venerdì 30 novembre 2012

L'Ultima Thule (part I)




Nella scorsa settimana si sono succeduti una serie d'anniversari ed eventi che
meriterebbero un'attenta riflessione per l' innegabile impatto culturale delle figure ad essi collegate: l'anniversario della nascita di Baruch Spinoza e di William Blake, della morte di Freddie Mercury, i 70 anni di Jimi Hendrix, il ritorno di Gascoigne all'Olimpico ...
Avevo però già deciso di parlare dell'ultimo disco di Guccini, argomento che apparentemente potrebbe interessare solo i devoti seguaci del Maestrone (tra i quali fieramente m'iscrivo), ma che avrebbe comunque rappresentato un evento, considerando che il suo disco precedente risaliva a otto anni fa, e che stiamo parlando  di una figura veneranda nel nostro panorama musicale. 
Quando poi nella giornata di ieri il Guccio ha dichiarato che questo non è il suo ultimo disco in ordine cronologico, ma è proprio l'ultimo in assoluto, la scelta m'è parsa obbligatoria.
Non è una notizia che ci sconvolge a livello razionale, visto che già dai tempi di "Eskimo" (prima che io nascessi!) , aveva avvertito: "Ed io ti canterò questa canzone/ uguale a tante che già ti cantai/ ignorala come hai ignorato le altre/ che poi saran le ultime oramai".
E poi aveva ribadito, esplicitamente, il desiderio "nell'anno '99 di nostra vita",  in una delle sue 
vette assolute, "Addio"


Nonostante ciò, pur avendoci avvertito con 34 anni d'anticipo, e ribaditolo 13 anni fa, la notizia segna uno spartiacque improvviso nella storia della musica italiana.
Per cui dalla semplice recensione credo che il discorso possa divenire bilancio d'una intera, impareggiabile carriera, espandendo la riflessione all'intero cantautorato italiano, al suo senso, alla sua eredità.
Quindi confronteremo, per sommi i capi, i principali cantautori italiani classici (De Andrè, De Gregori e, appunto, Guccini), in relazione anche alle loro influenze ai loro maestri comuni, da Leonard Cohen ai cantautori francesi, fino, ovviamente, a Bob Dylan.

ATTENZIONE.
 Mi rendo conto di aver menzionato per la prima volta in questo blog Bob Dylan.
E' necessario aprire una parentesi esplicativa.
(Dunque, l'ho aperta: 
non sono per nulla una persona modesta, nel senso etimologico di moderarsi e contenersi. Preferisco essere umile, parola dall'etimo stupendo, che riporta all'humus, alla  Terra che sostiene e feconda; cioè riconoscere la presenza di persone migliori di me, in vari sensi, e abbassare il mio ego dinanzi a loro.
Per cui, posso pacificamente riconoscere che ci sia chi ne sa infinitamente  più di me sui fumetti; egualmente, penso che ci siano molto probabilmente persone più preparate di me sul cinema; posso senza dubbio accettare che ci sia qualcuno più esperto di me di letteratura o di filosofia, certo...
ma su Dylan NO!
In un mondo equo e giusto io sarei il detentore della cattedra di filologia dylaniana ad Harvard.
Ecco.
Volevo dirvelo.)

Mi sembra doveroso iniziare il nostro confronto proprio con Guccini.

Guccini è stato per ormai tre generazioni molto più di un cantautore.
E non parlo degli slogan roboanti di retorica: "la voce di una generazione", "il cantore della protesta"...e tutte le etichette che da 50 anni incombono come una mannaia, da Dylan in poi, su chiunque abbia preso una chitarra e provato a dire qualcosa di sensato.
Parlo di qualcosa di molto più prezioso, intimo, eppure concretissimo e presente 
per chiunque lo abbia ascoltato a fondo.

Guccini è stato la porta verso la ricerca, l'esempio nel pensiero, l'alchimista delle emozioni.
 Il maestro della parola nel momento in cui dichiara l'inesprimibilità del vero, l'umile artigiano che testimonia lo splendore dell'arte, l'amico che ti fa gioire d'ogni momento dell'esistenza mentre ne proclama l'incomprensibile vanità, l'agnostico irriverente in grado d'esplorare le profondità dello spirito.
Un cicerone paterno e divertito che ha ci ha accompagnato nella percezione dei sentimenti ineffabili, un professore logorroico ma amabile che ci ha iniziato ai capolavori della letteratura d'ogni tempo e luogo, l'intuizione che ha schiuso le porte di infiniti collegamenti culturali, una matrice inesauribile di stimoli intellettuali e interiori.
Un punto di riferimento certo proprio nel ricordarci il segno costante dell'incertezza, uno sherpa affidabilissimo nel disseminare il suo, e nostro, percorso di dubbi e interrogativi.
Più di tutto, una guida onesta e sommamente discreta nel difficile cammino di conoscere noi stessi.
E tutto questo senza boria alcuna, al contrario con l'ironia e l'umiltà di chi si sente perennemente a disagio, imbarazzato non dico dallo stare sotto i riflettori, ma dalla stessa presunzione d'affermare alcunché.

Nell'Italia di Rita Pavone e Caterina Caselli (a cui comunque dobbiamo dire grazie per averlo lanciato), lui scriveva canzoni ispirate a Salinger, citava T.S.Eliot e omaggiava Gozzano.

Eppure, se chiediamo al pubblico medio, Guccini, come Dylan,  è considerato ancora il cantautore impegnato, di sinistra, un pò depressone, pesante etc...
Un pregiudizio che resiste quasi 40 anni dopo "L'avvelenata", celeberrima canzone in cui si smarcava con orgoglio e coraggio (usando il turpiloquio quando era ancora proibito) dalle etichette, dai luoghi comuni, dai paraocchi ideologici.
Uno sfogo, come si sa, scatenato da una recensione "leninista" di Riccardo Bertoncelli: "Voi critici, voi personaggi austeri, militanti severi, chiedo scusa a vossìa/però non ho mai detto che a canzoni si fan rivoluzioni, si possa far poesia;/io canto quando posso, come posso, quando ne ho voglia senza applausi o fischi:/vendere o no non passa fra i miei rischi, non comprate i miei dischi e sputatemi addosso..."



