martedì 27 novembre 2018

LE NINFEE DI MONET. Un incantesimo di acqua e luce




Secondo appuntamento con gli amici di #LettureMetropolitane.
Qui di sotto il nostro video.




Il 26, 27 e 28 Novembre al cinema sarà possibile vedere Le ninfee di Monet. Un incantesimo di acqua e luce, documentario dedicato in particolare agli ultimi anni della produzione di Claude Monet, dominati dall’ossessione del grande pittore, appunto per le ninfee.
L’evento si inserisce nella serie La Grande Arte al cinema di Nexo Digital.
Di Monet si è scritto moltissimo, dunque la necessità di un ulteriore approfondimento, dopo anche la recente mostra a Roma al Complesso del Vittoriano, è soprattutto nella possibilità di mostrare immagini inedite e sguardi originali sulla sua opera.
Al di là dello splendore delle tele, affascina e turba insieme la lotta incessante del pittore: nei confronti della sua amata Natura (nell'impossibilità di rendere l’incanto della sua perenne, cangiante bellezza) e nei confronti della sua stessa arte (più volte in accessi d’ira sfregiava o bruciava i suoi stessi quadri perché costantemente insoddisfatto).
Soprattutto, negli ultimi anni, nei confronti della vita stessa, considerando la serie tragica di colpi a lui inferti dal Destino che avrebbero devastato anche  gli animi più coriacei: due volte vedovo, il pittore perderà il suo primo figlio, perderà in gran parte la perfezione del suo giardino di Giverny (suo vero capolavoro sempiterno), perderà parzialmente la vista (proprio lui di cui Cézanne disse: “Non è che un occhio...ma che occhio!”).
Tutto questo, negli anni che condurranno la Francia alla sanguinosissima Prima Guerra Mondiale: protagonista il suo vecchio amico e protettore, il Primo Ministro Georges Clemenceau.
Più che sui primi anni del movimento impressionista, sulla famosa mostra del 1874 nello studio del fotografo Nadar da cui derivò il titolo del movimento in seguito a una miope stroncatura di Louis Leroy, il documentario si concentra sull’ultimo grande capolavoro di Monet, sollecitato proprio da Clemenceau dopo che l’artista aveva abbandonato la pittura per i problemi alla vista.
Un capolavoro donato allo Stato francese in seguito all’armistizio ma reso visibile al pubblico solo nel 1927, dopo la morte dell’artista: parliamo delle dodici grandi tele delle Ninfee esposte al Museo dell’Orangerie di Parigi, progettato e dedicato appositamente ad esse.
Disposte in due sale ovali, illuminate da Est a Ovest dalla luce solare per ricreare l’effetto naturale del giardino di Giverny, la grande sinfonia cromatica creata da Monet con i fiori prima che con i pennelli, queste opere maestose restituiscono lo stupore mistico di un autore che ha amato la Natura fino alla morte.
Anche in questo caso, la critica scioccamente non colse la potenza dell’esperienza straordinaria di immersione nell’opera che Monet aveva profeticamente inaugurato.
Ci vorrà la rivoluzione americana dell’Astrattismo, trent’anni dopo, con Pollock in testa, per donare giustizia all’ultima, impressionante fatica di Monet.
Il documentario, nonostante la bellezza delle immagini (pittoriche ma anche naturali) paga una presenza eccessivamente da protagonista di Elisa Lasowski (attrice francese apparsa in Game of Thrones e nel video Blackstar di David Bowie). Abbiamo apprezzato soprattutto gli interventi di Ross King, serio studioso autore del saggio Monet e la rivoluzione della pittura moderna.
Concludiamo con una citazione illuminante dal saggio sull’Impressionismo di Jean Leymarie del 1959: “L’infallibile precisione dell’occhio dà il senso della pienezza della visione. Monet ha confidato a un giovane pittore che avrebbe desiderato nascere cieco e recuperare all’improvviso la vista per non sapere nulla degli oggetti e trovarsi in uno stato vergine davanti alle apparenze, desiderio che serve a chiarire paradossalmente la sua estetica della sensazione”.

