venerdì 31 maggio 2013

ARMI DI PERSUASIONE DI MASSA - la recensione su "Conversazioni sul Fumetto"

E' sempre un piacere pubblicare su "Conversazioni sul Fumetto".


QUI trovate la recensione di Brooke Gladstone e Josh Neufeld. Graphic essay molto interessante ma non definitivo sul rapporto media/masse.
Buona Lettura

martedì 21 maggio 2013

Variazioni su "Roger Federer come esperienza religiosa"



                                                             Ad Andrea e Carlotta





Sarebbe stato troppo facile celebrare Roger Federer in tutta la sua innegabile grandezza il giorno dopo il trionfo di Wimbledon del 7 luglio scorso, l'inattesa miracolosa rinascita con la quale il Re si era ripreso spettacolarmente il suo trono dopo l'annus horribilis 2011 (il primo dal 2003 senza vincere uno slam). E invece, e' proprio oggi, nel day after della sconfitta più cocente (da Parigi 2008) con l'amico rivale di sempre, che ribadisce il predominio assoluto di Nadal sulla terra rossa e sancisce l'ennesimo smacco nei confronti diretti, ebbene e' proprio oggi che io sciolgo il mio peana a testa alta a quello che è, forse, l'atleta che più di tutti, in tutte le discipline, si avvicina all'ideale olimpico di perfezione sportiva.
Piu' che una lode, questo e' un atto di Fede.
 (L'eventuale gioco di parole sta sulla vostra coscienza)




L'argomento è stato già esplorato magnificamente da David Forster Wallace, in pagine giustamente celebri e forse definitive (le trovate QUI, postate da Tonio Troiani, amico e stimato collega sulle colonne di Conversazioni sul Fumetto)

Federer appare in campo come un dio greco. Anzi, ha in sé più dèi, che  volta per volta lo visitano e prendono il comando del suo genio tennistico a seconda delle qualità richieste dalla concitazione dell'agone. E' chiaramente una manifestazione apollinea:  grazia ed eleganza sono la materia sottile di cui è costituito. Ma è un Apollo in grado di scatenare al momento giusto la furia devastatrice di Dioniso, per poi riassorbirne la vorace violenza e riconciliarlo alchemicamente nell'armonia suprema del suo stile. Scegliendo esempi più umani (ma evocandoli comunque dal Pantheon tennistico), Federer è la sintesi impensabile degli opposti metafisici*, che hanno scandito con le loro gesta antitetiche la storia del tennis moderno: ha il tocco stregonesco, il guizzo beffardo del genio McEnroe (ma li contiene nella disciplina di un palleggio impeccabile) e la costanza ipnotica da fondo campo di Borg (con una ricchezza di variazioni che impediscono però anche al suo peggior critico di etichettarlo come "pallettaro"); ha la spregiudicatezza aggressiva di Becker (moderata da un grande discernimento tattico) e la solidità del ritmo di Lendl (senza averne la gelida roboticità); stesso discorso per l'eleganza (più efficace) di Edberg, l'intelligenza (più imprevedibile) di Wilander, la classe (meno capricciosa) di Ivanisevic. In realtà appare proprio come il tennista definitivo totale, accostabile alla leggenda Laver (mutatis mutandi) e al mito intatto, superato solo da lui, di Pete Sampras.