A risentirla ieri"L'avvelenata", la canzone oltraggiosa, divertente, liberatoria, beh veniva quasi da piangere...riascoltando i versi finali "ho tante cose ancora da raccontare per chi vuole ascoltare" nel giorno in cui il Guccio appende definitivamente la chitarra al chiodo perchè, dice, "manca la voglia e l'entusiasmo" di scrivere canzoni.
Una canzone da qui però deriva la percentuale residua di luogo comune  su Guccini: il casinista ubriacone, il poeta attaccato al fiasco, santo patrono delle osterie e dei canti notturni avvinazzati. Non a caso il Guccio negli ultimi concerti metteva in palio 500 euro a chi avesse abbattuto istantaneamente chi ne richiedeva a voce alta l'esecuzione.
Ora, che il vino abbia tanto spazio nell'ispirazione, e nella vita privata, di Guccini è innegabile. Ma apprezzare le sue canzoni perché era un bevitore, sarebbe come apprezzare "I fiori del Male" perché Baudelaire era un puttaniere.

In questo ossessivo e disperato tentativo di scrollarsi di dosso etichette e miti, non possiamo non vedere la prima grande analogia con Dylan.
Se noi chiediamo a chiunque chi sia Bob Dylan, la prima risposta sarà molto probabilmente: "un cantante di protesta".
Si, il cantante di protesta, che cantava con Joan Baez contro il Vietnam.
I più informati parleranno della svolta elettrica, qualcuno addirittura si spingerà all'incidente in motocicletta. Incidente avvenuto nel 1966.
Al di là delle esagerazioni, nella mente d'ognuno (filologi pazzi come me esclusi,ovviamente) c'è il Dylan protestatario, ribelle, dallo sguardo torvo e dalla voce nasale che campeggia indignato sulla copertina di "The times they are a-changin'", il menestrello profeta di "Mr. Tambourine man", o al massimo il Dylan elettrico e mercuriale di "Like a rolling stone" e "Just like a woman", posseduto da un ispirazione nervosa e visionaria, quello per intenderci
interpretato da Cate Blanchett in "I'm not there" (un vero prodigio come una delle donne più affascinanti del pianeta sia stata in grado di incarnare credibilmente un nano rachitico!).



E' interessante notare che se Guccini scrive "L'avvelenata" nel 1976, Dylan qualche anno prima scrisse "My back pages", uno dei suoi capolavori assoluti, in cui prendeva le distanze dal falso mito di sè stesso nel ritornello immortale:"Ah, but I was so much older then / I'm younger than that now".
Era il 1964. 48, quasi 49, anni fa.

Ora è vero che nel caso di Dylan (ed è valido anche per Guccini), il potere di questi luoghi comuni immarcescibili deriva anche dalla dirompente forza e bellezza dei suoi esordi.
Dylan (come il Welles di "Citizen Kane") è stato condannato dalla benedizione di aver raggiunto l'eccellenza assoluta subito.
Avendo goduto di una connessione Fastweb con l'Inconscio Collettivo per i primi anni della sua carriera (in pochi mesi tra il '63 e il '64 ha sfornato un numero di capolavori tali da riempire 7 carriere gloriose), egli ha passato gli ultimi 45 anni della sua carriera a sfuggire la condanna di divenire il poeta alessandrino di sè stesso.
Un'intera carriera passata a sputare sul proprio mito, a resistere alle sirene che lo volevano imbrigliare nelle definizioni di icona generazionale.
Definizioni da lui divertitamente elencate nello stupendo primo capitolo del suo vero ultimo capolavoro, la sua autobiografia "Chronicles":  "Leggenda, Icona, Enigma (Buddha vestito alla Europea era il mio favorito), Profeta, Messia, Redentore".
Un grido collettivo magnificamente espresso da Bowie in "Song for Bob Dylan",  (tratta da "Hunky Dory",il disco di "Changes" e "Life on Mars?" per intenderci): "Give us back our unity/Give us back our family/ You're every nation's refugee/ Don't leave us with their sanity".




Un gemma di Bowie incastonata fra gli omaggi mimetici ai suoi altri due grandi ispiratori, Andy Warhol (nell'omonima canzone, a quanto pare odiata dal destinatario), e Lou Reed (in "Queen Bitch", probabilmente la canzone più cool della storia, in cui l'ammirazione da fan si trasforma in rivalità fra checche imperiali ).



E' interessante notare come solo dopo aver pacificato i fantasmi dei suoi idoli con aperti tributi, Bowie saprà liberarsi dalla loro ombra ingombrante, e manifestarsi finalmente  nel doppio leggendario di Ziggy Stardust.

Dylan per sfuggire a questa prigione concettuale farà veramente di tutto:  inscenare la famosa svolta elettrica di Newport, tempio del folk di cui era l'eroe e il dio, del'65 (gesto più punk della storia, perchè sputo rivolto non alla autorità di altri, ma alla propria); pubblicare appositamente un disco bruttissimo per allontanare i fan da sè, l'infausto"Self-portrait" (celebre il commento di Greil Marcus: "What is this shit?"); concedere l'autorizzazione a una banca per usare in uno spot l'inno profetico "The times they are a-changin'" (beffa suprema, cantato da Richie Havens, il cantante simbolo di Woodstock che su quel palco improvvisò "Freedom"); apparire in una reclame di Victoria's secret; guidare trasmissioni radiofoniche su tutta la musica antecedente agli anni'60, cioè al proprio avvento artistico, cancellando di fatto la sua rivoluzione etc...
Sul gesto più clamoroso (molti di voi avranno già capito) vale la pena sottolineare una coincidenza illuminante: tutti conosciamo "Fear and Loathing in Las Vegas" il romanzo di H.T.Thompson (da cui è tratto l'omonimo film-culto con Johnny Depp e Benicio del Toro) .
Libro, tra l'altro, dedicato proprio a Dylan, per aver scritto "Mr.Tambourine Man".

A un certo punto, per commentate sarcasticamente la devozione dei Beatles per quello che si sarebbe rivelato un falso guru, Thompson chiosa con una battuta:
"Era come se Dylan fosse andato in Vaticano a baciare l'anello del Papa."
Come dire, la cosa più assurda del mondo.
Sappiamo tutti che ciò è successo, nel '97 (io c'ero, per Dylan ovviamente, fui visto da molti in televisione mentre facevo gestacci tra le mandrie inneggianti di Papa Boys).
Molti potranno commentare la cosa come il compimento spettacolare di un tradimento, la consacrazione che Dylan si è "venduto".
Per me, invece, si è trattato della massima manifestazione della natura, come già detto, mercuriale di Dylan
L'intuizione del film "I'm not there" (per quanto progetto dichiaratamente incompiuto e non riuscito) di rappresentare il cantautore americano con sei personaggi differenti, in quanto personalità troppo molteplice e sfuggente per essere inscatolata in una figura unica, è brillantemente corretta.
Dylan è il Bagatto dei Tarocchi. 
Ed è un emblematico, incorreggibile Gemelli.
Proprio come Guccini.