venerdì 16 novembre 2018

Teho Teardo presenta A DICTIONARY OF SOUND




Oggi vi parliamo di un evento musicale di notevole rilevanza.
A Dictionary of Sound, primo ciclo di concerti promossi da Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.
Troviamo molto interessante che un'istituzione culturale promuova una rassegna di musica non convenzionale, mettendo a disposizione gli spazi di viale Pasubio a Milano

Per noi è garanzia l'aver indicato come curatore un musicista colto e sensibile come Teho Teardo.
L'artista friulano non è certo nuovo a sperimentazioni impreviste e collaborazioni spiazzanti: l'esplorazione di nuovi sentieri musicali è forse la cifra distintiva della sua ricerca.
Noto (e premiato) per le colonne sonore di film celebrati come Il Divo, L'amico di famiglia e La ragazza del lago, Teardo ha attraversato nella sua carriera progetti molto diversi, legati dal filo rosso della costante sperimentazione: pensiamo allo spettacolo dedicato al Viaggio al termine della notte di Louis Ferdinand Céline con Elio Germano, a Phantasmagorica con le illustrazioni in movimento di MP5 (ne parlammo QUI) o alla feconda collaborazione con Blixa Bargeld, leader storico degli Einstürzende Neubauten, negli album Still Smiling e Nerissimo.

L'iniziativa si articola in tre performance dal vivo.
Dopo la prima serata del 9 Novembre che ha visto protagonisti Jessica Moss e Eric Chenaux, domani sarà l'occasione per ascoltare il cantautore scozzese Gareth Dickson e il duo ambient acustico Pan-American.
Chiuderà la rassegna il 30 Novembre Robert Lippok, artista audiovisivo d'avanguardia della scena berlinese.



“Si cerca qualcosa di perfetto nella musica – dichiara Teho Teardo. "È ciò che di meglio si possa
immaginare, come una città ideale. La musica è una rivoluzione costante”.

                                         
Venerdì 9 novembre • ore 21.00 • Jessica MossEric Chenaux
Jessica Moss è parte integrante e attiva della scena musicale underground di Montreal. Violinista,
backing vocalist e co-autrice della cult-band Thee Silver Mt. Zion Memorial Orchestra, co-
fondatrice di Black Ox Orkestar, vanta importanti collaborazioni con Carla Bozulich/Evangelista,
con il compianto Vic Chesnutt e più di recente con Jem Cohen e Guy Picciotto (Fugazi) nel progetto Gravity Hill.

Ecco come Teardo la descrive nella nostra intervista su Repubblica -XL (la trovate QUI):
"Jessica Moss. Una musicista del Canada che riesce ad intercettare alcuni elementi fondanti dell’identità musicale europea per restituirceli come se le appartenessero da sempre".



Eric Chenaux, chitarrista e compositore, nella sua discografia affronta la relazione tra struttura e
improvvisazione. Spazia dal folk più avventuroso a ballate jazz dolcemente stranianti, nelle quali
esplora le possibili interazioni tra una vocalità romantica e gli effetti sorprendenti della chitarra.

Nelle parole di Teardo dell'intervista riportata:
"Eric Chenaux. Grazie al sarcasmo riesce ancora oggi ad attraversare il jazz senza doversene vergognare".




OGGI Venerdì 16 novembre • ore 21.00Gareth Dickson e Pan·American
Gareth Dickson, chitarrista e cantautore scozzese, spazia nei territori dell’ambient e dell’elettronica, trovando nuove possibilità per antichi strumenti.

Teardo lo descrive così:
"Gareth Dickson. Ha il senso dello spazio nelle sue canzoni. La sua scrittura è talmente ampia che pare abitare uno spazio cinematografico. Quando il cinema si accorgerà di lui sarà sempre troppo tardi".




Già collaboratore in studio e in tour di Juana Molina e più recentemente di Vashti Bunyan, è uno dei più apprezzati cantautori di nuova generazione.


