Ho passato uno dei pomeriggi più divertiti ed eccitanti dei miei sedici anni tra copisterie, cartolerie, scotch e righelli per confezionarmi il poster dei Velvet Undeground (irreperibile allora) che avrebbe campeggiato per anni nella mia cameretta, ricavandolo dalla copertina di una monografia ormai introvabile prestatami dal mio amico e mentore Daniele Capuano.
(Ah, Daniè, se non trovi il libro, ce l'ho ancora io, tranquillo te lo riporto, eh).
Per tutte le superiori sono stato canzonato dai miei amici (soprattutto dal formidabile imitatore Lorenzo Pausillo) per la mia erre moscia, che risultava particolarmente comica quando mi chiedevano:
-"Cosa ascolti in cuffia? "
- "Lùvvìd".
Pur essendo di base contrario ad indossare magliette di gruppi o cantanti, per un decennio ho fatto eccezione per la leggendaria banana del pur disprezzato Warhol, alternativamente sfoggiata su borse di pelle o T-Shirt. Ripeto: ho indossato per anni un'immagine di un artista che non mi piace.
Una delle emozioni più perfette della mia adolescenza fu l'attacco del riff di "Sweet Jane" al primo concerto in cui lo vidi dal vivo, gratis, a Enzimi nel '98 (esperienza analoga a quella raccontata da Paolo Rosati nel suo commosso ricordo che trovate QUI)
La sera del mio primo appuntamento con mia moglie, le feci ascoltare il primo disco dei Velvet Underground, quello appunto talmente importante da farmi usare il corpo come vessillo della sua copertina.
Credo che lei abbia apprezzato, considerando che al nostro matrimonio abbiamo cantato per gli invitati "I'm sticking with you".
Ritengo, dunque, di poter intonare la mia grata prece in memoriam, senza essere sfiorato dai pur sacrosanti strali di Zerocalcare, illustrati in una riflessione ormai già classica .
E' difficile condensare in un post ricordi, tributi, bilanci, commenti riguardo uno dei pochi argomenti sui quali mi sentirei davvero di poter scrivere un libro di getto.
Ma non preoccupatevi, sarò breve.
Prendete questa mia eccezionale stringatezza come il mio personale minuto di silenzio.
Sull'importanza storica di Lou Reed come cantautore credo sia quasi esercizio superfluo soffermarsi. Sulle orme prometeiche del titano Dylan, è stato il primo a scardinare vincoli, capovolgere etichette, scandagliare l'inesplorato, scatenare l'irruzione del torbido, del vizio, dell'inferno psicologico nella grammatica fino ad allora comunque corretta (consolatoria, spensierata o veicolante messaggi positivi) del rock 'n roll.
I suoi testi erano ben più eversivi dei fremiti orgasmici per le masse di Jagger, più rivelatori dei viaggi nei paradisi artificiali in cui si smarrirono Hendrix e Morrison, più urtanti del ghigno beffardo e geniale di Zappa.
Del glorioso Albero della Vita del cantautorato rock, che affonda le radici nei semi liberatori del Grande Padre Dylan, Reed ha incarnato sicuramente il ramo più profondamente, sinceramente marcio, corrotto, scuro, maledetto. Ma senza i compiacimenti degli indegni epigoni, né i vantaggi commerciali delle mode falsamente ribelli.
E' sceso nel suo inferno col tormento del poeta e l'onestà del ricercatore.
Ecco un breve doveroso elenco dei primati d'irregolarità del Nostro: il primo non solo a scrivere un brano sulla droga, ma addirittura una canzone d'amore per essa (ovviamente, l'immensa "Heroin"); il primo a cogliere la perfetta centratura tra significato e significante in un brano di musica popolare, affrontando temi scabrosi con alta dignità letteraria ("Venus in Furs", supremo affresco dell'ossessione, immortale ritratto di quello che lo Yoga descrive come Tamo Guna);
il primo a scrivere manifesti, spesso su commissione del mecenate Andy, su perversioni e deviazioni sessuali (non solo il citato capolavoro masochiano, ma anche "Sister Ray", "Some Kinda of Love" e naturalmente "Vicious"); il primo a scrivere un inno dell'orgoglio gay, immortalando il concetto di outing nel ritornello ("Make Up", una dolcissima canzone di non-amore); il primo a sputare sul proprio mito e ad affermare furiosamente la sua indipendenza artistica, in maniera anche più oltraggiosa del solito insuperabile precedente dylaniano di "SelfPortrait" (annullando il trionfo commerciale di "Transformer" col disco più depressivo e sgradevole della storia, il capolavoro nero "Berlin");
Reed, come un Baudelaire moderno e popolare, ha tratto oro dal fango di New York.
