venerdì 27 settembre 2013

CONVERSAZIONI CON AKA B






Si conclude il trittico di interviste illustrate dai nostri complici infernali maicol&mirco (QUI altri incroci ormai leggendari!) con AKA B

L'intervista, devo dire piena di spunti molto interessanti e rivelazioni imprevedibili, la trovate QUI.

Ma se il trittico termina, è perché nuovi, più ambiziosi progetti sono in arrivo...

TO BE CONTINUED

Buona Lettura!





martedì 24 settembre 2013

ULTIMO TANGO A PARIGI - Maria Schneider e la scena del burro






Ora che il clamore tardivo sulle recenti parole di Bernardo Bertolucci riguardo la genesi della più famosa scena di "Ultimo Tango a Parigi" si è sedimentato, credo di poter proporre una riflessione diversa, che ardirebbe spostare il discorso un pò oltre rispetto alle infiammate diatribe dei giorni scorsi.                                                                                 
Pietra dello scandalo è la recente intervista, ripresa in un articolo di IO DONNA (che trovate QUI ). Ivi Bertolucci confessa 40 anni dopo che la famosa scena del "burro" era stata girata a sorpresa, senza il consenso dell'attrice, per ottenere l'effetto realistico delle lacrime di una donna umiliata.  Da anni, del resto, l'attrice sosteneva di essere stata abusata psicologicamente sul set, e che quella scena le aveva condizionato la carriera (per non usare l'abusata espressione "rovinato la vita").

E, subito, su media e social network è divampato feroce il dibattito,.

Molti fra i commentatori, presi dalla concitazione dialettica, hanno peccato, secondo il mio umile giudizio, di discernimento.
Chi minimizzava l'episodio di fronte alla statura storica dell'opera, chi ridicolizzava l'episodio perché l'articolo era scritto male, chi al contrario diceva che il film allora era orrido perché una donna era stata violentata sul set.
Ma quella che è per me è la sostanza ardente della questione è sfuggita nel gioco delle facili contrapposizioni maschilista/femminista, cinico/sensibile,  nel rimpallo dialettico dettato dalla malafede ideologica.
Secondo me, il cinismo da uomini navigati ed esperti del settore è uguale e contrario al perbenismo ipocrita o ai luoghi comuni femministi (o maschilisti, o cattolici, o gianisti, etc...).
 Sono lenti deformanti, abiti intellettuali che si indossano come magliette della propria squadra, che inquinano la riflessione con il veleno inebriante del pregiudizio e dell'arroccamento sulle proprie posizioni.

Scusate se dico cose ovvie, forse, per molti ma evidentemente non per tutti: il fatto che il film sia un (presunto) capolavoro non giustificherebbe un (eventuale) stupro sul set, come la rivelazione dell'episodio (gravissimo, se si confermasse verificato) non inficerebbe la bellezza estetica del film; stesso discorso per l'articolo: il fatto che sia scritto con un insopportabile tono strappalacrime, utilizzando obsoleti argomenti femministoidi (tipo "l'uomo penetrabile analmente" etc.) non sminuisce la portata della notizia (in realtà vecchia di anni), viceversa la gravità dell'episodio (se reale) non  renderebbe automaticamente il pezzo un capolavoro del giornalismo.
Lo so,  2+2= 4 ma spesso bisogna ricordarlo.




Sintetizzando bruscamente: il fatto che l'articolo sia un coacervo di urticanti banalità non rende transitivamente sbagliata la (giustissima) indignazione per i toni volgarmente sprezzanti del regista.

Affrontiamo ora il "mostro sacro", l'opera cinematografica, per me da sempre un totem  posticcio che radica e affonda nel fango (a dispetto dei tabù che pretendeva di spezzare).

Iniziamo col dire che il film  è sopravvalutato e, per la mia sensibilità, irritante.
Per carità, la suggestione estetica della fotografia di Storaro con la struggente colonna sonora di Gato Barbieri è potentissima. L'impatto delle immagini di Bertolucci è innegabile.
Ma il film non ha fatto altro che sfruttare grossolanamente tematiche complesse e per nulla originali (l'incomunicabilità che rende il rapporto amoroso simile a una tortura o a un'operazione chirurgica, soprattutto nelle grandi metropoli, nella fattispecie proprio Parigi, è tema intuito un secolo prima da Baudelaire e poi esplorato definitivamente in tutte le arti del Novecento).  Sfruttate per ridurle a luogo comune, e divenirne lo "scandaloso" manifesto.
Stiamo davvero parlando di una seduzione superficiale per adolescenti imbevuti di letture maledette. 
Al di là del magnetismo endemico degli attori, e le atmosfere confezionate ad arte per evocare eros e thanatos in versione postmoderna e decadente, il film ha ben poco da offrire.
La tanto celebrata recitazione di Brando, come non a caso Pasolini intuì, è tutta sopra le righe, caricatissima e inutilmente retorica. La Schneider,  pur nel suo languido fascino iconico, è altrettanto caricaturale. Talmente caricate le recitazioni, da rendere esagerate perfino le imitazioni che ne fanno Woody Allen e Diane Keaton ne "Il Dormiglione".