FINE DELLA PRIMA PARTE.

martedì 27 novembre 2012

Trama di Ratigher - Una testa mozzata grande come il Ritz





Qualche giorno fa sulla colonna destra della prima pagina del sito di “Repubblica” spiccava, tra i goal di Ibrahimovic in modalità Mazinga e le foto dell’arresto settimanale di Linsday Lohan, il ritratto d’una testa mozzata da un forcone, deturpata dai segni di mille torture, rapita in un’espressione d’orrificato stupore.
Era il link alla pagina di XL, dove poter effettuare il download gratuito dell’ebook di “Trama” di Ratigher, uno degli autori più interessanti degli ultimi anni. 

E’ un evento degno di nota.
Parliamone.

E’ difficile fare una recensione sulle opere Ratigher, addirittura forse inutile.
Non solo perché egli nei suoi comunicati e nelle sue interviste, dietro il velo della sua paradossale ironia, si mostra un brillante e quasi definitivo critico di sé stesso: 



Ma, soprattutto, perché egli sa infondere questa sintesi critica nei personaggi chiave delle sue storie, rendendoli talmente pregni di autocoscienza da diventare la migliore esegesi di se stessi.

Proviamo dunque a dire le cose meno sceme possibile che ci vengono in mente dopo la lettura di “Trama”, senza la pretesa di essere esaurienti o definitivi, ma seguendo il filo delle associazioni che un testo del genere ispira.

Prima cosa da sottolineare è che a Ratigher è riuscito un gioco di prestigio talmente spettacolare da sfiorare la dimensione mistica del miracolo.
Egli prende una trama vista e rivista, letta e riletta, saputa e risaputa, mangiata e digerita in dieci fumetti, cento libri, mille film (in questo senso il titolo è supremamente ironico, quasi si trattasse di una trama talmente nota da divenire la “Trama” per definizione), e riesce a renderla qualcosa di nuovo, originale,  insieme commovente e inquietante.
Non è esattamente una cosa facile.
 Come quoziente di difficoltà credo equivalga è un triplo salto mortale su una corda di nylon tesa sul pozzo di Sarlacc.





Data la mia intollerabile presunzione, credo d’essere in grado di svelare l’ingrediente segreto che rende possibile l’incantesimo stilistico di Ratigher.

E’ qualcosa che appartiene al tessuto primordiale delle fiabe popolari, e che è stato custodito da pochissimi autori negli ultimi anni (Calvino, Borges, Cortazar ad esempio)
Curiosi, eh?!
Chi ama i tre autori citati sopra avrà già capito…

Anche nell’irrespirabile crescendo ansiogeno, nell’acme della scena più disturbante, nel materializzarsi dell’incubo horror, sempre si avverte il dono di una straniante  leggerezza, un distacco narrativo che ricorda la mitezza irreale di Bunuel.

Determinante in questo, è il sapiente uso del flashforward, che sospende (o a volte aumenta) la tensione narrativa, trasfigurando la dinamica degli eventi da inferno vivente a memoria quasi onirica.

Anche qui il miglior commento critico è dell’autore stesso: 

“È un espediente che costringe a rileggere il libro e a darne un’interpretazione propria; non è niente di complicato ma credo che questo piccolo sforzo ripaghi il lettore rendendolo maggiormente partecipe. Lo spiego in breve: alla fine di ognuno dei nove capitoli c’è una tavola che “anticipa” il futuro, fino ad arrivare all’ultimo salto temporale che conduce oltre la fine della storia disegnata. Nella prima stesura della sceneggiatura questo “trucco” non c’era; concludevo ogni capitolo con un climax che spingesse il lettore a non poter interrompere la lettura. Uno stratagemma antico che a me ha sempre catturato. Ho inserito anche i salti temporali perché volevo che la storia fosse pienamente raccontabile solo con il mezzo fumetto. Se venisse infatti tradotto il libro in qualsivoglia altra forma narrativa sono convinto che l’espediente non funzionerebbe altrettanto bene. Del nuovo interesse che gravita intorno alle graphic novel e compagnia bella trovo che l’aspetto più fecondo sia un rinnovato interrogarsi da parte degli autori sulle possibilità esclusive della narrazione a fumetti; ho dato il mio contributo.”
  
Questo accorgimento determina uno strano effetto di accelerazione narrativa, che dà quasi per scontato lo sviluppo della vicenda principale, per differire il mistero su ciò che accadrà dopo.


(in realtà un trucco adoperato già nella altrettanto famosa scena della visione di Bob che attacca la cugina di Laura Palmer in “Twin Peaks” e che si ritroverà anche in “Inland Empire”). 
  
Ratigher ha una capacità magistrale di catturare il tedio, il senso di vuoto  nel quotidiano, lo strisciante disgusto dell’esistenza, che in molti abbiamo esperito, specialmente chi fra noi è stato timbrato con l’ingombrante etichetta di “bambino precoce”.
In “Paura della morte”,  le tavole del bimbo (non ancora trasformato nel personaggio di cui tratteremo tra poco) che ascolta in spiaggia  il dialogo della sua baby- sitter e del suo rude boyfriend,  hanno per me la statura del classico (QUI)

  
Proprio  per questa grande abilità icastica dell’autore, ho trovato, tra le scene più interessanti di “Trama”, quelle paradossalmente escluse dal flusso narrativo. Le poche tavole, cioè, in cui viene rappresentato il party  degli amici ricchi (meta e salvezza mancata dei protagonisti).
In pochi tratti Ratigher mostra la crudele spensieratezza della mondanità opulenta,  la cui vuota allegria fa da controcanto all’incubo del filone narrativo principale, e riesce a rendere in tre passaggi tre (!)  l’aberrante superficialità di un mondo che ci appare degno d’essere distrutto.

Sia l’approccio che l’esito dello sguardo ratigheriano sul mondo dei ricchi si configurano come forze eguali e contrarie alla testimonianza classica di F.Scott Fitzgerald.

Qui le dinamiche sono opposte ai racconti del grande autore americano: disgusto invece di fascinazione, furia invece di desiderio.
Qui abbiamo i personaggi che escono da quel mondo a seguito di una traumatica,  allucinata consapevolezza, al contrario degli antieroi fitzgeraldiani, che invece se ne innamorano irreparabilmente e fanno di tutto per entrarvi, in preda a un sogno ingannevole.
Le conclusioni, però, sono medesime: disperazione e tragedia.

Lungi dall’essere il semplice cantore dell’età del Jazz (sarebbe come ridurre Stendhal a descrittore di paesaggi italiani), Fitzgerald è un gigante della letteratura del Novecento.
E’ uno dei pochi autori  la cui grandezza forse non si intuisce alla soglia dei vent’anni, ma appare mastodontica superata quella dei trenta.
Egli è l’autore che ha disvelato il crudele inganno del benessere, l’abisso interiore della società consumistica, vivendone, dopo averne incarnato la bellezza e il fascino, nella propria anima le cicatrici feroci dell’ illusione. 