Ora, se osserviamo onestamente, l'accostamento con i precedenti umani è più peregrino di quello con gli dèi. Federer, in campo, d'umano ha poco, pur non avendo la meccanicità straniante del robot o la superiorità inquietante dell'alieno. Ciò che comunica è bellezza, pace, ordine, grazia, controllo, senso supremo del gioco. Proprio come un dio greco. E non solo per le movenze dall'abbacinante splendore plastico, tra Fidia e Nureyev (quando gioca a Roma, l'impressione e' che una delle statue del Foro Italico si sia animata per danzare sulla terra rossa alla platonica musica delle sfere che risuona nelle menti divine). 
No, non solo per la sua inarrivabile eleganza tecnica egli appare come un dio. 
Il quid è proprio spirituale.
Quando gioca Federer è in meditazione. E contemplandolo, si accede anche noi a quel regno di grazia assoluto, di sinfonie di silenzio, di stupore sereno che è lo stato meditativo. A ben vedere mentre gioca non tradisce alcuna connotazione umana, dalla sudorazione alla rabbia (se non in rarissimi casi). Semmai dopo darà sfogo alle sue emozioni (lacrime di gioia o disperazione). Ma al di là del suo celebratissimo aplomb, della sua incantevole gentilezza con la stampa, il rispetto sacro degli avversari, la nobilissima beneficenza, la straordinaria disponibilità con i fan, è in campo che Roger manifesta la sua origine divina.

Nell'omaggio monografico reso al campione svizzero da "La Gazzetta dello Sport" l'anno scorso, fece bene Sandro Veronesi a citare Carmelo Bene (si fa sempre bene, scusate il bisticcio, a priori), applicando a Roger ciò che il genio salentino predicava sul comunque immenso Edberg: "è il tennis che gioca se stesso". E fece  altrettanto bene a citare un pregevole articolo di Matteo Codignola sulla sinfonia sublime del suo gioco (lo trovate QUI)

E, sia detto una volta per tutte, non sono i numeri (unici, strabilianti, difficilmente superabili) a sancire la sua superiorità ontologica. Qualora anche un giorno i suoi rivali lo superassero in Slam e vittorie (forse solo Djoko appare tra i contemporanei all'altezza del cimento), rimarrebbe comunque come il più grande, per la distanza siderale di perfezione stilistica che egli incarna.

Affrontiamo dunque ora i suoi notevolissimi rivali: Nadal e Djokovic.

Bisogna davvero avere un cuore sadiano per non voler bene a Rafa. Un ragazzo leale, generosissimo, che irradia positività. Soprattutto, un atleta ammirevole per dedizione, impressionante per potenza, titanico nei recuperi e nella costanza. Cuore e volontà si fondono in una macchina, per una volta, davvero gioiosa. Uno dei motivi della sua popolarità risiede nel fatto che Nadal rappresenta due stereotipi della narrazione pop congiunti: è insieme Rocky e Ivan Drago. Per grinta e concentrazione ha dimostrato definitivamente di essere superiore al Re. Come dice sempre l'amico a cui dedico questo delirio, di fronte ai miei poemi epici su King Roger: "Si, Federer è il più forte del mondo...ma Nadal è più forte di lui!" (come si argomenta QUI).
 Conti alla mano (pur considerando che la maggior parte degli scontri è avvenuta su terra rossa, di cui il maiorchino è dominatore incontrastato), a livello di aridi numeri, è vero. Contro di lui, tra i 20 successi finora ottenuti, soprattutto ha vinto la finale di Wimbledon 2008, quella che è probabilmente la partita più bella di sempre (così definita in diretta da McEnroe,  protagonista sconfitto, ma in quell'occasione  già consegnato alla futura leggenda, della partita fno ad allora universalmente considerata tale, la finale con Borg giocata su quello stesso campo 28 anni prima).



Ma rimane una drammatica evidenza: la  presenza di Nadal in campo è antiestetica come un ciuffo marroncino sporco in mezzo alle sopracciglia di una fotomodella.  Dall'inizio di ogni match, in cui saltella per avvicinarsi ad avversario e arbitro come un.pugile sulle braci ardenti, ai gemiti da maiale sgozzato con cui ritma ogni colpo, fino all'insopportabile tic dell'aggiustamento dei calzoncini prima di ogni servizio (chissà, forse l'audacia in-estetica di rimestare senza posa nella zona perianale è un'inconscia evocazione della Fortuna).  Efficacissimo ma non certo bello è il suo stile, L'impugnatura disumana, da martire del tornio, ne fa (per rubare un'espressione proverbiale al grande scriba Gianni Clerici) il principe degli "arrotini". Un atleta esemplare, ma più che un tennista il suo stile ricorda quello di un lanciatore del peso.



