giovedì 4 dicembre 2014

20.000 Days on Earth - La trasfigurante confessione di Nick Cave





La prima riflessione che ispira la visione di 20.000 Days on Earth è che Nick Cave sia, in primo luogo, un magnifico scrittore.
Non una grande rivelazione, si obietterà, considerato che il magistero letterario del Nostro erompe in canzoni, poesie, romanzi, perfino un delirante fumetto, da più di 30 anni, temprando alla fiamma dello stile alto le intemperanze esplosive degli anni giovanili.
Amplieremo dunque la riflessione: la testimonianza, fondamentale, del film è quella di un artista autentico. L'indagine dell'ispirazione artistica, la ricerca disperante della fonte della creatività, di quell'oceano tempestoso, capricciosamente crudele e sovranamente misericordioso nel concedere i suoi doni divini, ecco: è questo l'argomento del documento ardente che abbiamo davanti agli occhi.
Non la vita dell'uomo, non la celebrazione dell'artista Nick Cave.
Il racconto dell'uomo e artista nudo davanti allo specchio, come nelle scene iniziali, pronto ad affrontare l'ennesima spietata introspezione, ad affondare lo sguardo nel proprio fango interiore, per poi estrarne l'oro incandescente della poesia.
E rimanere, come nei versi celebri del suo amato maestro Leonard Cohen, "al cospetto del Signore del Canto con nulla sulla lingua se non: Alleluja!".

Complice dell'incanto è certo la voce di Cave, così profonda, arroventata da mille folli esperienze da rendersi una fornace di sapienza pessimista: una voce che renderebbe tragica e intensa perfino la lettura delle istruzioni di un lassativo.


Chi cercherà in questo docudrama il racconto biografico, cronologico dell'idolo punk divenuto uno dei più raffinati cantautori contemporanei, rimarrà deluso.
Il film è una fotografia lucida del "qui ed ora".
Il fauno che si aggirava spiritato sul set del video Nick the Stripper con una bestemmia (in italiano!) vergata come uno sfregio sul petto, ora è un distinto, serissimo signore australiano, la cui eleganza costante a volte tradisce dei vezzi pacchiani da mafioso anni'30. Vive con l'adorata moglie e i figlioli in un angolo sereno di una città industriale inglese, lontano dal clamore londinese, dalla frenesia di Liverpool o dal vortice di nuove tendenze di Manchester.
Porge lo spettacolo dei suoi incubi con un eloquio forbito, un lessico impeccabile e prezioso, solo di rado screziato dall'accento australiano, quando, con tempi comici scientifici, spezza la melodia del monologo poetico con scintille di turpiloquio.


Non mi soffermerò sui pregi registici del film, evidenti alla visione, sulla fotografia in grado di trasfigurare, proprio come nei versi di Cave, il monotono cielo grigio di Brighton e farlo diventare visione apocalittica.
Ecco, dunque, il cuore della narrazione.
La trasfigurazione e la memoria, spesso fusi in reciproca simbiosi (trasfigurazione della memoria e memoria delle passate trasfigurazioni), sono questi i poli ossessivi della confessione di Cave.



Ripetiamo, non è un documentario su "Nick Cave", sulla sua carriera, sulla sua storia: non troverete filmati d'epoca dei Birthday Party; la travolgente passione con P.J. Harvey (nata proprio durante le riprese del conturbante video di Henry Lee); l'incontro quasi mistico a Glanstonbury con l'idolo Bob Dylan, che attraversò l'acqua che circonda la zona in zattera scendendo indistinto nella nebbia solo per dirgli "mi piace quello che fai"; l'emozione di cantare Suzanne di Cohen dal vivo, dopo aver ricevuto i complimenti di Cohen per l'indemoniata versione di Avalanche; non troverete nemmeno il formidabile trio improvvisato con Henry Rollins e Jello Biafra che cantano Deanna senza sapere le parole.




