lunedì 2 dicembre 2013

NICK CAVE & the Bad Seeds a Roma - il racconto del concerto


Nick Cave fotografato a Milano da Daniela Odri Mazza

Tutti i grandi cantautori, come tutti gli autori in genere, sono attraversati da una nota dominante, da un basso continuo che percorre come un costante sottotesto la loro opera, riaffiorando in ogni variazione ed esperimento. Ad esempio, in Dylan è l'inquietudine della ricerca spirituale, in Cohen il combattimento tra mistica e sensualità, in Guccini il rimpianto delle possibilità mancate, smarrite nei gorghi del tempo.
Quella di Nick Cave è certamente l'ossessione.
Ossessione che si esprime nella ripetizione stessa dei ritornelli dei suoi brani più classici: l'inno amorale dei "natural born killers" ante litteram "Deanna", l'ineluttabile arresa alla possessione di eros/thanatos in "Do you love me?"
Ossessione che si declina tentacolare, già nei brani menzionati, sui temi cardine della torturata vicenda umana: l'amore e la religione.
Nel primo caso, si pensi alla dinamica speculare delle due grandi canzoni d'amore (non a caso entrambe "murder ballad" dall'ispirazione popolare), le due incursioni incendiarie nel mainstream: i duetti con P.J.Harvey e Kylie Minogue. L'archetipo è fortissimo, scolpito dal "Cantico dei Cantici": "Amore è forte come la Morte". Due racconti di passione erotica che divengono furia omicida.



Il primo ("Henry Lee"), conturbante gioco di seduzione e distruzione fra le due icone "alternative" della canzone d'autore; il secondo ("Where the wild roses grow") geniale inversione dell'icona sexy scioccherella nella mortuaria bellezza preraffaellita (omaggiato non a caso da Dylan nella paradossale leggerezza "Bye and Bye").



Nel secondo caso, l'ossessione religiosa, il percorso meriterebbe un saggio a parte, nella sua stordente ricchezza antinomica: dalle bestemmie scritte sul petto (in italiano!) ai tempi dei The Birthday Party alla dialettica disperante di "As i sat sadly by her side" (il suo capolavoro al quale dedicheremo presto una riflessione a parte), dalla commossa confessione di "Into my arms" all'aperta parodia di "God is in the House", dalla contrapposizione frontale col comandamento evangelico di "Dig, Lazarus, Dig!" all'apertura verso il divino meraviglioso della recente "Mermaids". Il percorso spirituale  in costante divenire, tra sfregio blasfemo e raccoglimento interiore, è ben raccontato in questa introduzione al Vangelo di Marco del Nostro, una testimonianza unica e illuminante (la trovate QUI)



Ossessione che ritorna in tutti i grandi brani in cui la personalità autoriale di Cave si sia espressa con la potente indipendenza del vero maestro.
Citeremo ancora solo due esempi: "The Mercy Seat", il delirio degli ultimi istanti del condannato a morte, vero capolavoro nella sua semplicità quasi da cantilena infantile, non  a caso omaggiato dal maestro Cash nella sua antologia del canto americano contemporaneo;


e soprattutto "Oh, Lord", una delle vette dell'abilità lirica di Cave di calarsi nei panni del posseduto, del peccatore, dell'omicida, dell'indemoniato. Un vertice di parossismo, una catabasi senza redenzione, un crescendo intollerabile di autodistruzione: raramente l'arte musicale moderna è riuscita a rendere con tale lacerante icasticità l'assordante deflagrazione dell' inferno interiore, il cortocircuito suicida tra la repellente normalità e l'irriducibile follìa dell'individuo.