Soprattutto, zero fascino: ha la regolarità di Borg, senza averne l'aura mistica, la grinta di Jimmy Connors, senza la esaltante cattiveria, la potenza di Agassi, senza la selvaggia disinvoltura.
Cuore e muscoli, e basta: commozione senza bellezza.     

E poi c'è lui, l'attuale, meritatissimo numero uno: l'irresistibile, formidabile Djokovic
Ora, sinceramente, credo che se fossi nato dieci anni dopo (io che nell'adolescenza ero convinto d'essere stato serbo nella vita precedente, vivendo al ritmo della.musica balcanica, prima che generasse l'effetto correttamente descritto nel recente capolavoro di Elio), ora sarei in giro per il mondo a seguirlo match dopo match. 

                                      

Un tennista serbo, meravigliosamente zingaro, cosi adorabilmente burlone da meritarsi il soprannome Djoker, che imita alla perfezione gli avversari, inscena siparietti con SuperMac ed esulta come Hulk...

                                                                  
    

sembra uscito da un fumetto di mia sceneggiatura. E, oltretutto, che tennista, ragazzi. 
Un tennista moderno, potente e veloce, ma tra i pochi che si ricordano che si può anche andare a rete, non e' mica fallo. 
Anch'egli ha trovato la sua gloria nel detronizzare il Re (dopo aver testimoniato per primo il suo colpo forse più strabiliante).



 Ci vuole veramente tutta la tecnica del mondo, più il quid determinante della follia slava, per  solo pensare di poter rispondere ad una prima di servizio del più grande giocatore vivente, su un match point, in questo modo (semifinale Us Open 2011).




Solo un genio, con quella sfrontatezza suprema, quella sovrana sprezzatura filosofica dell'esito dell'azione che gli slavi condividono con gli autentici romani (quasi avessero la "Bhagavad Gita" inscritta nel DNA) avrebbe tentato l'azzardo impossibile: un colpo in cui la pallina si riesce a vedere solo al terzo replay.

Ma anche col simpaticissimo Nole (al quale, una volta ritirato il Re, andrà il mio supporto da ultras), siamo sempre nella sfera umana: intelligenza, impegno, astuzia, intuizione, sacrificio, cattiveria agonistica. Splendide doti, raramente detenute da un unico atleta, ma umane.

Contemplare Federer, invece, è un tuffo nelle acque del Lete, ne l'oblìo estetico delle miserie quotidiane, una promenade onirica nei giardini dell'Iperuranio, un frammento accecante di visione paradisiaca.
Una scintilla salvifica di Bello e Vero nelle tenebre onnivore del Kali-Yuga.


P.S.
Breve nota di costume. Andare agli Internazionali di Tennis al Foro Italico equivale ormai a una scorribanda in un incubo di Ennio Flaiano. Il grande scrittore abruzzese avrebbe sicuramente trovato materia ardente per un grottesco romanzo- capolavoro (anche se il titolo dell'unico che ha scritto, "Tempo di uccidere", viene in mente ogni qualvolta un idiota risponde a voce alta al telefonino durante le partite), o una sceneggiatura indimenticabile per il suo amico Fellini, ispirandosi all'atmosfera uber-cafonal che si respira nel Campo Centrale.
Al di là degli sciami di coattume finto-pariolino che da sempre imperversano nella settimana dell'evento, ora il circuito ha adottato una nuova graziosa abitudine per ricordarci che l'Apocalisse è vicina. Tra un set e l'altro, nel sacro minuto in cui i giocatori dovrebbero raccogliere la giusta concentrazione, viene sparata a palla orribile musica contemporanea, quale "I follow rivers" di Likke Ly, sicuramente composta da un potentissimo mago africano (vediamo chi coglie...) come sinfonia di dissonanze disturbanti allo scopo di stordire e possedere psichicamente il mondo occidentale. E, addirittura, negli incontri in notturna, giunge da fuori il rumore ossessivo della techno commerciona, mentre valenti atleti combattono per la gloria.
Roba da far reincarnare Pindaro in un terrorista di Al-Qaeda.
Non sanno, gli stolti barbari (o peggio sanno ma si sono piegati alla volgarità dei tempi) che, come dice l'altra amica dedicataria dell'articolo, "il tennis è liturgia".