F.Scott Fitzgerald

Uno dei tratti del suo genio è quello di rendere l'orrore per la desolante povertà interiore dei “ricchi”, l'ingiustizia fondamentale e la paradossale alienazione della loro condizione, descrivendole dal di dentro della ricchezza. 
Leggetevi “Il diamante grande come il Ritz”, in cui la paranoia, il delirio, l’arbitrio crudele della violenza provengono tutti dalla parte dei “ricchi”.
In questo racconto, Fitzgerald realizza la meravigliosa centratura,  taglia il nodo invisibile del più grande inganno,  denuda il trucco tragico dell'American Dream.
Contemplate il finale grandioso, quasi un delirio pagano in cui il fallimento dei personaggi è esposto sotto l’evidentissima metafora della montagna/diamante, l’apocalisse del materialismo che sprofonda nel suo stesso gorgo.




Fitzgerald, come i suoi personaggi,  non aveva bisogno del Bimbo Fango come giudice, come specchio crudele e ineluttabile della propria vanità.
Lo specchio davanti alla sua putrida deformità lo mise davanti a tutto il mondo, pubblicando nel 1936 sull’”Esquire” i saggi poi raccolti in “The Crack-up”.
Egli è diventato il Bimbo Fango di sè stesso.


Il Bimbo Fango visto da Akab

Appunto, il Bimbo Fango.
E’ questa la creazione cruciale delle storie di Ratigher.

L’autore lo ha definito “ un monito per tutti noi”.
Non dirò nulla sulla genesi del personaggio, per chi non ha letto (c’è il link sopra) “Paura oltre la morte”, più che uno spoiler sarebbe un crimine contro l’umanità.

Però darò per scontato che ne conosciate i tratti fondamentali.

Bimbo Fango crocifigge i personaggi alla loro meschinità, li avvolge nello stesso destino al quale è stato condannato, facendone schiavi eternamente torturati dal loro pavido egoismo.

E’ l’Incarnazione del senso di colpa
Egli si manifesta contaminando il prossimo del senso del peccato, di cui egli è il marchio vivente.
Bimbo Fango è la gogna ambulante pronta a farsi specchio deforme ma limpidissimo d’ognuno (“io vi indosso. La mia pelle è fatta di colpa”).

La sua presenza spietata, sardonica, beffarda diventa, sotto il ricatto della paura e della violenza, un auspicabilissimo obbligo all'introspezione.

Introspezione non solo del malcapitato individuo, ma intesa come analisi implacabile della società-inferno tutta, pullulata di comunissimi inconsapevoli mostri (al rampollo nel dialogo iniziale Bimbo Fango dice “Normale sono io!”)
La mostruosità deforme del Bimbo Fango (orribile, sadico, delatore) non solo è nulla rispetto alla violenza ferina e insensata della gang dei camionisti, ma è soprattutto nulla rispetto alla mostruosità vera, al deserto morale dei “ricchi drogati”, persi nell'”infinita vanità del tutto”.
Un confronto che, se certo non ci fa simpatizzare per gli odiosi camionisti torturatori, sicuramente dà al giudizio inflessibile e spietato del Bimbo Fango una più alta dignità spirituale.
Egli non è solo una super sintesi raffinatissima dei fantasmi horror, è più una versione grottesca e disperante dell’Angelo Sterminatore.
Non a caso, ancora Bunuel.
(a proposito, tutti citano, Woody Allen compreso, la trama del film omonimo come esempio del surrealismo bunuealiano. ma l’idea che l’ha ispirato è di Jose Bergamin…si si proprio, lui, il genio che ha scritto “Decadenza dell’analfabetismo”!)

Straordinariamente interessante è anche il motivo della condanna/trasfigurazione di Bimbo Fango: la sua sincerità.
Sono paradossalmente la sua innocenza e il suo candore a confessarne la colpa. Egli è condannato perché si dichiara colpevole, e si dichiara colpevole poiché è innocente.

C’è un racconto di Villiers De L'Isle-Adam, molto amato da Carmelo Bene (come quelli del già citato Fitzgerald), “Il desiderio di essere un uomo”, in cui il protagonista, un vecchio attore a fine carriera stufo di vivere artificialmente emozioni altrui, vuole togliersi l’immorale capriccio di provare davvero intensamente il rimorso. Per questo, mette a fuoco un quartiere di Parigi, moltiplica stragi, incidenti…eppure nulla s’affaccia a turbare il suo animo.
In uno dei suoi interventi più neri (e discutibili), Bene chiosando sul raccontino, conclude:
“L’etica non ha senso di colpa, ne rimorsi.”(lo trovate QUI)



Carmelo Bene

Perdonate ora una digressione, o meglio un approfondimento, ma siamo arrivati ad un nodo cruciale.
Il senso di colpa è talmente penetrato, come un morbo purulento, nella nostra cultura, da farci credere che esso sia sempre esistito, sia connaturato all’essere umano, alla sua psiche, alla sua coscienza.
E’invece un prodotto a tavolino, scientemente realizzato da menti raffinatissime.
Il  brevetto è della premiata ditta Paolo e Agostino (rispettivamente di Tarso e d’Ippona): il primo ha installato il software, il secondo, secoli dopo, ha realizzato l’upgrade.
E’ evidente a chiunque usi il cervello come il senso di colpa sia in realtà solo un fardello inutile, una comoda giustificazione per continuare a sbagliare, a non affrontar noi stessi e le proprie debolezze, con la nobile scusa di riconoscersi peccatori.
Un cappio untuoso e soffocante, che c’impedisce di ergerci nella nostra maestà d’esseri liberi.
Un marchio che ha ustionato le coscienze come vacche da macello per la grande fattoria globale dell’ impero della Chiesa.
Se la religione è l’oppio dei popoli, il senso di colpa e' la pipa che lo rende inalabile a tutti.
Ma non vale per tutti.
Guardiamo all’Oriente.
Ad esempio, ad un'arrogante mente occidentale la religiosita' indiana  può apparire, col suo complicato e colorato pantheon di caste deita', poco più di una fiaba infantile, dai tratti allegorici elementari
Però, a parte l’orrore anacronistico delle caste e alcune discutibili pratiche folkloristiche concernenti il darsi fuoco in caso di vedovanza, l’ impianto teologico dell’ induismo ha mantenuto una purezza spirituale sostanzialmente intatta.
Si potrà obiettare che il popolo è mantenuto nell’ignoranza, ma lo  è nella semplicità d’ una devozione spontanea colma di poesia e stupore.
Senza incubi infernali.
Senza il ricatto continuo del senso di colpa.