Pan·American è il progetto solista di Mark Nelson, mente, chitarra e voce dei Labradford.
Partendo dalle possibilità del sampling, del dub e della techno, si è gradualmente indirizzato verso
l’ambient acustico in un flusso sonoro di spiccata ispirazione cinematografica, a cui accostarsi
attraverso i suoi video avvolgenti e malinconici. È colonna portante dell’etichetta Kranky, con cui
da sempre pubblica i suoi lavori.

Nelle parole di Teardo:
"Pan American. Mark Nelson pubblica album importanti dagli anni 90 con i Labdradford ed ora con Pan American. Ogni volta che passa in Italia non lo perderei".





Chiude la rassegna il prossimo Venerdì 30 novembre • ore 21.00 • Robert Lippok
Robert Lippok è un artista audiovisivo d’avanguardia, musicista e stage designer. Tastierista e co-
fondatore dei to rococo rot. Uno dei più influenti protagonisti della scena sperimentale ed
elettronica berlinese, è conosciuto per la sua ampia immaginazione ed inventiva ritmica. Nei suoi
live unisce l’aspetto compositivo e l’improvvisazione, portando il pubblico a fare delle esperienze
uniche e irripetibili. Applied Autonomy è il suo ultimo album pubblicato con la Raster - Noton.

Teardo:
"Robert Lippok. È una forza creativa della Berlino che non bivacca in coda al Berghain, ma reinventa costantemente il suono di quella città e, di conseguenza, anche di molte altre".



Un evento da non perdere per chiunque ami la musica non banale.

giovedì 15 novembre 2018

I VILLANI - la poesia resistente di Daniele de Michele






Seguiamo Daniele de Michele (aka Don Pasta) ormai da anni.

Proprio su queste colonne parlammo di lui (all'inizio di una fluviale conversazione che trovate QUI) in questo modo: "andrebbe protetto dall’Unesco come patrimonio dell’umanità: è una fortezza di Masada ambulante nei confronti del brutto, della stupidità, dell’insensata negatività che possiede il mondo moderno".
La visione del suo film documentario I Villani ci conferma che (ancora una volta) non avevamo esagerato.
Il film, presentato alle Giornate degli Autori del Festival di Venezia, va visto.


Dopo aver deliziato le folle nei panni adorabili del DJ gastrofilosofo Don Pasta, spesso nei luoghi più improbabili (QUI raccontammo quando aprì per i Massive Attack in una catacomba!), ora Daniele de Michele si riappropria del suo nome anagrafico, per un canto d'amore alla Madre Terra, alla Natura, alla Tradizione...ma lo fa da una prospettiva che è profondamente, appassionatamente, autenticamente di sinistra.
Daniele strappa Gramsci e Pasolini dall'abbraccio mortale e ingannevole del peggior rossobrunismo d'accatto e restituisce la poesia ardente e irriducibile dei moderni contadini, custodi di una tradizione ormai in agonia, resistenti contro le derive follemente perverse e autodistruttive dell'industria alimentare.


Quattro storie, raccolte e raccontate (con Andrea Segre) in quattro diversi angoli d'Italia (non solo il Sud delle amate radici dell'autore), di resistenza attiva, di glorioso suicidio professionale in nome di un'etica superiore, di commovente amore per la natura.
Un canto in cui amore e epica s'intrecciano nella gloria di esistenze umili, apparentemente monotone, gravate dalla fatica, nobilitate dal rispetto.
Un canto d'amore umanissimo. E per questo sacro.