Il film è un banale manuale di  nichilismo patinato. E non c'è nulla di più deprecabile della disperazione in posa. Si tratta di bieco voyeurismo truccato da inno alla rivoluzione sessuale. Un'eruzione di maldestro machismo col seducente maquillage parigino della rivoluzione sessantottina, e un velo esistenzialista a coprirne l'imbarazzante povertà filosofica.

Affrontiamo ora la scena sotto accusa.
Facendo una media delle varie dichiarazioni, e rivedendo la scena, non credo che si possa parlare di stupro, ma di manipolazione psicologica si. Penalmente meno grave, culturalmente altrettanto. 
Vorrei andare oltre lo sciocca valutazione moviolistica sull'effettivo abuso, o le considerazioni  sul limite tra finzione recitata e reale sofferenza.
Sono considerazioni in un caso pettegole, in altro delicate, che ci portano fuori strada.
 Per me il fatto che Maria Schneider fosse consapevole o meno della scena è quasi (un quasi enorme e determinante, mi si dirà) indifferente. 
Non reagite, mi spiego. Intendo, che per me la manipolazione del suo corpo, e dell'immagine femminile,  c'era stata già, comunque, a priori. 
Parlo a livello culturale. E' chiaro, a livello morale, umano, psicologico (e se si fosse verificata e non solo simulata la violenza ovviamente anche penale) c'è un abisso. Ma a livello culturale, di tragedia culturale, è praticamente lo stesso.
Ben prima delle tardive confessioni, il film è già di per sé ributtante. Bertolucci era già stato un furbo maschilista, Brando era già cinicamente  complice (se ne sarebbe in seguito comunque vergognato), la figura della donna già umiliata.  E non per la presenza di una scena di sodomia.
 Il mio non intende essere un discorso moralistico.
Ciò che non posso apprezzare è il compiacimento di voler raccontare una storia torbida, facendo leva sulle pulsioni più basse degli spettatori, imbastendo il tutto come un'opera d'arte "ribelle".





Ci sono state nella storia del cinema scene ben più violente e disturbanti. Non di torbida  complicità lussuriosa, ma di violenza vera e propria. Il punto però non è, solo, ciò che si mostra, ma l'intenzione dell'autore. Credo d'aver già scritto che in "Andrey Rublev" di Tarkovsky c' è una scena, per anni censurata, di stupro molto più esplicita di quella di "Arancia Meccanica". Ma nel capolavoro del regista russo c'è il vibrante sdegno per ciò che sta accadendo, la denuncia dell'ingiustizia umana, la violenza è mostrata in tutta la sua barbarie affinché non accada mai più. Il perverso genio di Kubrick pur mostrando pochissimi fotogrammi ti comunica tutto il disturbante compiacimento morboso, l'esaltazione crudele dello stupratore. 
Esempio più estremo: la visione di "Salò" di Pasolini è praticamente insostenibile, ma dietro quelle scene (ben più disturbanti della rapida sottomissione sessuale imposta di Brando) c'è una profonda, tragica denuncia della violenza del Potere. Nessun  compiacimento morboso, ma la volontà (per chi scrive macroscopicamente fuori fuoco) di esporre la nuda tortura a cui il popolo è sottoposto da sempre nella storia dai poteri forti, mediante la metafora cruda e immediata della violenza carnale.
Non a caso, Pasolini giunge alla decisione estrema di girare "Salò", dopo aver abiurato la Trilogia della Vita. Non volendo più nutrire le basse pulsioni borghesi del pubblico, che invece di cogliere il suo messaggio eversivo veniva al cinema per vedere le donne nude. Contemporaneo, eppure avanti anni luce per onestà, consapevolezza e profondità rispetto ai vigliacchi imburramenti a sorpresa di cui si discetta.
In Bertolucci, sotto l'eleganza fittizia dell'incomunicabilità d'accatto, c'è solo la poco nobile astuzia di destare prurigini da guardoni.