Non sto parlando di differenza culturali in senso alto, accademico.
Non mi riferisco fatto che noi abbiamo avuto i cupi Paolo e Agostino e loro il divino Shankara. O meglio questa differenza non ha segnato solo la storia e l’indirizzo delle rispettive teologie.
Parlo di un abisso che segna profondamente la cultura, i codici, i comportamenti, in breve l’identità di un popolo, anche nel quotidiano.
Non so quanti di voi abbiano avuto occasione di visitare Mumbai, al cui confronto i Quartieri Spagnoli di Napoli sembrano il centro di Lugano.
Ma chi c’è stato potrà confermare ciò che sto per dire.
Un indiano può tranquillamente provare a rubarti il portafoglio, e una volta scoperto, invitarti col sorriso a venire a prendere un the a casa sua.
Non ha senso di colpa. Proprio non c’è, non sanno cosa sia.
Il senso di colpa è una maledizione tutta nostra.
E vero che senza di esso non avremmo avuto Dostoevskij, ma è pure vero che forse Fedor avrebbe avuto una vita più felice.

Tornando a “Trama”, visto che abbiamo parlato di violenza e rimorsi, è il caso di evidenziare una grande finezza formale.

E’ apprezzabilissima la scelta di non mostrare la violenza.
Finalmente qualcuno che ha capito che è molto più inquietante farne intuire prima il terrore crescente, e dopo mostrarne i segni devastanti.
 Una scelta opposta a tanto finto iperrealismo di moda, che ci imbottisce gli occhi di bruttezza e gratuiti orrori.
Una scelta apparentemente simile, ma che nella sostanza si pone agli  antipodi da Haneke, e il suo voyeurismo malato (e camuffato), mascherato da denuncia sociologica.
Una scelta di stile e d’intelligenza classica, che libera “Trama” dall’equivoco horror, e la restituisce, come dice l’autore,
alla tradizione del thriller.
Secondo me, però, ci sono radici più alte e nobili.
Ratigher ha imparato una lezione importante da un grande maestro, spesso saccheggiato in silenzio.

La lezione è quella, insuperata, de “Lo straniero” di Albert Camus: mostrare l'assurdo, fino alle sue estreme conseguenze, con uno sguardo calmo, compassato, quasi olimpicamente indifferente.


Albert Camus

Qualcuno già ha correttamente riconosciuto (QUI) l’influenza di Albert Camus su alcuni importanti autori di fumetti contemporanei, ad esempio Daniel Clowes:

In realtà, io credo che se Clowes avesse letto bene “Lo straniero”, beh, avrebbe scritto “Trama”.


Daniel Clowes

Siccome non mi piacciono le frasi provocatorie ad effetto, mi spiego meglio.
Ora, tutti conosciamo il talento eccezionale del fumettista di Chicago (definito meravigliosamente da Lorenzo Ceccotti “il perfetto incrocio tra Woody Allen e David Lynch”). Pochi come lui (non solo nel fumetto, ma anche nel cinema e nella letteratura) hanno saputo mostrare con elegante ironia i tic dell’America, il disagio esistenziale, le crisi adolescenziali, lo smarrimento generazionale etc…  senza però scadere in compiacimenti banali, al contrario annientandoli con affilatissimo umorismo.

C’è sicuramente qualcosa di Clowes, come c’è senza dubbio molto Charles Burns, in “Trama” di Ratigher.
La differenza è che in Clowes si parte sempre (con risultati spesso aurei) da un’ispirazione autobiografica.
Il perfetto cosmo delle storie di Clowes nasce e si conclude in una consapevole autoreferenzialità.
Non solo riferita alle proprie esperienze personali, ma in generale alla propria cultura di riferimento, cioè a quella popolare americana.
In “Trama”, come in quasi tutte le opere di Ratigher, avvertiamo invece quel dono cui abbiamo accennato all’inizio: la grazia del distacco. La capacità di esporre anche la storia più cruda, disturbante, soffocante, con la calma onnisciente del cantastorie eterno.
Dalla prima tavola di “Trama” si avverte l’indifferenza cosmica, quasi meditativa, che si respira nell’ultima pagina del romanzo di Camus.
Agisce in “Trama”, come in tutte le storie del Bimbo Fango, un potente contrappasso, una legge morale senza redenzione, un Ultimo Giudizio in cui l’unica destinazione possibile è l’Inferno.
Per questo il Camus di riferimento è quello de “Lo straniero” e non quello, forse superiore, de “La Peste” (in cui comunque, come nell’ultimo Leopardi, c’è forse una risposta al Male nella solidarietà fra gli uomini).




L’assurdo della vita si manifesta e ci inchioda alle nostre colpe, delle quali siamo inconsapevoli, nella grigia indifferenza del tutto.
L’unico modo per uscire dall’incubo è dis-indentificarsi con sé stessi, e rivoltarci (sempre Camus) contro tutto ciò che ci hanno insegnato e che noi stessi abbiamo rappresentato.

Qui siamo di fronte a un messaggio profondo, raccontato benissimo.

Dunque: una storia di profonda intelligenza nei contenuti,
formalmente impeccabile,  narrativamente magistrale.
E’ pure gratis. Leggetela.

mercoledì 21 novembre 2012

Maicol&Mirco - Jean Paul Sartre = 10-0

Il Male mi annoia.
La violenza la trovo stupida, sterile, monotona.
La volgarità gratuita non mi diverte. Le bestemmie mi hanno sempre dato fastidio. Bacchettone? Ma per carità…
E’una questione estetica,  prima che morale. O meglio, è una questione estetica, dunque morale.
Chiarisco, il Male non mi spaventa anzi.
Mi annoia.
Scippando una celebre espressione di Hannah Arendt (che parlava in realtà di tutt’altra cosa) mi annoia, esteticamente, la banalità del Male.
Cosa c’è di più facile che sfogare gli appetiti più bassi, le pulsioni più animali, gli impulsi immediati, soprattutto in un’epoca in cui tutto ciò che in passato era proibito, vietato (e quindi sommamente fascinoso), non solo è a portata di click, ma è culturalmente accettato e, come si suol dire, ormai irrimediabilmente mainstream?!
Una volta caduti i paletti di una morale fittizia e decomposta, abbattuti i due-tre scrupoli formali rimasti, è il giochetto più facile che ci sia.
Poteva avere senso l’occhio tagliato di Dalì e Bunuel nel ’29, le descrizioni oscene di Henry Miller nel ’34, financo i beat….ma parliamo di 60 anni fa…

Eppure, sono qui a lodare, con entusiasmo, un libro che trabocca (almeno superficialmente) di tutti questi elementi che ho appena dichiarato di disprezzare: volgarità, bestemmie, iperviolenza etc…
Signore e Signori, in piedi: entrano gli “Gli scarabocchi di maicol&mirco”.