Tutto questo, Nick Cave ce lo ha già raccontato. Per essere precisi, come ogni vero artista, Cave non fa altro che raccontarsi.
Il suo inferno interiore lo ha scandagliato già in quasi venti dischi, quattro romanzi, tre sceneggiature: una costante eruzione autobiografica.
Ora ci mostra dove è giunto dopo tutto quel tremendo, documentatissimo, cammino infernale.
Siamo di fronte alla testimonianza di un autore davanti all'abisso della pagina bianca.
Il processo creativo (memoria e trasfigurazione) ci viene restituito in tutta la sua primordiale innocenza. Cave ci descrive, sfiorando l'ineffabile, il momento inafferrabile in cui la canzone, prima di essere addomesticata nella forma convenzionale, "è lei a comandare", selvaggia, sorgiva, purissima nella sua informe manifestazione dalle lande dell'inconscio.
Ne è splendido esempio la versione di Higg's Boson Blues, in studio, improvvisata, in un fecondo e commovente in fieri;  forse l'ultimo grande capolavoro della narrazione di Cave: una cavalcata delirante di immagini discordanti, lacerata tra lo scetticismo caustico e la perenne, insoddisfatta ricerca di Dio.



Il gioco, appunto, trasfigurativo, da sempre è giocato su antinomie che dilaniano l'interiorità.
Come nel folle passato alternava il consumo di droghe alla messa quotidiana, per cercare un "folle equilibrio", così la concordia oppositorum è cercata, inseguita, corteggiata in ogni manifestazione dell'autore: il culto del proprio ego (fiamma necessaria ad alimentare l'incendio della rockstar) è bilanciato dal terrore dello smarrimento della propria identità; l'evidente autocompiacimento è sfumato da una costante autoironia; gli eccessi osceni sul palco sono il rovescio di una silenziosa introversione.
Illuminante il paradosso di Cave che legge auto-ironicamente il proprio testamento, redatto da giovane non ancora famoso, in cui dispone di lasciare tutto al Nick Cave Memorial Museum, e irride  quella sua egoica fantasia giovanile...ma lo fa all'interno del proprio archivio ufficiale: ancora una volta la trasfigurazione della memoria, come realizzazione nel presente.
Cave è diventato quello che ha sempre voluto essere: qualcun altro.
Proprio in questo, ha manifestato pienamente la propria personalità.
Diventa, dunque, se stesso proprio attraverso la trasfigurazione.
Pur dichiarando l'importanza esistenziale, quasi ontologica della memoria ("la memoria è ciò che siamo", dice, la sua più grande paura è smarrirla), pur essendo la narrazione fondata sul rapporto col passato, in realtà il racconto affronta il vivo divenire attuale.
Il film testimonia il presente dell'autore, la difficile maturità infestata da demoni antichi, il precario equilibrio inseguito nel "qui e ora", dopo i vent'anni di delirio infernale che ha riversato in una discografia straordinaria.


La perenne lotta tra Bene e Male (come nelle rappresentazione medievali) è in ogni accenno, parola, ricordo: la grazia narrativa con cui Cave ci affabula redime ogni sconcezza, come nel delizioso aneddoto punk dell'orinatore sul palco, o nel racconto degli anni schizofrenici di Berlino.
Come Chris, il vicino di casa  berlinese che aveva costruito la sua camera a guisa di un tempio natalizio, ma che luci spente diveniva un santuario d' immagini pornografiche d'antan, in maniera inversamente proporzionale Cave ci mostra il risvolto positivo della sua vita, il rovescio dell'altarino satanico eretto per vent'anni con la sua arte.