Riportiamo la nota di regia che accompagna come un toccante invito la promozione del film: "“Questa gente mi raccontava il suo stare al mondo, il suo rapportarsi alla terra e alla storia del luogo che le aveva dato nascita. Era in questo intessersi delicato, talvolta ironico, talvolta doloroso tra i racconti intimi del loro vissuto e il loro cucinare con perizia, intelligenza, senso dell'osservazione che veniva fuori il senso più profondo della cucina italiana: il suo essere saggia, gustosa, parsimoniosa, rispettosa dei prodotti della terra e del mare. Questa gente mi mostrava in quei gesti sicuri di quanto la modernità andasse in conflitto radicale con quella cultura. Un conflitto che andava al cuore del problema. Per mangiar bene bisogna rispettare i tempi della cucina, bisogna rispettare le stagioni, la terra e il mare, tutto ciò che la modernità non fa più. Ne viene fuori un conflitto tra le parti, una resistenza, una proposizione di un nuovo vivere che benché ancorato al passato diventa attuale e vitale. In questi quindici anni di lavoro, passati creando libri e spettacoli che unissero la cucina e l’arte, l’esplorazione veniva raccontata da me in prima persona, facendo venir fuori il mio punto di vista su cosa fosse per me la cucina. Quello che mi ha emozionato e che voglio condividere è l'esistenza di persone capaci, realmente capaci, di creare e ricreare il gesto e di costruire un sapere vivo attorno a questo gesto. La loro esistenza è prioritaria rispetto alla mia elaborazione e il mio sguardo vuole fermarsi affianco a loro, per far incontrare le mie urgenze ideali e in fondo politiche con la loro quotidianità di gesti, luoghi, volti e parole. Il cinema documentario è lo strumento che può permettermi di far succedere questo incontro: non rinuncio al mio sguardo, ma lo lascio vivere dentro la loro realtà. Per questo il film arriva alla fine di un lungo periodo di ricerca, dopo il quale voglio finalmente poter vivere del tempo con le persone che questa lunga ricerca mi ha dato la possibilità di scoprire. E' come se fin qui le avessi sfiorate, gustate. Ora ho voglia di stare con loro e con loro far crescere la narrazione e il significato. Dentro di me e verso il pubblico”.


Conosciamo Daniele e il suo entusiasmo, la sua passione, il suo sguardo di poeta della materia e le sue abilità di narratore paradossale e trascinante.
Non ci aspettavamo nulla di meno sul piano del racconto.
Ciò che ci ha sorpreso è la qualità cinematografica del documentario, la fotografia, i tempi (lenti sì, non è mica un film d'azione, ma in maniera pacificante e meditativa), l'uso ardito ma intelligente della colonna sonora.
Ecco, la colonna sonora.


Alla presentazione di ieri al Cinema Farnese di Campo de' Fiori (luogo di culto per il pensiero controcorrente), accanto a Daniele (sempre brillante oratore, benché evidentemente emozionato), c'era Alessandro Mannarino (presente in una colonna sonora di pregio che vanta artisti anche come Daniele Sepe), un cantautore che confesso di aver sempre ponderato a distanza.
Ebbene, alla presentazione Mannarino è intervenuto brevemente ma con due stoccate precise e vincenti: l'arte non deve educare, deve suggestionare (dall'origine latina di "suggerire"); in un mondo governato da pazzi che stanno distruggendo il mondo per un profitto immediato, questo è un film importante.


Daniele ha raccontato l'impatto con un medium come il cinema e la sua unica fascinazione, ovvero il fatto che tra l'idea e la realizzazione esso imponga anni e anni di passaggio fino a che la realtà dell'opera s'impone rispetto all'idea originale, ha descritto i quattro anni di lavoro, lunghissimi e rocamboleschi, i cambiamenti incessanti, anni di drammi economici, di incontri smarriti e ritrovati, di continua revisione dei propri fallimenti (grande lezione acquisita da I Villani) e (per rispondere a una domanda precisa sul valore politico del film) di come esso sia uno schiaffo in faccia alla Sinistra degli ultimi sessant'anni, che ha completamente abbandonato quel popolo.


Noi siamo usciti commossi dall'abbraccio di un amico che ha realizzato un suo sogno folle e necessario.
E ancora di più da una dedica al termine del film che onora me e la memoria di una donna eccezionale che tanto amava gli spettacoli festosi e ribelli di Don Pasta.