Attenzione, non  sto dicendo che questo è un libro divertente, trasgressivo, provocatorio,…no, no (nel 2012 ancora parliamo di provocazioni, suvvia…).
CHIARIAMO: non è un maledettissimo cabaret punk.

E’un’opera di genio.

Questo libro è un talismano contro la stupidità contemporanea.
Non solo quella insopportabile, riconoscibile, evidente.
 Quella del buonismo, della finta morale, dell’ipocrisia perbenista da “maggioranza silenziosa”, che chiunque abbia un encefalogramma non del tutto piatto epidermicamente rigetta con un grido d’orrore, come una siringa infetta trovata nel piatto di minestrone al ristorante.
Ma anche contro la stupidità, più sottile, e dunque più insidiosa, del politicamente scorretto facile facile, del nichilismo da salotto, del grunge patinato da Mtv.
Se prima ho citato Hannah Arendt, ora applicherò la par condicio scippando un’espressione altrettanto famosa, probabilmente spesso usata da Eichmann, l’orribile protagonista del suo libro : RAUS!

La violenza verbale, lo sberleffo immorale che dominano in questi elaboratissimi scarabocchi, lungi dall'essere volgare teppismo concettuale, illuminano di squarci accecanti la realtà stordente di uno smarrimento esistenziale collettivo. Dietro l'apparente facilità dei rovesciamenti paradossali, volti costantemente nell'osceno, nel blasfemo e nel disturbante, a uno sguardo attento si rivela un giacimento d'intelligenza pura.
Il quid di questa creazione non è solo una devastante padronanza dei meccanismi comici classici, ma uno sguardo privo d'alcun decoro e pietà nei confronti del nudo dolore d'esserci senza conoscersi.

Sono i Peanuts scritti a quattro mani da Beckett e GG Allin.

Intendiamoci, alcune tavole sono oggettivamente disturbanti, aggredendo temi tabù come l’incesto, la pedofilia, l’handicap etc…

Ma siamo davanti ad un uso sapiente e mai banale del politicamente scorretto.
In un'epoca in cui ormai MTV e Mediaset hanno sdoganato praticamente tutto è difficile ottenere un impatto comico e disturbante rimanendo originali
Credo che sia pertinente citare una delle più sottili  dichiarazioni di Frank Zappa, non solo artista geniale ma sempre lucidissimo critico della sua opera:
“ La maggior parte di quello che facciamo è progettata per infastidire le persone fino al punto che, anche per un secondo,  possano mettere in discussione l’ambiente a loro circostante, per poter fare qualcosa. 
Finchè non diventeranno consapevoli del loro ambiente, non se ne preoccuperanno - non faranno nulla per cambiarlo.” (trad. mia)


Alla luce di queste considerazioni, appare chiaro dunque che “Gli scarabocchi di maicol&mirco” sembrano battutacce,  ma sono acrobazie intellettuali notevoli.

Soprattutto, è un libro importante perché ci dà l’occasione di affrontare temi cruciali della nostra cultura contemporanea.

Le tematiche che ora accenneremo meriterebbero approfondimenti di centinaia di pagine, per cui ci limiteremo a enunciare alcuni concetti fondamentali, per meri motivi di spazio e non per pretesa dogmatica.

Facciamo un brevissimo accenno all’evoluzione (o involuzione?) del concetto di censura negli ultimi 50 anni.

Negli anni ’60 non si potevano indossare delle calze trasparenti in tv, causa l’effetto del bianco e nero. Poteva sembrare che le ballerine fossero a gambe scoperte, e ciò sarebbe stato fonte di scandalo.

Oggi, abbiamo trasmissioni seguitissime (non dagli adolescenti brufolosi in tempesta ormonale, ma dalle famiglie a tavola) in cui si parla solo e unicamente di sesso, in tutte le salse, in tutti i modi, in tutti gli orari.
  
Una volta le parolacce in tv erano un evento. Erano concesse solo a mostri sacri, in rare occasioni, controllatissime, di cadenza annuale o una tantum : Fo che recitava Ruzante,  Benigni a San Remo, Grillo (poteva dire quello che gli pare tranne fare battute sui socialisti), Carmelo Bene da Costanzo etc…
Ora ci ritroviamo non solo le famiglie che portano i bambini il giorno di Natale (!) a vedere i film di Vanzina (vero rituale satanico di massa: ce l’hanno fatta!), ma supposti intellettuali o politici (da Sgarbi a Ferrara, a quasi tutti i politici del Pdl) che utilizzano disinvoltamente il turpiloquio come in un bar di periferia.

Quando hai un Ministro che dice che col tricolore ci si pulisce il culo, un altro che indossa magliette offensive contro la religione islamica, un Presidente del Consiglio che organizza orge con minorenni, e racconta barzellette con bestemmie (ricevendo difesa dai Cardinali!)…dimmi tu che deve fare un povero artista per  sentirsi trasgressivo!

Pasolini aveva profetizzato, con la lucidità apocalittica che gli marchiava l’anima, questa perversa dinamica del potere: “Nulla è più anarchico del potere. Il potere fa praticamente ciò che vuole, e ciò che il potere vuole è completamente arbitrario, o dettatogli da sue necessità di carattere economico che sfuggono alla logica comune…  quella omologazione che il fascismo non è riuscito assolutamente ad ottenere, il potere di oggi, cioè il potere della civiltà dei consumi, invece riesce ad ottenere perfettamente, distruggendo le varie realtà particolari. E questa cosa è avvenuta talmente rapidamente che noi non ce ne siamo resi conto. E’ avvenuto tutto in questi ultimi anni. E stato una specie di incubo, in cui abbiamo visto attorno a noi l’Italia distruggersi e sparire. Adesso risvegliandoci, forse, da questo incubo, e guardandoci intorno, ci accorgiamo che non c’è più niente da fare.”


(chiedo scusa  non sono riuscito a trovare il video senza questa incomprensibile musica in sottofondo)

A parte la loro inquietante attualità, che sfiora la veggenza,  queste riflessioni ci interessano da vicino quando affrontiamo un libro come “Gli scarabocchi di maicol&mirco”.

Perché il Potere non solo ha liberato il linguaggio della protesta, abbattendo negli anni i paletti della censura, ma se n’è addirittura
appropriato,  fagocitandone i caratteri e i toni, spuntando così le armi di qualsiasi rivolta artistica e concettuale.
Si è impadronita del corpo stesso della rivolta: il linguaggio.

Ha preso il linguaggio che fino a poco prima censurava, e lo ha reso istituzionale, abbassandolo al livello del pettegolezzo da bar, della battutaccia scollacciata, depauperandolo così di qualsiasi potenzialità eversiva.