Uno squallido mènage tra un vecchio zozzone (per quanto affascinante) e una sciroccata (per quanto incantevole) spacciato per struggente melodramma romantico, una torbida storiella da romanzetto pornografico propinata come dolente riflessione esistenzialista.
Prima delle modalità (ora sappiamo ingannevoli e manipolatorie) della sua realizzazione, la scena era già concettualmente un bieco escamotage per entrare nella storia del cinema con pochi minuti di sexploitation, verniciata di esistenzialismo.
Il grande scandalo rivoluzionario in realtà si è nutrito, a tavolino, dell'ipocrisia borghese che formalmente voleva scardinare. E' un film che specula sul voyeurismo perbenista. 
E' un film, dunque, intimamente, borghese. E, proponendosi come grande manifesto antiborghese, è, dunque, disgustosamente  disonesto intellettualmente.
Queste cose le dico almeno del'97, grazie a Dio ho diversi testimoni.


Ripeto, tutto ciò valeva per me anche prima di sapere che la Schneider era stata quasi costretta con l'inganno. 
Ora, il tono indegno della dichiarazione di Bertolucci (soprattutto qualora fosse una vera confessione e non, come sembra, una stanca trovata pubblicitaria) non fa che confermare, e certo aggravare, la mia istintiva repulsione.





P.S.
Ah, amici, rimanga fra di noi, vi rivelo un prezioso  segreto: qualora la Schneider fosse stata davvero, non dico violentata (appare improbabile su un set), ma, come si dichiara, costretta a girare la scena con l'inganno e la pressione psicologica, il femminismo non c'entrerebbe nulla. Come neanche la prassi cinematografica di piegare gli attori al "genio" del regista (non è che una cosa sbagliata se accade di prassi diventa automaticamente giusta, altrimenti non lamentiamoci più della corruzione, della guerra o dei mali del mondo in genere). Il segreto è l'uovo di Colombo, ma a quanto pare di questi tempi diventa arcano come la formula della pietra filosofale: 
Il rispetto della persona non è femminista o maschilista, come la giustizia e l'onestà non sono valori di destra o di sinistra.
Sono valori universali. Dunque sacri.




martedì 17 settembre 2013

Conversazioni con LAPIS NIGER



Continuano le interviste su Conversazioni sul Fumetto!
Oggi pubblichiamo quella con Lapis Niger, uno dei due alias di Matteo Palma (l'altro è Napo come voce del dueo hip-hop Uochi Toki).

L'intervista la trovate QUI

Buona Lettura!




venerdì 13 settembre 2013

CONVERSAZIONI CON LEOMACS!!!




E' con grande piacere che ho vi presento un'intervista a cui tengo molto, una conversazione con Leomacs, non solo uno dei disegnatori, a mio modesto giudizio, più capaci in circolazione in Italia, ma, al di là della tecnica, di grande vivacità intellettuale.
E poi, è simpaticissimo.

Come questo scatti testimoniano;):






L'intervista la trovate QUI 



Buona Lettura!



lunedì 9 settembre 2013

Paolo Sorrentino e "La Dolce Vita" di Federico Fellini - al Cinema America Occupato




Venerdi sera al Cinema America Occupato c'è stata una serata della quale, secondo me, tra vent'anni leggeremo nei testi di storia del cinema. Chissà se i volenterosi ragazzi  del collettivo, che hanno con la sbarazzina disinvoltura dei loro vent'anni  invitato il regista Paolo Sorrentino, passato per caso davanti al cinema mentre stavano ri-pitturando la facciata, a presentare "La Dolce Vita" nel loro spazio...chissà se ne sono resi conto.
Se questo è il livello degli eventi culturali proposti, lo sgombero incombente appare un crimine intellettuale.
Anzi, fossi il Sindaco finanzierei i ragazzi per comprare un adeguato sistema di climatizzazione all'interno della sala, che nel caso di opere di lunga durata si tramuta in una gigantesca opprimente sauna collettiva.