Il film è in sala nei seguenti cinema:
Fino al 18 Novembre - Roma - Cinema Farnese, 
16 novembre - Napoli - Cinema Astra
17 novembre - Mantova - Festivaletteratura - Mignon cinema d'essai 
18 novembre - Rovereto - Tutti Nello Stesso Piatto Festival Internazionale di Cinema Cibo
20 novembre - Bologna - Cinema Odeon
21 novembre - Firenze - Fondazione Stensen
23 novembre - Milano - Cinema Mexico
29 novembre - Vicenza - Araceli Cinema di Città
30 novembre - Udine - Cinema Visionario
2 dicembre - Broni (PD) - Cine Teatro Carbone
3 dicembre - Torino - Distretto cinema
4 dicembre - Cremona - CineChaplin
11 dicembre - Bergamo - Cinema Teatro Del Borgo
12 dicembre – Tolentino –  Politeama
13 dicembre – Viterbo – Cinema Trento
16 dicembre - Calimera - Cinema Elio
17 Dicembre - Lecce - DB D'Essai

Chiunque fosse interessato a farlo proiettare nella sua città, scrivesse a distribuzione@zalab.org

Fatelo.
 Ne vale veramente la pena.

lunedì 12 novembre 2018

Conversazione con Tiresia - di e con Andrea Camilleri





Care lettrici e cari lettori, d'ora in poi pubblicheremo sul nostro blog i video (e i testi relativi) realizzati con #LettureMetropolitane.
Buona visione, buona lettura!



Il 5, 6 e 7 Novembre (EDIT: ritornerà in sala a grande richiesta il 22 Novembre) potremo vedere al cinema Conversazione su Tiresia, di e con Andrea Camilleri.
In un'evidente processo di immedesimazione, per l'ormai irreparabile cecità, lo scrittore siciliano rende omaggio alla figura del mitico indovino cieco, esplorando la galleria di sue reincarnazioni letterarie presenti nella letteratura occidentale degli ultimi, almeno, 2500 anni.


Dall'origine omerica nell'Odissea al V°Inno di Callimaco, oltre ovviamente all'apparizione più celebre nell'Edipo Re di Sofocle, per ciò che riguarda i classici greci; arrivando, con una certa ironia, alle satire di Orazio e Giovenale, passando per Stazio, per la rivisitazione della tragedia sofoclea di Seneca e per Luciano di Samosata, Camilleri sembra in realtà apprezzare di più le versioni moderne del mito di Tiresia (anche se condisce il suo discorso con una saggia tirata antifreudiana).



Obbligatoria la citazione dantesca, molto sottili i richiami a Poliziano e a Milton, ma abbiamo particolarmente apprezzato la citazione de Le mammelle di Tiresia di Guillame Apollinaire (prima opera chiamata "surrealista" nella storia della letteratura) e il sacrosanto soffermarsi sulla rilevanza da protagonista che la figura ha nei Cantos di Ezra Pound e in The Waste Land di T.S.Eliot.


Nella sua dotta panoramica, a Camilleri non poteva certo sfuggire la menzione del fondatore del Living Theatre, Julian Beck (che interpretò Tiresia nell'Edipo Re di Pasolini), come anche non poteva mancare un riferimento al grande sapiente cieco della letteratura del Novecento, ovvero Jorge Luis Borges.


Anche Virginia Woolf e Friedrich Dürrenmatt ottengono la giusta considerazione da parte dell'autore di Montalbano, per le loro moderne e illuminanti rivisitazioni della figura di Tiresia.
Camilleri insiste molto sul legame tra cecità e veggenza.
Di tutte le citazioni memorabili che egli evoca, la più adatta non è presente, perché riferita in realtà non a Tiresia ma a Edipo. Ci riferiamo a un frammento dell'ultimo Holderlin che afferma: "Il Re Edipo ha forse un'occhio in più".
Al di là della grande suggestione della eroica prestazione di Camilleri, dello scorso giugno, nel Teatro Greco di Siracusa (luogo legato a doppio filo alla radice stessa della tragedia greca, poiché Eschilo vi mise in scena Le Etnee nel 470 a.c.), in cui l'autore novantatreenne si è esibito, a memoria, davanti a 4mila persone, lo sforzo dello scrittore è apprezzabile perché offre uno sguardo alessandrino senza scadere negli sterili compiacimenti tipici di certo postmoderno.