Per chi conosce i testi, con rigore filologico, appare ancora più evidente, esposto, il gioco di contrasti, composto da nunerose allusioni, richiami interni, autocitazioni e autoparodie.
Le immagini, paradossalmente sconvolgenti, di Cave che mangia la pizza guardando la tv con i figli sono accostate all'esecuzione dal vivo di Stagger Lee, forse il brano più violento e osceno del cantautore, circondato da groupies in adorazione.
Ma, per quel che ci riguarda, non  c'è contraddizione, né agiografia auto-assolutoria (come il nostro stimato amico Mauro Uzzeo, col quale condividemmo l'esperienza del grandioso concerto romano, ha lamentato): è appunto la trasfigurazione il gioco proposto. Ma, attenzione, non è banale: Cave si trasfigura in un demone, in uno stupratore, in un emissario di Satana (come disse scherzando ripensando ai Birthday Party) per poi ri-trasfigurarsi nel benevolo padre di famiglia, e così via in un circolo psichicamente vizioso e artisticamente virtuoso fino alla santità.
Un circolo di menzogne? L'autenticità è proprio nel mostrarlo.
Lo dice benissimo Blixa Bargeld, figura geniale, nella sua breve apparizione (i pensieri e i ricordi di Cave si materializzano come dialoghi con gli effettivi compagni di viaggio del passato).

Cave, come tutti i personaggi delle sue canzoni, è intimamente dostoevskijano: esplora il Male fino alla bestemmia per poi trovarci squarci accecanti di luce, che diventano commosse, impossibili preghiere atee (Into my arms, Oh Lord, As i sat sadly by her Side).



Sommamente dostoevskijano è il protagonista di Jubilee Street: la trasfigurazione, ancora, trionfale è quella dell'assassino vigliacco che uccide la prostituta perché scopre che il suo nome era nel diario della ragazza. Un Raskolnikov senza redenzione, che s'illude di averla scampata.
Da qui, la quasi demente ebbrezza che Cave simula sul palco.




Qui, ad esempio la scelta di non sottotitolare anche i testi delle canzoni fa smarrire un inside joke che pochi hanno colto: l'esibizione del brano è introdotta da uno splendido monologo che inizia "la canzone è eroica perché affronta la morte, è immortale...", e termina dicendo che un giorno la canzone, spera, gli insegnerà a "uccidere il dragone".
Bene, l'esibizione è registrata all'Opera House di Sydney.
Ora, non solo le celebri vele danno all'edificio la forma di un dragone, come a volte viene indicato dai locali. Ma per Nick Cave, osteggiato e ignorato nella sua patria per anni (l'ultimo album è stato il primo a divenire n.1 dopo una carriera di successi internazionali), nemico della sua patria fino ad essere fiero di essere definito "Australia's Nightmare" (nel senso di incubo per l'Australia), quel luogo, simbolo architettonico del suo Paese, è il dragone da uccidere.
Il tempio da profanare.
La trasfigurazione è completa: il cantante che urla "Look at me now!", celebrando la salvezza di un assassino con un coro di bambini e l'orchestra classica in uno dei luoghi simbolo della musica colta nel mondo, non sta solo rivendicando il proprio successo al pubblico di casa, una volta ostile.
Sta esponendo la propria possessione, il proprio dolore, da figliol prodigo, non pentito ma fiero di aver abbracciato la sua Ombra.
Guardatemi ora, sono una delle rockstar più  famose del mondo, sono un assassino libero,sono un uomo che soffre, sono un poeta, verrebbe da aggiungere evocando i celebri versi baudelariani, "ipocrita lettore - mio simile - fratello!".



In calce al film potrebbe esserci il più famoso dei Proverbi Infernali del nostro amato William Blake: "La Via dell' Eccesso conduce al Palazzo della Saggezza".
Un aforisma splendente, e frainteso, tratto tra il Matrimonio di Cielo e Inferno. 
Del quale matrimonio Nick Cave è il meraviglioso figlio bastardo.


                                          


Non a caso, il monologo finale (che invero può apparire artefatto se non si coglie il senso del gioco trasfigurativo) svela  le carte: il cantore dello stupro e della necrofilia, il demone incarnato, colui che è riuscito a portare su Top of the Pops un brano che aveva come messaggio "Tutta la Bellezza deve morire", si rivela portatore di una saggezza eterna, che dalla Bhagavad Gita passa per il III canto dell'Inferno di Dante (quello degli ignavi).
E come in un meraviglioso racconto di I.B. Singer, come nelle pagine più luminose di Blake, C.S. Lewis o Chesterton, l'ultima parola, che chiude la testimonianza sulla lotta interiore dell'artista con i suoi demoni, è il senso della vita: gioia.









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