In tutto questo, per chi come me ama il tennis d'antan, il divino serve and volley di McEnroe, le volèè improvvise di Edberg, i pallonetti sardonici di Nastase... beh, i segni della decadenza dei tempi si moltiplicano come bibliche cavallette. 
A quei tempi si poteva incontrare David Bowie a Wimbledon.
Io quest'anno ho incontrato Alessia Merz.
E, nella contemplazione di Roger, ho dovuto veramente calarmi nel "qui e ora", estraniarmi come un monaco zen dalla folla circostante che, manco fosse al concerto di Vasco, a ogni punto incalzava: "dai, Rògge!", a volte variando nella insopportabile cantilena maccheronica "lezzgòròggelezzgò".**
Non a caso ho citato prima la "Bhagavad Gita": ciò che viene dichiarato in quel testo sacro è eterna verità.
Gli déi scendono sulla terra ogni qual volta l'umanità è in decadenza.***




*mi verrebbe da dire (il concetto è perfettamente pertinente) Aufhebung, citando l'odiato Hegel...ormai sono contaminato da Massimo Palma e dal suo stupendo "Berlino Zoo Station", di cui abbiamo trattato diffusamente QUI

** Li perdono solo perché ricordavano l'incipit di un capolavoro moderno, questo QUI


*** un saluto per l'apprezzamento agli amici della pagina Facebook "Roger Federer, il miglior tennista della storia" che trovate QUI

sabato 18 maggio 2013

PAULUS di Gianni De Luca- la recensione su "Conversazioni sul Fumetto"


Per uno dei tanti risvolti umoristici di quello che la nostra ignoranza appella destino, sembro destinato a dover occuparmi di opere stupende che riguardano figure a me sgradite.
Prima "L'Incal", di cui è autore, oltre al grande Moebius, il più psichedelico dei falsi guru, Jodorowosky (trovare l'articolo QUI); poi addirittura l'antico nemico Hegel, trattando di quel libro bellissimo, che non incenserò mai abbastanza, che è "Berlino Zoo Station" di Massimo Palma (ne abbiamo parlato QUI); ed ora, il mostro di fine livello: Paolo di Tarso, l'uomo che identifico con la rovina del Cristianesimo, e dunque della cultura occidentale.
L'articolo sulle prestigiose colonne di "Conversazioni sul Fumetto" lo trovate QUI !!!
Buona Lettura!
 

mercoledì 8 maggio 2013

Anni '50: Bob Dylan e David Lynch

E' con grande onore che ospito sulle pagine di http://contezarganenko.blogspot.it/
un articolo di Davide Martirani, pubblicato tempo fa sulle pagine di un compianto blog, "Il Grande Roe". Una riflessione di alto livello su due ricorrenti protagonisti di queste pagine:
Bob Dylan e David Lynch.
Buona Lettura.


Stavo ascoltando questa singolare compilation, una raccolta delle canzoni proposte da
Bob Dylan (nel bizzarro ruolo di DJ), durante il programma radiofonico Theme Time
Radio Hour
, andato in onda dal 2006 al 2009.
Com’è noto a chi ancora segua His Bobness, negli ultimi anni la musica di Dylan si
è mossa sempre di più verso sonorità e atmosfere anni ’50. Lo stesso look da cow-
boy, che ricorda analoghi travestimenti di Elvis, per quanto ai limiti del ridicolo sulla
figura sparuta e rinsecchita del vecchio Zimmerman, indica una volontà ben precisa di
ricollegarsi alla matrice country-blues da cui, a suo tempo, era sorto in lui il demone
della musica. Una sorta di amniotico ritorno alle origini.
La conferma di questa intenzione è proprio la scelta dei brani proposti in Theme Time,
che si arena fatalmente all’inizio degli anni ’60, e sciorina una miriade di artisti tra
jazz, blues, country e rock i cui nomi credo facciano ai più lo stesso effetto che hanno
fatto a me: blank face, direbbero gli inglesi. L’unico pezzo che davvero potevo dire di
conoscere prima di ascoltare il disco era questo – famosissimo – degli Everly Brothers:



E, anche lasciando da parte l’aria spettrale dei due fratellini, già qui c’è un punto di
partenza: il tema del sogno che è voluttà e rovina al tempo stesso (I’m dreaming my life
away) introduce bene una sorta di discorso sotterraneo che mi pare di ritrovare altrove,
in primo luogo – ovviamente – nella produzione recente dello stesso Dylan. Con alterne
fortune, infatti, zio Bob ha tirato fuori negli ultimi anni un gran numero di pezzi che
sembrano apparentemente usciti dai tempi di Chuck Berry. Dico apparentemente perché
non serve neanche un secondo ascolto, a mio parere, per cogliere il contrappunto
di disperazione che rivela subito il radicamento di questi componimenti nel suolo
avvelenato della contemporaneità. Sentiamone uno (uno dei migliori), dal suo disco del
2006 significativamente intitolato Modern Times. Il pezzo è "When the deal goes down",
cioè più o meno “quando il destino compie il suo corso”, “quando arriva l’ultima ora”, e
cose così.                                                          
Il brano, con la fondamentale cornice iconografica del video (lo trovate QUI), rappresenta
 al meglio il punto in cui la laudatio temporis acti diventa qualcosa di più che semplice nostalgia, e si rivela per quello che, al suo fondo, è: un terremoto dell’animo, un gesto di
contestazione radicale verso un mondo (il mondo) capace solo di distruggere, ferire,
annientare nel suo corso ogni attimo di felicità (more frailer than the flowers,
these precious hours), non lasciando dietro di sé che un cumulo di macerie, o una
registrazione sfocata in super8. "I heard the deafening noise, I felt transient joys. I know
they’re not what they seem": il “rumore assordante” è appunto quello del mondo, sotto
il cui rullo compressore vengono schiacciate le “gioie effimere” che “non sono ciò che
sembrano”. Il moralista nostalgico, dunque, si rivolge a un passato particolare solo come
tramite per quello che è il vero oggetto del suo desiderio: il passato ideale, assoluto,
perfettamente felice perché ormai cristallizzato, sottratto alla crudeltà del caso (cioè,
in ultimo, del movimento, del molteplice). Il passato come forma, più che sostanza del
tempo.
"You come to my eyes like a vision from the skies". Ed è certo una visione celestiale (in
senso tecnico, non trivialmente iperbolico) Scarlett Johansson, in una muta ma non per
questo meno efficace interpretazione della ragazza di provincia anni ‘50 *. La
morbidezza luminosa del suo corpo, l’incerta coscienza di un fascino offerto senza
calcolo, lo sguardo che ogni tanto si offusca sotto la nube di tristezze ignote: tutto
concorre a rinforzare la sensazione di rimpianto, di perdita. Come di qualcosa che si
aveva a portata di mano in abbondanza, e che ci si è lasciato sfuggire per folle,
imperdonabile leggerezza. Una donna così – che instillerebbe anche nei cuori più
corazzati da un gelido razionalismo il dubbio di una volontà superiore, di una scintilla di
luce ultraterrena – non solo era presente e viva, nell’universo impalpabile e semi-onirico
degli anni ’50, ma era una presenza quotidiana, familiare, che giocava con i bambini,
lavava i piatti, si spaventava nel tunnel degli orrori al luna park, divinamente
inconsapevole del proprio status empireo ("Ella si va, sentendosi laudare, /
benignamente d'umilta' vestuta"). Proprio come accade di solito, ci si accorge di tutto
questo con evidenza bruciante solo nel momento in cui si è costretti a constatarne la
perdita irreversibile. Ed ecco allora che la nenia tranquillante dalle sonorità vintage
rivela una composizione molto meno anodina di quanto apparisse in principio, e i
quadretti stucchevoli del tempo che fu si mostrano intessuti del filo amaro delle Parche.
Ma che gli anni ’50 nell’immaginario americano – e quindi, in parte, anche nel nostro -
siano una sorta di buco nero, di abisso in cui l’innocenza perduta si mescola alle tinte
cupe dell’orrore e della morte, era stato messo in chiaro già con grande forza altrove.
Prima ancora dei torbidi liceali di "Twin Peaks" – agghindati anacronisticamente come
i loro coetanei di trentacinque anni prima – la mente di David Lynch aveva operato
il cortocircuito tra passato e presente creando la cittadina di Lumberton, ridente e
bigotta comunità degli Stati Uniti settentrionali, percorsa da una corrente sotterranea
di perversione e violenza. In una scena giustamente famosa, il cattivissimo Frank Booth **
ordina a uno dei suoi sgherri di “cantare” (di fatto interpretare in playback) il classico
pezzo di Roy Orbison, "In dreams".