Lo spettacolo inizia, giustamente, con The Cinema Show dei Genesis (brano anch'esso ispirato a Tiresia) e affronta quasi tutti i, circa, 60 autori che si sono occupati della figura mitica, da un lato con un respiro diacronico, dall'altro con perfetta consapevolezza storica di ciascun autore, che si parli di Milton o di Stravinsky, di Cesare Pavese o di Omero.
Speriamo che non sia il testamento dell'autore siciliano, ma, qualora lo fosse, sarebbe una degna testimonianza del suo grande amore per la letteratura.


giovedì 1 novembre 2018

L'Ultimo Guardiano del Valico - l'omaggio a Lao-Tze di Valentino Bellucci



Da tempo leggiamo con interesse le numerose opere di Valentino Bellucci, intellettuale fecondo e prolifico che si è occupato di diverse aree dello scibile umano, sempre osservate con lo sguardo sereno e superiore che la frequentazione dei testi sacri indiani dona agli studiosi consapevoli.
Il limite della sua interessantissima produzione, per un pubblico abituato a più convenzionali letture, è da un lato una certa assertività dogmatica, dall'altro un'attitudine didascalica a volte troppo trasparente: l'urgenza di rivelare la ricchezza della sapienza orientale, a lettori spesso digiuni e orbati dagli avvilenti luoghi comuni dominanti, talvolta tradisce la sua vocazione di divulgatore spirituale.

In questo breve romanzo, L'Ultimo Guardiano del Valico (Digital Soul) possiamo incontrare i pregi e i limiti della sua ormai vasta produzione.
L'assunto è geniale: come sa chiunque si sia approcciato al Taoismo, la leggenda sacra vuole che Lao-Tze abbia scritto il sublime e abissale Tao Te Ching per poter varcare il confine della corte Zhou; quella era stata la richiesta del guardiano per farlo passare, ovvero lasciare un testo scritto in cui condensare la sua rinomata sapienza.
Con suprema ironia, l'immenso testo sapienziale inizia: "Il Tao di cui si può parlare non è il vero Tao". Maestro Primordiale, come Socrate, Lao-Tze aveva fondato la teologia negativa.

Statua di Lao-Tze sul Monte Qingyuan
Bellucci, con un'intuizione notevole, decide di raccontare cosa accade dopo quel decisivo incontro.
Da un lato, seguiamo le paradossali peripezie del guardiano, sballottato dal potere del Tao tra ambizione e fallimento, infamia e gloria, umiliazione e successo; dall'altro contempliamo le vicende eguali e contrarie del sommo saggio, gli ostacoli e le prove continue per la sua serenità interiore.
Il racconto è plasmato sul modello delle storie sacre, con evidenti omaggi al Siddharta di Herman Hesse. A noi che tributiamo una sacra devozione al Saggio Cinese suscita un certo turbamento vederlo ritratto in momenti di smarrimento, peccato, contrizione, dubbio.
Rappresentare i pensieri di un Guru universale è un'ambizione che richiede costi alti.
Comprendiamo, d'altro canto, lo spirito di Bellucci nel mostrare come il cammino della Conoscenza (come appunto nel caso di Siddharta) passi per la dolente iniziazione dell'errore.

Il racconto è scritto con impeccabile rispetto formale (salvo un richiamo un po' didascalico alla contemporaneità) e si conclude, con perfetta coerenza ideale, nel rovesciamento incrociato dei destini.



Siccome Bellucci, prima che uno scrittore interessante, è un dotto studioso, abbiamo trovato ancora più ricca di spunti la coda storico-critica, in cui si dispensano, stavolta sì con equilibrio tra rigore erudito e necessità di divulgazione, precise note informative sul Taoismo, sul Confucianesimo e sul Buddhismo, confrontati nella purezza degli insegnamenti come nei rischi delle derive esoteriche.

Concludiamo con una frase di Henry David Thoreau, considerato da Bellucci un erede della tradizione taoista nella letteratura occidentale: "Illuminazione è vedere il piccolo".

Henry David Thoreau
Dunque, la si può trovare anche in un libro poco conosciuto di una piccola casa editrice.