La contemporaneità rende da sempre, salvo luminose eccezioni, la critica miope.
Ecco che quindi, probabilmente, molti di voi giudicheranno la mia iniziale affermazione esagerata, fuori luogo, priva di fondamento. "La Grande Bellezza", per me un film-miracolo, un'opera fondamentale nel panorama del cinema italiano degli ultimi venticinque anni, è stato da molti giudicato tronfio, pretenzioso, inutilmente barocco. Per molti l'accostamento ( logico e naturale non solo per il sottoscritto) col capolavoro di Fellini è assolutamente fuori scala.
Quindi, non ci sarebbe nulla di particolarmente interessante, quanto mai di storico, nell'assistere a Sorrentino che ci parla esattamente di quell'opera, che è il precedente diretto e ineludibile del suo film.
D'accordo. Andatevi a leggere QUI le reazioni della critica, o dei contemporanei, proprio a "La Dolce Vita", e poi ne riparliamo.



Sorrentino esordisce dicendo che non è un bravo"parlatore".
Apre il suo discorso schermendosi, sostenendo che è sempre meno interessante parlare dei film, è più interessante farli, è più bello commuoversi vedendo un film che ragionarci sopra. Il contrario di quello che pensava da ragazzo, quando voleva sempre ragionare sulle opere cinematografiche, mentre con l'età adulta l'aspetto emotivo è divenuto prepotente.
Ma, eccepisce, su "La Dolce Vita" è importante ragionare. Si distingue da altri film di Fellini, come "Otto e mezzo" o "Amarcord", dei quali è altrettanto bello, per una peculiarità: non è importante, paradossalmente, che sia bello. Perché più che bello, "La Dolce Vita" è un film pericoloso. Pericoloso, innanzitutto, per i ragazzi. Pericoloso, perché esprime un sentimento pericoloso: quello di vivere in una costante transizione.
E' un film che ti fa vedere la vita senza un punto d'arrivo. Un'opera piuttosto desolante, insiste, in cui è quasi bandita l'ironia, e quando compare essa è vaga, evanescente.  Elemento, l'ironia, che invece è fondamentale in altri film di Fellini, ad esempio ne "I Vitelloni", film per il quale Sorrentino definisce il Maestro come capostipite della "commedia all'italiana". Con una, a nostro giudizio, efficace analogia il regista napoletano descrive "La Dolce Vita" come un film lunghissimo, estenuante, a bella posta, perché è come la vita degli individui: lunghissima, faticosa ed estenuante.
Sorrentino, a questo punto, ricorda come il film abbia suscitato reazioni scomposte, solo apparentemente legate a fatti concreti. Reazioni legate al fatto che è un film che fa paura, modernissimo, in cui il personaggio potrebbe benissimo essere immerso nel contesto di oggi, sostituendo le attuali discoteche alle sale da ballo di fine anni'50. Egli vive in una costante condizione di vuoto, di dépense, il concetto di Georges Bataille per cui al culmine della produzione c'è il culmine della disperazione.
Un film ambientato in un contesto fastoso, e festoso, apparentemente meraviglioso, a cui tutti vorrebbero appartenere, dietro il quale però si cela la disperazione più nera, anche se costantemente dissimulata.
Un film senza trama, che si basa sulla vita così com'è.
Ribadisce il regista, un film bello, ma la cui bellezza è meno importante della sua pericolosità.
La pericolosità dell'emulazione dei personaggi della dolce vita, il continuo ricorrere alla distrazione che allontana dal senso della vita, seduti sulle sabbie mobili del vuoto esistenziale.
Un film sulla difficilissima condizione di vita dell'uomo moderno.