Se noi vediamo le interviste a Frank Zappa (prendo lui come esempio perché già citato),  nel periodo del suo processo per censura, assistiamo a una netta contrapposizione formale: il linguaggio castigato, ipocrita dei censori da un lato, lo sberleffo sconcio e anarchico di Zappa dall’altro.


Ora, è il contrario. I giornalisti “d’opposizione” s’esprimono garbatamente in un linguaggio rispettoso, i politici spesso rispondono con rutti e oscenità.

Questo capovolgimento spaesante è avvenuto su tutti i livelli della comunicazione di massa.

Sui siti di “Libero” o de “Il Giornale” (testate che dovrebbero rappresentare i “moderati”, quelli di “Dio, Patria e Famiglia”)
non è raro trovare, con la scusa del gossip e dell’attualità, link a video porno.
  
Dobbiamo tornare a Pasolini, e alle motivazioni, dolorose eppure illuminanti, che lo condussero alla sua famosa abiura della “Trilogia della Vita”. Lui che aveva inteso mostrare il sesso come momento di gioia popolare, per sottrarlo alle incipienti dinamiche di mercificazione e oggettificazione consumistica; lui che voleva restituirlo alla sua dimensione di liberazione spontanea, come “ultimo baluardo della realtà”, unica forma d’opposizione sociale (secondo il sottoscritto un abbaglio di derivazione freudiana), prendendo a testimonianza i classici della letteratura di tutto il mondo … si ritrovò le sale piene di ebeti che volevano vedere tette e culi ("Mi pento, ripeteva, di aver nutrito “l’ansia conformistica di essere sessualmente liberi che trasforma i giovani in miseri erotomani nevrotici, eternamente insoddisfatti (..) e perciò infelici.").
 Questo cocente disincanto fu l’anticamera straziante di “Salò-le centoventi giornate di Sodoma”, primo capitolo della tragicamente incompiuta “Trilogia della Morte”.
Un crudele viatico, quasi un’oscura evocazione maligna della sua stessa morte.

L’intero ventennio berlusconiano (cioè l’applicazione clownesca e insieme scientifica del piano eversivo della P2), in tutti i suoi più grotteschi aspetti (i fascisti, travestiti, al potere, l’addormentamento delle coscienze, le orge a Palazzo Grazioli, l’inebetimento consumistico delle masse direttamente proporzionale al progressivo impoverimento etc…) appare proprio la materializzazione (e)scatologica degli incubi pasoliniani, divenuti da profezia allucinata a cronaca quotidiana, ormai incapace di destare alcun scandalo.

Non possiamo non citare le parole scolpite nella pietra con cui il grande autore friulano analizza le cause della sua abiura: 


“Primo: la lotta progressista per la democratizzazione espressiva e per la liberalizzazione sessuale è stata brutalmente superata e vanificata dalla decisione del potere consumistico di concedere una vasta (quanto falsa) tolleranza.
Secondo: anche la "realtà" dei corpi innocenti è stata violata, manipolata, manomessa dal potere consumistico: anzi, tale violenza sui corpi è diventato il dato più macroscopico della nuova epoca umana.
Terzo: le vite sessuali private (come la mia) hanno subito il trauma sia della falsa tolleranza che della degradazione corporea, e ciò che nelle fantasie sessuali era dolore e gioia, è divenuto suicida delusione, informe accidia.”
(dall' "Abiura dalla Trilogia della vita", Corriere della Sera, 9 novembre 1975)

Queste non sono solo speculazioni intellettuali.
Sono profezie ardenti.
Basta accendere la tv e verificare.

Cito le prime cose che mi vengono in mente, in ordine sparso: Ozzy Osbourne, idolo del metal satanico degli anni’70, protagonista di un reality show sulla sua famiglia su MTV; Aldo Busi, scrittore- icona della trasgressione omosessuale, protagonista de “L’Isola dei Famosi” e di “Amici” (en passant non resisto a confidarvi una delle mie più antiche e ferme convinzioni: Maria De Filippi è il Demonio); servizi dei Tg sui dei calendari sexy, con ampi estratti dai backstage; sex-tape con ex- amanti ormai divenuti tappa obbligatoria nella carriera di una starlette per venir accolti nel club delle celebrità etc (una volta si frequentavano le scuole di dizione)…

Quando tutto è concesso, non c’è più nulla da trasgredire.

maicol&mirco riesce a mettere in tilt questo collaudatissimo assioma  del Sistema, tramite tre armi fondamentali:
una grande sapienza narrativa, un uso magistrale dei tempi comici e, soprattutto, una irriducibile sincerità.

La sapienza narrativa è tale da sintetizzare potenti microstorie nell’arco violento e svanente di un dialogo
Gli autori fanno un’operazione raffinatissima, un impiego magnificamente distruttivo della dialettica.
Non per nominare invano un sublime sapiente, potremmo dire che negli “scarabocchi” agisce una sorta di maieutica classica all’incontrario.
Se il filosofo ateniese attraverso la tecnica dialogica e l’uso dell’ironia estraeva dai suoi interlocutori scintille della Verità,  maicol&mirco , nello scambio di poche battute,  estrae dai suoi personaggi esplosioni di merda, abissi di veleno, incendi di rabbia cieca.

Per ciò che concerne il possesso de tempi comici, beh, siamo ai livelli di Totò.
Totò che si prende un caffè con Ciorian nella Loggia Nera di “Twin Peaks”.

Sulla copertina andrebbe posta un'etichetta come su sigarette e medicinali: "può provocare diuresi acute e improvvise. Avvertenze: non leggetelo mai sui mezzi pubblici, o in un ascensore affollato...men che mai provate anche solo a sfogliarlo durante un appuntamento galante.
Oppure premunitevi.

Qualcuno potrebbe a questo punto dire: “vabbè, abbiamo capito: non è un’opera di goliardia, non è mera provocazione, c’è un pensiero dietro, una riflessione etc.”…ma siccome l’essere umano ha bisogno, per evitare di smarrirsi nel labirinto idiota della propria mente, di creare delle etichette delle definizioni, come delle stampelle per  i propri pensieri paralitici, la stessa persona potrebbe aggiungere:” però, vedi, dice le parolacce, bestemmia..dunque…è punk, no?!”…

NO!
  
L’autore sfugge ai gangli banalizzanti della parolaccia e della bestemmia,(pur utilizzandole con copiosa indulgenza), al clichè divenuti mainstream di cui sopra,  per un semplice motivo.
Perché è autentico.
Non è in posa.
Veramente ammazzerebbe tutti.
La furia cieca, davvero (una volta tanto!) iconoclasta degli "scarabocchi" non è la trasgressioncina formale del fumettista che gioca “a chi è più matto”.
Nasce, evidentemente, da un dolore di vivere vero, reale, percepito nelle carni, distillato poi da un’intelligenza spietata, e rivomitato, con la calma del serial killer, sullo sfondo rosso sangue  teatro d’ogni scarabocchio.