In special modo, l'operazione alchemica (poi esplicitata nel grande disco della maturità, "Magic and Loss") è avvenuta con la Factory: dalla confusione generazionale di quattro sbandati è sorta la poetica suggestione del primo album, dallo smarrimento d'identità dei transgender nasce (prima ancora dell'èpos di "Walk on the Walk Side") la commozione di "Candy says".
E tralasciamo per tenere fiducia alla promessa iniziale, gli infiniti aneddoti dell' agiografia luciferina: le orge della Factory; il rapporto con la sfinge Nico (foriero di una delle canzoni d'amore più belle di tutti i tempi, "I'll be your mirror"); le sessioni in overdose di "Loaded" (Doug Youle oltre a sostituirlo nel disco dovette fingere d'essere lui nei concerti, episodio che ispirerà a Bowie la creazione dell'alter-ego Ziggy); le teatrali iniezioni di eroina sul palco; i baci in bocca con l'appena citato...
Appunto, Bowie.
Impossibile non ricordare come senza Reed non avremmo Bowie.
E' rinomato che il, non ancora, Duca Bianco farà di tutto per sdebitarsi col maestro.
Dalla cover di "White Light/White Heat", al tributo spettacolare e indimenticabile di "Queen Bitch", degna papabile al riconoscimento di pezzo più "cool" della storia del rock.
Ma, soprattutto, la resurrezione sugli altari di "Transformer", in cui gli ultimi, genialmente lunari brani inediti dell'era Velvet tornavano alla luce ritrasformati, appunto, dal sapiente gusto glam di un Bowie all'apice dei poteri creativi.
Un'influenza che non mi risulta nessuno abbia notato (a mia modesta conoscenza), è l'omaggio/citazione a Reed nel testo, soprattutto nella terza strofa, di "Heroes" (quella che nella versione radiofonica diventa la prima). L'inizio ricorda, per me consapevolmente, la struttura e l'immaginario di "Heroin", sempre nella terza strofa (L' "I" narrante ripetuto tremante, "I wish i'd sail the darkened seas" diventa "I wish you could swim"), in cui l'oceano diventa confine baudelaireiano di infinito e liberazione. Coincidenze: il titolo etimologicamente affine ("Heroes", "Heroin"), e la terza strofa come la più debole del testo.
Reed aveva utilizzato l'io narrante, atto fondativo della lirica di ogni tempo, come grimaldello della propria introspezione, quasi alla Rimbaud, testimoniando la discesa personale all'inferno, componendo un agghiacciante e parodistico inno all'auto-distruzione, capovolgendo il racconto iniziatico del Dylan di "A hard rain's a-gonna fall" nella descrizione della propria agonia.
Bowie opera, attraverso il filtro elegante dell'ironia, ancora una volta una resurrezione, trasformando l'energia negativa dell'autodistruzione individuale nel canto di una speranza collettiva.
Dialoghi, forse inconsci, tra geni fratelli.
Un ultimo cenno sui testi e sul significato dell'opera.
Lungi dalle etichette di "maledetto" e "tossico", il Reed poeta aspirava a diventare il Kurt Weil di New York, a descrivere la vita quotidiana della città che amava fino all'identificazione.
Se ascoltiamo "Sweet Jane", al di là del riff immortale, abbiamo davanti una versione sgangherata e newyorchese di "Obla-dì Obla-dà": il ritratto della fatica quotidiana verso la felicità umana, verso la normalità, attraverso il lavoro (sottolineava sempre dal vivo i versi "like we, we have to work", variante dell'originale "just watch me now", con significato opposto all'egocentrico uso che ne farà Bowie). L'icona della trasgressione, dell'oltraggio, del vizio, aveva il desiderio di diventare "someone good" ("Perfect Day"), come Dylan che ora dice scandalosamente nell'autobiografia di aver solo desiderato "una casetta con la palizzata bianca".
Che, poi, il sogno reediano di raccontare il quotidiano passi attraverso la potenza catartica dei quattro accordi del rock'n roll (il cui potere è celebrato nell'omonima canzone dei Velvet), complica e moltiplica gli equivoci, ma forse la maturità compiuta del Reed autore è nelle ballad metropolitane, nei versi parlati, sussurrati dalla sua voce profonda e ricca di ferite di sapienza, di "Dirty Boulevard" e "Romeo had Juliet".
Dei migliaia di versi che ho memorizzato negli anni, due mi vengono subito in mente per dare la cifra della sua abilità poetica: "I've got horrors in my looney tunes", all'inizio di "Walk and talk it", e "Instead of a dentured ocelot on a leash/i'd rather be your kite" da "Andy's chest" (la mia preferita).