Si apre a questo punto una breve sessione di domande. Alla prima domanda, cioè quanto Fellini lo avesse influenzato, il regista risponde che l'influenza è totale: sa tutti i suoi film a memoria.
 L'influenza è cosi forte che Sorrentino dichiara d'avere addirittura un blocco, che lo inibisce a parlarne in maniera disinvolta, perché (non potremmo essere più d'accordo) quando si è troppo fan si diventa patetici. L'influenza, comunque, è enorme , anzi il regista dichiara che tutti i suoi film precedenti sono smaccate imitazioni da Fellini, ma i critici non se ne sono accorti. Mentre, a riguardo de "La Grande Bellezza", dove sostiene di non averlo voluto imitare, lo hanno detto tutti!
A questo punto, cogliendo la palla al balzo sulle pressioni per far sgomberare Cinema America Occupato, Sorrentino auspica più che la chiusura dei cinema, la chiusura della critica!
La seconda domanda trae spunto proprio dal rapporto con la critica, infatti l'autore viene bonariamente rimproverato di non aver difeso il film "L'amico di famiglia" da le ingiuste critiche ricevute. Anche qui Sorrentino, da un lato si schermisce, dall'altro spiazza. Nega la benevola accusa, asserendo non solo d'aver difeso il film, ma ampliando la riflessione: per lui una volta fatti i film sono andati, chiusi. Dopo aver occupato anche in maniera ottusa la mente per un lungo periodo, una volta realizzati, sono finiti, dunque, è pronto a difendere il prossimo film, non i precedenti.
L'intervento successivo torna sull'accostamento, entusiasta, fatto dalla critica internazionale tra "La Grande Bellezza" e Fellini. La domanda posta è se Sorrentino si spiega la diversa accoglienza ricevuta dal film all'estero, dove è stato salutato come un capolavoro, e in patria, dove è stato oggetto anche di forti critiche.
Il regista riconosce che la ricezione critica è stata diversa, sottolineando che tutte le critiche sono pericolose: quelle negative perché fanno arrabbiare, quelle positive perché lasciano il dubbio che non siano del tutto sbagliate. Inizialmente, dichiara che, pur essendoselo chiesto tante volte, a tutt'oggi non sa ancora dare una risposta alla domanda. Ma poco dopo ammette con una battuta, che in realtà lo ha capito ma non vuole dare la risposta. "La Grande Bellezza", dice, è un film che mette in difficoltà, tocca nervi scoperti, per questo, secondo il regista, non definirebbe la critica italiana come negativa, piuttosto come "esagitata".
E' un film che è rimasto impigliato nella testa dei critici, che ancora oggi lo confrontano i nuovi film usciti nelle sale. E' certamente un film che non ha lasciato indifferenti.
Sorrentino, tornando al discorso accennato prima, vorrebbe che si cambiassero certi approcci alla visione dei film,  approcci datati o legati al personalismo. Per questo auspica una modalità diversa di lettura dei film, anche perché quella corrente non è utile ai lettori, che infatti se ne fregano delle critiche. Un tempo, ricorda, venivano seguite, tuttora in Inghilterra il parere dei critici è molto seguito, ma in Italia ormai il pubblico non li ascolta più. Per cui, i critici dovrebbero fare un pò di autocritica, com'è giusto che la facciano a volte i registi.
Continuando a rispondere al secondo aspetto della domanda, il regista continua a smarcarsi dall'ingombrante accostamento col gigante felliniano, spiegando che all'estero il cinema italiano arriva a singhiozzo, per cui i critici internazionali si ricordano Fellini e Antonioni, perché quelli conoscono, e ogni volta devono trovare un aggancio con i registi attuali.
Tornando a chiosare su "La Dolce Vita", si ribadisce che è un film che tocca corde molto profonde, se si guarda sotto la bellezza delle immagini celeberrime di Anita Ekberg che si bagna nella Fontana di Trevi, si vede il pericolo della mancanza dei sentimenti fondamentali.
Ad esempio, nel film, il padre del protagonista è inizialmente esaltato della bella vita, ma poi preferisce tornare subito a casa. "La Dolce Vita" racconta che la modernità è un assassino dei sentimenti.
Definizione, quest'ultima, per noi stupenda.
L'ultima domanda verte sul rapporto del regista con Roma, un elemento innegabilmente in comune col grande precedente felliniano. Ed ancora una volta, Sorrentino dribbla il paragone, anche su un oggettivo terreno condiviso. Dichiara di non comprendere i discorsi sulle città, i confronti, i "rapporti"...i rapporti si hanno con le persone, non con le città, sostiene. Per lui, Roma è una città talmente bella da sembragli un perenne luogo di villeggiatura, ci vive felice perché si sente come un turista senza biglietto di ritorno, una condizione ideale. Ai fini del film che ha realizzato, però chiarisce, Roma è uno sfondo di bellezza, come sarebbero potute essere New York o le Dolomiti, nei film si descrivono gli esseri umani, non le città.