E’ grazie a questa rabbia ferina, unita a un magistero comico da far invidia ad Achille Campanile, che maicol&mirco riesce a scardinare, insieme con destrezza e violenza deflagrante, le manette che il sistema ha imposto al linguaggio protestatario ( imposte come detto paradossalmente nel liberarlo, e quindi svuotandolo di ogni significato e potere).

I personaggi vengono calati in un eterno presente infernale, in cui la materia stessa dello spazio è fatta del sangue dei morti ammazzati, è il tempo è paralizzato nel momento della tremenda agnizione che la vita non ha senso. La morte non è liberazione ma il beffardo compimento di un’esistenza inutile e dolorosa.

In questo, “Gli scarabocchi” sono delle meditazioni diaboliche, quasi una  forma, straniante e blasfema, di koan Zen, degli Haiku dalla Gehenna.
Il non-sense della comicità nerissima che pervade “Gli scarabocchi” è in realtà il non-senso della vita. O meglio, l’analisi spietatamente logica dell’incapacità di trovarvi un senso.
Lo sputo dell'intelligenza incattivita sul volto ipocrita d'un'esistenza incomprensibile.
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Il BLAM che campeggia in copertina non è il fragore della pistola che scandisce letale l'esito dei dialoghi, ma è l'effetto improvviso e devastante della battuta deflagrante e definitiva che chiude non solo ogni vignetta, ma anche ogni dialogo, ogni speranza, ogni discorso possibile.
  
Un semplice esempio:
la tavola in cui il personaggio dice: “mettere al mondo un bambino vuol dire condannarlo a morte certa” è la più bella e felice sintesi dell’esistenzialismo che esista.

Ora, chi scrive, non ha alcuna stima del nichilismo d’accatto, dell’esistenzialismo snob, degli intellettualismi compiaciuti, delle disperazioni artificiali.
“L’inferno sono gli altri”, l’ho sempre trovata una frase d’una superficialità aberrante, della profondità filosofica pari al filo di bava colante dalla bocca di un cretino.
Il fallimento della mente, la morte della bellezza.
Insomma, non sopporto Jean-Paul Sartre.
Non voglio nemmeno perdere tempo a spiegarvi perché, preferisco delegare a più convincenti argomentazioni.
Vorrei infatti arricchire il corredo d’omaggi a numi tutelari, linkando direttamente alle parole di Louis-Ferdinand Cèline, uno dei più grandi scrittori degli ultimi trecento anni, che definisce magnificamente il soggetto in questione:


Ma torniamo ai nostri Superamici.

Se , come diceva Aristotele, il comico nasce dall’assurdo, ebbene, maicol&mirco coglie questo assurdo (o meglio, ne è colto, catturato e torturato), lo denuda, lo viviseziona, lo analizza, e lo espone  macellato sul tavolo rosso sangue delle sue pagine mortali.
L’irruzione dell’Assurdo, nell’illusoria calma piatta dell’esistenza, è il tema del “Caligola” di Albert Camus (lui sì un esistenzialista onesto e coraggioso, non uno sterile intellettuale in posa come “Tartre”);
“Caligola” che non a caso fu opera prima di quel genio irripetibile di Carmelo Bene (la cui lectio i lettori più attenti e consapevoli avranno già percepito affiorare qua e là come un basso continuo della riflessione).
Aprire a questo punto un discorso su Bene mi obbligherebbe a scrivere un trattato di pagine 724.
Mi limiterò a ricordare quando Bene disse che l’unica cosa che avrebbe salvato dell’Italia erano Ciprì e Maresco.
Forse gli unici antecedenti possibili degli “scarabocchi”.

Ed a l’unico antecedente possibile di Bene, nel teatro come nella riflessione filosofica su di esso,  mi hanno fatto pensare maicol&mirco: a Antonin Artaud.

Leggiamo le sue riflessioni sul “Teatro della Crudeltà”:

“La crudeltà è prima di tutto lucida, è una sorta di rigido controllo, di sottomissione alla necessità. Non si ha crudeltà senza coscienza, senza una sorta di coscienza applicata. È la coscienza a conferire all'esercizio di qualsiasi atto della vita un colore di sangue, una nota crudele, perchè è chiaro che la vita è sempre la morte di qualcuno.” (Parigi 13 settembre 1932, Antonin Artaud)
Sembra quasi la descrizione del libricino in oggetto.
Mi dareste davvero del folle se  affermassi: “Gli scarabocchi” sono il Teatro della Crudeltà che Artaud intuì, ma non seppe mai mettere in scena?
Al netto delle esagerazioni, degli entusiasmi, delle cosiddette provocazioni, rimane un dato.
Guardandoci attorno, nel limbo oppiaceo deserto d’alcuna originalità che ci avvolge, pare proprio che la risata violenta, incontenibile, travolgente che scatena la lettura de “Gli scarabocchi di maicol&mirco” sia rimasta l’unica catarsi possibile.

Ma non preoccupatevi, io amo i lieto fine.
  
Vorrei, infatti, concludere spingendo la mia enfasi oltre i limiti del pudore.
La protesta furiosa contro il maicol&mirco mi ricorda uno dei più grandi poeti nostrani. Ebbene si, lo dico: Giacomo Leopardi.
Prima di chiamare la neuro, aspettate. Ragioniamo insieme:
Se è vero che:

“Nobil natura è quella
Che a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte”
(“La Ginestra”, 111-116)

beh, credo che maicol&mirco possa essere considerato un campione dell’aristocrazia morale.
Del resto, è vero che Leopardi non ha mai disegnato scarabocchi che bestemmiano…ma provate a leggere “L’inno ad Arimane”, con consapevole riflessione.
Tutti i “cattivi” che conoscete, da Charles BukowskiBret Easton Ellis , da quel patetico clown  di Marylin Manson a qualsiasi imbecille proto, pre o post punk, vi appariranno (oltre che infinitamente inferiori a livello artistico e morale, come pidocchi davanti a una statua della Dea Iside) per quello che sono: innocui come dei chierichetti impacciati.
E, soprattutto, per “Gli scarabocchi di maicol&mirco” vale il celebre paradosso di De Sanctis su Leopardi: “produce l'effetto contrario a quello che si propone”.
Nel momento in cui ti mostra che la vita è un’insensata, crudele fregatura, te la fa amare con tutta la potenza di una risata squassante e fiera, la colonna sonora del trionfo dell’intelligenza.