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Nick Cave fotografato a Milano da Daniela Odri Mazza |
Tutti i grandi cantautori, come tutti gli autori in genere, sono attraversati da una nota dominante, da un basso continuo che percorre come un costante sottotesto la loro opera, riaffiorando in ogni variazione ed esperimento. Ad esempio, in Dylan è l'inquietudine della ricerca spirituale, in Cohen il combattimento tra mistica e sensualità, in Guccini il rimpianto delle possibilità mancate, smarrite nei gorghi del tempo.
Quella di Nick Cave è certamente l'ossessione.
Ossessione che si esprime nella ripetizione stessa dei ritornelli dei suoi brani più classici: l'inno amorale dei "natural born killers" ante litteram "Deanna", l'ineluttabile arresa alla possessione di eros/thanatos in "Do you love me?"
Ossessione che si declina tentacolare, già nei brani menzionati, sui temi cardine della torturata vicenda umana: l'amore e la religione.
Nel primo caso, si pensi alla dinamica speculare delle due grandi canzoni d'amore (non a caso entrambe "murder ballad" dall'ispirazione popolare), le due incursioni incendiarie nel mainstream: i duetti con P.J.Harvey e Kylie Minogue. L'archetipo è fortissimo, scolpito dal "Cantico dei Cantici": "Amore è forte come la Morte". Due racconti di passione erotica che divengono furia omicida.
Il primo ("Henry Lee"), conturbante gioco di seduzione e distruzione fra le due icone "alternative" della canzone d'autore; il secondo ("Where the wild roses grow") geniale inversione dell'icona sexy scioccherella nella mortuaria bellezza preraffaellita (omaggiato non a caso da Dylan nella paradossale leggerezza "Bye and Bye").
Nel secondo caso, l'ossessione religiosa, il percorso meriterebbe un saggio a parte, nella sua stordente ricchezza antinomica: dalle bestemmie scritte sul petto (in italiano!) ai tempi dei The Birthday Party alla dialettica disperante di "As i sat sadly by her side" (il suo capolavoro al quale dedicheremo presto una riflessione a parte), dalla commossa confessione di "Into my arms" all'aperta parodia di "God is in the House", dalla contrapposizione frontale col comandamento evangelico di "Dig, Lazarus, Dig!" all'apertura verso il divino meraviglioso della recente "Mermaids". Il percorso spirituale in costante divenire, tra sfregio blasfemo e raccoglimento interiore, è ben raccontato in questa introduzione al Vangelo di Marco del Nostro, una testimonianza unica e illuminante (la trovate QUI)
Ossessione che ritorna in tutti i grandi brani in cui la personalità autoriale di Cave si sia espressa con la potente indipendenza del vero maestro.
Citeremo ancora solo due esempi: "The Mercy Seat", il delirio degli ultimi istanti del condannato a morte, vero capolavoro nella sua semplicità quasi da cantilena infantile, non a caso omaggiato dal maestro Cash nella sua antologia del canto americano contemporaneo;
e soprattutto "Oh, Lord", una delle vette dell'abilità lirica di Cave di calarsi nei panni del posseduto, del peccatore, dell'omicida, dell'indemoniato. Un vertice di parossismo, una catabasi senza redenzione, un crescendo intollerabile di autodistruzione: raramente l'arte musicale moderna è riuscita a rendere con tale lacerante icasticità l'assordante deflagrazione dell' inferno interiore, il cortocircuito suicida tra la repellente normalità e l'irriducibile follìa dell'individuo.
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