L’irrompere della voce malinconica di Orbison nella stanza in cui sono assiepati i
malviventi crea, come spesso accade in Lynch, un fortissimo effetto straniante; a
Hopper bastano poche inquadrature per suggerire alla perfezione il travaglio di Frank,
per convincerci all’istante dell’autenticità e della profondità della sua sofferenza,
portandoci a simpatizzare – almeno fugacemente – per uno dei villain più spietati del
cinema. Perché è evidente, in questi due minuti scarsi, che in quella melodia così
educata e per bene scorre un universo di dolore appena coperto dalla compostezza
dell’arrangiamento. E quello che si legge sul volto di Frank, mentre ascolta straziato il
salire di tono del ritornello, è esattamente quello che avevamo trovato nello scenario
dipinto da Dylan: il desiderio di recuperare un mondo perduto, di riaprire per un
attimo il varco di accesso verso una realtà pacificata, emancipata dalla violenza degli
ingranaggi che presiedono alla vita, e sottoposta al dominio incontrastato di un’unica,
gloriosa potenza d’amore.
Ma questo, appunto, può accadere solo nel sogno o nella memoria: laddove cioè le
connessioni tra le cose impallidiscono fino a disfarsi, e lasciano il posto a nuovi e più
giusti vincoli***. Però – e qui sta la vertigine – gli anni ’50 non coincidono con questa
dimensione onirica, ma verso questa a loro volta tendono nella disperata ricerca di
pace, di liberazione dal tormento del desiderio. Di nuovo, la vita reale viene rigettata e
sminuita in favore dell’autoannullamento, della dispersione di sé nel mondo dorato del
sogno ("I close my eyes, then I drift away, / into the magic night I softly say / A silent
prayer, like dreamers do, / then I fall asleep to dream my dreams of you").
Per chi li osserva da qui, allora, è inevitabile l’attrazione per quell’apparenza
dolcemente armonica, risolta. Ma è un attimo; e presto i segni non mistificabili di
una paura vecchia come il genere umano cominciano ad agitarsi sotto la superficie,
turbando, distorcendo la cara immagine della felicità antica fino a ridurla alle
sembianze di un orrore senza tempo.


*Ruolo, peraltro, già coperto brillantemente al principio della sua carriera, in quell’altro incubo a occhi aperti che è il magistrale film dei fratelli Coen, "L’uomo che non c’era". A proposito di lato oscuro degli anni ’50.

** E qui il pensiero corre per forza al titanico Dennis Hopper, che lo interpretava, e che ci ha da poco
lasciato
.

*** “Sappi che dal vero al sognato, non corre altra differenza, se non che questo può qualche volta essere molto più bello e più dolce, che quello non può mai”, dice il Genio a Torquato Tasso.