Se vuoi leggere il racconto del concerto prosegui



Cave e la sua band si presentano circa un'ora dopo l'inizio del concerto.
Elegantissimo, dinoccolato, serio eppure portatore sano di una comicità liberatoria che da un momento all'altro può esplodere. L'Auditorium è stracolmo.
La prima considerazione: "Ah, siete tutti seduti..." .
Inizia "We No Who U R", ed è subito incanto.
Esecuzione impeccabile, magia poetica, il superamento quasi mantrico del perdono, in pochi versi intonati con l'intensità ontologica del cantautore: il pubblico è già Uno.
Secondo brano, da copione, il recente neo-classico, "Jubilee Street".
E qui, il colpo di teatro, assieme spontaneo e abilissimo.
Qualche mese fa, in una delle prime esibizioni live, con un tempo comico degno del miglior Buster Keaton, non appena urlato l'ultimo verso "Just look at me now!", Cave si era spettacolarmente addobbato, come si dice nella Capitale (ecco QUI). Stavolta, all'improvviso si getta in mezzo al pubblico, che all'unisono salta dalle comode poltrone, e diviene, come in una poesia di Saba, "unito abbraccio" nel portare in trionfo il proprio poeta. Interessante notare come i versi che Cave ripete nel microfono come slogan da sacerdote rock, interpretandoli magnificamene nonostante la tastazione ripetuta di 3mila sconosciuti, sono ben altro che inviti ad una festa. Il brano racconta la trasfigurazione di un uomo schiacciato dai sensi di colpa, l'omicida di una prostituta che realizza che nessuno lo scoprirà, un personaggio dostoevskiano, che celebra il suo delitto senza castigo.
Appunto, il vertice rock è la liberazione dall'ossessione morale.
Una scena (Cave che canta portato in trionfo dalla folla) che si ripeterà più volte durante il concerto, a sancire la rottura della separazione tra palco e platea, a rendere ancora più forte, tangibile, ma proprio per questo ancora più sacra l'empatia tra cantore e ascoltatore in deliquio.
Quando non si dimena tarantolato sul palco come un Jerry Lewis posseduto da demoni kafkiani, Cave canta con le sole  punte dei piedi appoggiate sul palco, appoggiandosi alle braccia tese adoranti dei fan, in particolare di improvvisate semi-groupies che per tutto il tempo gli accarezzano le gambe come ad un lascivo idolo pagano.
Eppure, nonostante la concitazione erotica che sprigiona (molti hanno evocato Morrison per la presenza carismatica sul palco), Cave rimane soprattutto un autore, serio, un poeta drammatico, capace di stemperare la cupezza dei suoi testi col dono di una grande ironia.
Ironia che emerge come un balsamo benefico quando un'attempata signora in tailleur rotola letteralmente sul palco per lanciarsi in un improbabile duetto ballerino. Cave la contempla perplesso, ne prende atto e accetta benevolmente il gioco. Si concede come un sogno da cameretta adolescenziale, dedicando canzoni d'amore a fan impazzite, abbracciandole e baciandole.
Artisticamente parlando, le esecuzioni sono potenti, impeccabili, Cave gioca con le accelerazioni  e gli improvvisi stacchi, punta sul crescendo travolgente, la band accompagna la sua performance da istrione dionisiaco con una disciplina strumentale che lascia poco all'improvvisazione.
C'è evidentemente del metodo nella sua follìa.
La scaletta alterna classici del repertorio antico ("The Weeping Song", "Tupelo", Red Right Hand") ai brani migliori del nuovo, splendido disco.
L'apice dell'attorialità Cave lo raggiunge in "Stagger Lee", vertice e insieme dileggio dello swag, che da anni il cantautore australiano incarna nel suo incedere barcollante, corrazza autoironica per proteggere l'intatta bellezza dei suoi versi incandescenti.
Il possesso del repertorio, il magnetismo instaurato col pubblico è tale che il tempo pare sospeso in ogni gesto, ogni nota si dilata in un momento di estasi collettiva.
Quando, con tempismo da professionista della punchline, dedica lo sberleffo anticonservatore "God is in the House" all'appena decaduto Silvio, pochi colgono la sottigliezza.
Il finto finale di "Push the Sky Away" (tornerà sul palco per alcuni bis dopo un'ovazione in stile Scala di Milano), nel suo andamento quasi da litania irreligiosa, cattura l'intera folla in un rarefatto raccoglimento.
Il demone del blues più nero raggiunge una quiete liturgica, grazie al prodigio della poesia autentica.

Più della finale "We Real Cool", cantata abbracciata a uno spaesato ragazzino salito sul palco in preda all'eccitazione infantile, che in realtà aveva contagiato il pubblico tutto, l'apice del concerto per il sottoscritto è stata "Higg's Boson Blues": una cavalcata surreale e allucinatoria, una "Desolation Row" contemporanea, ardente sintesi dei temi di una intera carriera, che scatena i demoni del blues di Robert Johnson in un delirio profetico e rivelatore.
Un concerto indimenticabile.
Detto da uno che due settimane aveva visto il miglior concerto di Dylan degli ultimi lustri.
Ne parleremo presto.

4 commenti:

  1. Splendida recensione, Adriano! Non sono riuscita a prendere per tempo il biglietto del concerto e non finirò mai di pentirmene...
    Happy birthday al blog, che seguo, con il buonsenso di risparmiarti, in genere, i miei commenti! :-)

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  2. ammazza che recensione!
    ce ne fossero di più di recensioni così sentite e dettagliate...
    Complimenti!

    Simone

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