onore iniziamo su questo blog una collaborazione spero duratura, con un artista che considero, oltre che ben più di un amico (un fratello d'intelletto e cuore),  non solo uno dei più grandi talenti viventi in Italia, ma anche una mente critica di rara lucidità e analisi: Lorenzo Ceccotti.
In questa sua duplice veste, ci dona l'illustrazione in testa al post, questo suo personale ritratto-riflessione, per me la più bella sintesi concettuale di Dylan mai fatta, che mostra perfettamente la ricchezza sapienziale dell'icona dylaniana.
Mi ha scritto, infatti: "In questo disegno c'è un triplo inside joke su "the answer is blowing in the wind": quelli che noi chiamiamo strumenti a fiato, o fiati, in inglese si chiamano "venti" (winds). M'ha sempre affascinato i titolo di questa canzone, cantata da un suonatore di armonica come Dylan, che con un gioco di parole da quattro soldi, me ne rendo conto, "blows into the wind". Percepire nell'aria la verità e cercare di catturarla con una melodia fatta esclusivamente della stessa aria in risonanza, distillando, attraverso l'armonica e il corpo come fosse un alambicco alchemico, l'anima in una armonia.
Ah dimenticavo: e infatti il psi (la lettera dell'alfabeto greco) che sta sull'armonica rappresenta il soffio vitale (psyche) che si ramifica nella vita, così come il soffio vitale monofonico nelle note in armonia nel disegno (da un suono a 10 suoni accordati) o come nella menorah, da uno a 7 (sempre a forma di psi), o l'albero in generale, dove da un elemento nasce una moltitudine. Che poi nell'arte è il solito concetto di lasciarsi attraversare dai significati e cercare di acchiapparli con la rete più fitta possibile, cercando di non farsi scappare nulla, nessun dettaglio."
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