L'intervento di Sorrentino, per quanto apparentemente dimesso e improvvisato, è stato in realtà un capolavoro di affabulazione, propria di chi da anni si è dimostrato un grande narratore, non solo per immagini. A partite dall'inizio, in cui si dichiara imbarazzato come un oratore incapace, e poi sfodera un discorso bellissimo, non solo per i concetti espressi o per il linguaggio forbito, ma proprio in quanto ben costruito, pieno di ritmo e passione, pause, tempi comici e sferzate improvvise.
Fino alla fine: negare l'unicità del teatro di Roma come scenario perfetto, nella sua barocca, stordente e annoiata decadenza, per la vicenda narrata, è un abile nascondere le carte.
"La Grande Bellezza" come, appunto, solo Fellini aveva saputo fare, è  un supremo omaggio d'amore all'antico splendore della Città Eterna, e nel contempo la più spietata esposizione delle brutture, dell'orrenda volgarità, dell'insopportabile cacofonia esteriore, specchio del deserto interiore, che possiede la Capitale.
Punto fondamentale della grande affabulazione, che dura da mesi, è che il regista ha sempre negato, smentito, ridimensionato l'accostamento con "La Dolce Vita", quando, oltre alle numerosi evidenti affinità, è stato proprio il suo omaggio nella presentazione del film a rivelarlo, a suggerirlo, a confermarlo. Le riflessioni da lui dedicate all'opera felliniana, infatti, potrebbero tranquillamente essere rivolte a "La Grande Bellezza". Più che mai solare è apparso il legame, quasi un inconscia confessione, quando ha detto che la condizione del protagonista può essere benissimo essere immersa nella realtà d'oggi, sostituendo al ballo con Celentano magari una serata in discoteca. A parte che una delle scene chiavi de "La Grande Bellezza" è girata nella stessa location del famoso cameo del Molleggiato...soprattutto non possiamo non pensare alle scene di sguaiata danza collettiva sul terrazzo di Jep Gambardella (interpretato da un Toni Servillo ormai oltre ogni lode), versione contemporanea e cafonal degli stanchi festini nelle ville in riva al mare del finale felliniano. E quanto appare astutamente ironico il dire che nei film precedenti ha copiato il Maestro, mentre nell'ultimo no! Sfido io voi tutti a trovare uno sguardo felliniano in "This must be the place" o ne "L'amico di famiglia". E sfido voi tutti, compreso lo stimatissimo autore, a negare la mastodontica impronta felliniana del suo ultimo film. "La Dolce Vita" è, in realtà, evocata, omaggiata, citata, sfidata, parodiata, scavalcata per tutta quanta la durata de "La Grande Bellezza". Come evita  e smentisce il paragone nelle interviste (ad esempio QUI e QUI), nel film Sorrentino accetta il confronto, lo stimola, lo provoca, lo impone, lo capovolge.
Jep Gambardella è, ciò che sarebbe divenuto Marcello Rubini ai giorni nostri, quarant'anni dopo aver scelto male al bivio della sua esistenza, voltando le spalle all'Innocenza sorridente nel finale, spostando lo sguardo dalla fissità giudicante del mostuoso pesce sulla riva (dagli ammessi risvolti cristologici come rivelatomi da Alessandro Caroni), e scegliendo di essere rapito e fagocitato dalla mortifera compagnia degli "indifferenti" mondani annoiati, ormai larve senza un'anima.


E  a rivederlo venerdi sera, per l'ennesima volta (ma mai quanto "Otto e mezzo", per chi parla il film più significativo della Storia del Cinema), nonostante il caldo crematorio e asfissiante del cinema, "La Dolce Vita" perpetua il suo incanto cupo, il suo quasi baudelairiano splendore. E nella sua intatta, assoluta bellezza, nel suo essere non solo altissima arte poetica, ma bruciante profezia sociale e antropologica (come Fitzgerald trent'anni prima in America non è solo uno scrittore, ma il profeta martire del fallimento a venire dell'American Dream), si conferma il grande, ineludibile precedente de "La Grande Bellezza".
Ci si potrebbe scrivere un libro.
Qualcuno forse ci sta già lavorando.



mercoledì 4 settembre 2013

LA PROPRIETA' - Intervista a RUTU MODAN




Cari gentili, eroici lettori,

torniamo a pubblicare dopo un'estate meravigliosa, che ci ha donato innumerevoli spunti per le prossime pubblicazioni.

Si riaprono le danze segnalandovi l'intervista a Rutu Modan al “Festival della Letteratura e Cultura Ebraica”, tenutosi a Roma il luglio scorso.

L'intervista la trovate QUI, sulle colonne a noi care di Conversazioni sul Fumetto.

Spero che avrete lo stesso piacere a leggere l'intervista che ha avuto il sottoscritto nell'incontrare l'autrice, persona di grande gentilezza e disponibilità.

Buona Lettura
P.S.
Un enorme GRAZIE inciso nel bronzo in caratteri gotici e posto sul più alto monte degli Urali va a Francesca Martucci.