domenica 16 dicembre 2018

Marco Cavalcoli: essere Paolo Poli, David Bowie e Djagilev


Marco Cavalcoli nei panni di Sergej Djagilev


Uno degli spettacoli più particolari a cui abbiamo assistito nel 2018 è Santa Rita & The Spiders from Mars: il doppio omaggio a David Bowie e Paolo Poli (in occasione della bella mostra al Teatro Valle dedicata a quest'ultimo), di cui abbiamo diffusamente parlato nel mese di Ottobre QUI e QUI.



Lo spettacolo è tornato in scena, sempre a Roma, al Brancaccio e vi rimarrà fino al 23 Dicembre.

Nel frattempo, abbiamo potuto vedere il protagonista Marco Cavalcoli in scena, in un altro spettacolo, completamente diverso per spirito, struttura e approccio (anche se condivide l'idea di omaggiare una grande icona della cultura).

                                             

Stiamo parlando di Serge, tributo alla parabola straordinaria del geniale impresario Sergei Djagilev  andato in scena il 20 e 21 Novembre alla Sala Petrassi dell'Auditorium Parco della Musica di Roma all'interno dell'interessante rassegna Romaeuropa.
L'importanza di Djagilev nella musica del Novecento è determinante: in un certo senso, egli è l'inventore dei Balletti Russi, ha lanciato leggende della danza come Anna Pavlova e Vaclav Nijinskij, ha collaborato con Picasso, ha commissionato opere a  DebussyRavelSatieProkofievDe FallaRespighiPoulenc; soprattutto, è stato l'impresario e il committente delle opere più famose di Igor Stravinskij.


Djagilev fu una figura dal carisma straordinario, un dandy luciferino dal fascino arcano e dall'invincibile potere di seduzione.
Balletti Russi furono una ventata sconvolgente di grazia e provocazione, bellezza e sensualità, trasgressione ed eleganza.
Djagilev divenne un'icona di stile.
Basti pensare ad una semplice nota di costume: le spese delle sue esequie veneziane (Djagilev riposa nel cimitero monumentale dell'Isola di San Michele, accanto al suo sodale Stravinskij, a Josif Brodskij e a Ezra Pound) furono interamente sostenute da Coco Chanel.



Veniamo allo spettacolo.
Lo spettacolo è esaltante. E terribile.
 È uno degli spettacoli più strabilianti che abbia visto in vita mia. Non è per niente riuscito.
Ci sono momenti di pura estasi estetica. Ci sono momenti in cui volevo salire sul palco e fermare tutto.
È un'opera di straordinaria cura filologica. È un'opera incomprensibile per la maggior parte del pubblico.
Cavalcoli in scena è perfetto. È sprecato per una parte così.
Lo vorrei rivedere più volte. Più volte durante la visione volevo alzarmi e andarmene.

Sono preda di un improvviso disturbo bipolare?
No, no, sono lucidissimo. E posso spiegare tutto.



Lo spettacolo è così de-strutturato: Cavalcoli entra in scena nei panni di Djagilev, in divisa da dandy, frac e cappello a tuba.
 Sulla scena solo un pianoforte, e alcuni strumenti di orchestra appesi per aria; inizia una fase surreale intollerabilmente lunga in cui Cavalcoli accorda il pianoforte (l'attore ha preso appositamente lezioni di accordatura!), creando un'atmosfera straniante grazie agli effetti di risonanza amplificati dal sound designer Hubert Westkemper.
Entrano progressivamente in scena, evocati dalle accordature di Cavalcoli, sette musicisti, sette incarnazioni spettrali in kimono (omaggio a Nijinskij) sui quali discendono dall'alto gli strumenti: 2 violini, 2 viole, 2 violoncelli e un contrabbasso.
Inizia lo "spettacolo" vero e proprio: il tappeto musicale è composto (idea geniale quanto al limite dell'inaccettabilità per gli appassionati ortodossi) da L'après-midi d'un faune di Debussy, strecciato elettronicamente per 72 minuti.


Su questa base irreale come un sogno inquietante, agiscono i sette musicisti più Cavalcoli che rimane come una muta marionetta, apparendo a un certo punto col volto deformato da un enorme lente, a metà tra una visione di Magritte e un incubo di David Lynch.
La parola chiave è caleidoscopio: visivo, sonoro, concettuale.
Non a caso l'ensemble musicale in scena si chiama Solistenensemble Kaleidoskop, composto da Paul Valikoski (violino), Mari Sawada (violino), Ildiko Ludwig (viola), Yodfat Miron (viola), Michael Rauter (violoncello), Ulrike Ruf (violoncello), Clara Gervais (contrabbasso).
Ora, perdonate il mio entusiasmo da profano (che è causa della reazione uguale e contraria ispiratami dallo spettacolo) ma mi è apparsa semplicemente memorabile la performance della piccola orchestra: per 80 minuti suonano, danzano, si incrociano, saltellano, alludono, ammiccano, compiono assoli deliranti e fenomenali giochi di interazione sonora.
Il tutto proponendo una partitura di Michael Rauter (in scena, come detto, al violoncello), che è una stratificata commistione di citazioni dalle opere che hanno ritmato trionfalmente la carriera di Djagilev: echi di Parade di SatieDaphnis et Chloé di Ravel e ovviamente Le Sacre du Printemps di Stravinskij, decostruite e rimontate follemente in un apparente delirio faunesco.
Interessantissima la modalità coreografica: "Accade qualcosa che non sarebbe stato possibile se non inserendo l’invenzione primaria di Fanny&Alexander (NdC: la compagnia teatrale): l’etero-direzione. Ciascun performer sul palco indossa un auricolare. In regia, otto “manovratori” inviano agli interpreti in un timpano la traccia musicale da eseguire in tempo reale, nell’altro indicazioni sulla postura da assumere, sui salti da compiere, sulle diagonali da attraversare, sulle espressioni facciali da consegnare al pubblico. Cavalcoli si aggira tra i musicisti come un gaio fantasma alla ricerca dei propri migliori ricordi. Li osserva, li commenta con quella straordinaria capacità mimica che lo contraddistingue. E finirà per interagire con loro. Ciò che accade agli spettatori, che attraversano anche – non senza fatica – certi momenti di programmatica oscillazione del ritmo scenico, è un processo che solo l’etero-direzione può creare. La sensazione è che esista un piano di comunicazione ulteriore e invisibile che insiste sulla distribuzione dell’attenzione. Comprendiamo di star assistendo a un dialogo complesso, parte del quale si rende disponibile nell’evidenza radicale della sua invisibilità. Qui gli strumentisti sfuggono alla prigionia di una posizione fissa, abitano la scena, sono chiamati dalle indicazioni a saltare sul posto, a raggiungere un punto preciso – marcato da segni verdi o rossi che si vedono solo avvicinandosi al palco con le luci di sala accese; ad abbandonare arco e legno per andare a sussurrare chissà cosa all’orecchio del collega di sezione; a rompere il volto in espressioni ora disgustate, ora divertite, ora preoccupate. Sentiamo la loro voce mentre, sopra al flusso delle note, si spezza in un pianto e poi risorge in una risata, consegnando il buio di fine spettacolo".
Bello, no?
Sì.
Il problema è che per saperlo (e comprenderlo e apprezzarlo), mi sono dovuto documentare dopo lo spettacolo (nella fattispecie ho citato questa recensione di Sergio Lo Gatto su Teatro e Critica QUI).

Luigi De Angelis
Certo, nell'intervista distribuita all'entrata ad ogni spettatore, il regista Luigi De Angelis (fondatore di Fanny & Alexander con Chiara Lagani, due volte Premio Speciale Ubu) spiega il concetto di etero-direzione e spiega di aver condotto uno studio sull'annotazione originale (la 'labanotion'), basandosi"sulle coreografie d'epoca" e riferendosi anche "ad interpretazioni più recenti", come Le Sacre du Printemps di Pina Bausch: "Abbiamo così creato un grane lemmario, un vocabolo di gesti comuni traslati dalle coreografie, che sono stati poi reinterpretati dai musicisti stessi".



Lo spettacolo si conclude con un'esecuzione integrale, "normale", del Prélude à l'après-midi d'un faune di Debussy.
I sette musicisti prima si struggono in un crescendo di tristezza fino al pianto dirotto e poi esplodono in una risata fragorosa, irritante, beffarda.
E lo spettacolo finisce.

Tutto chiaro: l'evocazione sognante della propria carriera, il fumo dei Tabarin, i trionfi in scena, il dionisiaco, lo spirito panico, la visione, la simulazione delle emozioni, l'effettiva realtà delle stesse, la beffa e lo scandalo, la sensualità e la poesia, l'oltraggio e l'omaggio, la destrutturazione e la fedeltà accademica, l'improvvisazione come disciplina rigorosa, solve et coagula....
Ora, tutto bello, interessante, stimolante, a tratti cruciale: ma il pubblico non lo sa.

Il problema è che il pubblico, si sa, purtroppo, è distratto, pigro, disinformato, spesso va a teatro pescando dal mucchio quello che viene offerto.
Certo, non è colpa del regista: ma perfino il sommo disprezzatore Carmelo Bene si premuniva di diffondere note di regia o proclami programmatici per (anche se non lo avrebbe mai accettato) "spiegare" o comunque dare chiavi di lettura ulteriore.

Lo spettacolo è occasione per riflettere sul limite dell'approccio di molta arte contemporanea, della musica colta e in generale di gran parte della produzione artistica.

In questo caso abbiamo: un attore bravissimo (solo Cavalcoli in scena può tenere il pubblico per lunghi minuti in silenzio senza creare isterismi, proprio lui capace di sdoppiarsi da perfetto imitatore in due lingue di Poli e Bowie si è messo a studiare gli studi sulla mimica dello psicologo Paul Ekman); sette musicisti eccezionali; un lavoro tecnico e registico di alta qualità; una passione filologica notevole unita a una profonda conoscenza culturale; un materiale originale che si annovera tra le vette estetiche del Novecento.

Eppure....eppure il pubblico esce affaticato, annoiato, scandalizzato.
Oppure, certo, in alcuni casi deliziato e esaltato.
Ma siamo stati in pochi: coloro che GIÀ conoscevano e amano Stravinskij, Nijinskij, Djagilev, Satie e Pina Bausch.


Un così imponente impianto artistico non può essere sprecato per épater le bourgeois nel 2018.
Capisco la fierezza esoterica, ma un minimo di sforzo, non dico didascalico, almeno di contestualizzazione critica prima dello spettacolo è obbligatorio, se si vuole rendere questo spettacolo un'occasione di meraviglia per tutti, invece che un gioco compiaciuto per pochi e una tortura per molti.

Per cui, al termine dello spettacolo mi sono ritrovato profondamente contrariato, mentre applaudivo ammirato.



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