Nel primo c'è un correlativo oggettivo potentissimo della sua stessa carriera: l'irruzione dell'orrore nella falsa quotidianità consolatoria, il risveglio alla realtà più spaventosa dell'incubo; nel secondo una splendida confessione poetica: invece di essere il bizzarro emblema della trasgressione kitsch, dissolversi nella libertà giocosa e infantile.
Parliamo di una persona che negli ultimi anni pratica Tai-Chi e invitava gli italiani a scoprire le veggenti guaritrici calabresi.
Che il suo spirito, dopo tanta tormentata ricerca, trovi la pace.
P.S.
Lo so, è comunque lungo.Ma in confronto a quello che vorrei dire, beh, è una poesia del primo Ungaretti.
Lo so, avresti voluto parlare di Set the Twilight Reeling, o di Rock'n'roll Animal, financo Rock'n'Roll Heart con l'incredibile (pensando a Berlin, per esempio) I believe in Love. E di come lui sentisse che la sua opera, esperita cronologicamente, rappresentasse la sua Grande Novella Americana.
RispondiEliminaStanotte riascoltavo the Raven e mi rendevo conto di come l'avessi sottovalutato all'epoca, di come non avessi gli strumenti, per ignoranza o momento storico, per capirlo. Per capire la cover di Perfect Day cantata da Antony che oggi invece mi attraversa tagliandomi come un panetto di burro. Stai a vedere che un giorno mi piacerà anche l'ultimo affronto del nostro coi cosi metallici.
Però ora torno all'ascolto, efficace memento del fatto che, finché avrò orecchie, per me Lou vivrà.
Esiste per questo una pregevole integrazione;) http://andreababich.blogspot.it/2011/07/la-cassettina-di-lou-reed.html
RispondiEliminaRicevo questo bellissimo ricordo del menzionato Daniele Capuano, che a Reed mi iniziò:"Come accompagnare l’ombra di Lewis Allen Reed nel suo transito all’Underworld? Dopo un album d’esordio come The VU and Nico il destino di un musicista dotato ma umanamente ordinario sarebbe stato la morte rituale (alla rituale età di ventisette anni, prima che s’affacciasse, opalescente, l’alba dei ’70) o quello degli altri tre-quattro membri della band, una decorosa sopravvivenza o un ancor più decoroso oblio. Invece il mercurio ebraico nelle vene del drop out di Syracuse (ho scoperto tardi che era un figlio della Judentum profuga in America, ma in fondo l’ho sempre saputo) lo ha salvato, facendolo risorgere una decina di volte, con l’umorismo nero-oro delle palingenesi giudaiche ben diffuso su tutto il suo curriculum vitae – anche se non vistoso nei singoli passi e passaggi di una vita ben spesa. Direi due parole su quell’album: un miracolo di connivenza tra il Daimon e le Circostanze. Considerato da una certa prospettiva, è un LP pretenzioso e intossicante come la Factory di Warhol, un freak show come una galleria di foto di Diane Arbus, ma agglutinate insieme da un talento raro, da una visione d’insieme così geniale da sembrare casuale. Ciò che resta nella memoria (non proprio il dolce della visione dantesca: un sapore amaro, a tratti dissolvente, a tratti corroborante) è la sequenza micidiale delle canzoni – e lo stupore wittgensteiniano per il mero fatto che possano stare insieme, e comporre l’album più inesorabilmente compatto della storia del rock. Come ogni esordio geniale, è anche un epitaffio, un canto funebre – e le sue canzoni più durevoli sono proprio quelle più cupe e tanatiche. Del Lou Reed post-Velvet, che dire? Il Lou bowiezzato di Transformer inaugura gli androgini anni ‘70 con un brio che si tiene quasi spigolosamente lontano dal glam e dal punk. Sono avanzi della dispensa velvettiana cucinati dal migliore chef della storia del rock, quel David Bowie che ha saputo nuotare nel mare acquariano della controcultura, apertosi ai naviganti dopo il pantano di Woodstock, con molta più grazia dell’ebreo newyorkese inquieto e tutto sommato molto umile. A trent’anni, oggi come allora, ma tanto più allora, un musicista rock era in piena midlife crisis, come Dante: e lui ne uscì nel migliore dei modi – non uscendone mai. Berlin fa emergere di nuovo il rintocco funebre dei Velvet incantati e irritati da Nico, la cupezza immortale di All Tomorrow’s Parties – ma i Velvet appartengono alla storia della musica tout court, il Lou di Berlin è (solo) un rocker geniale. Così come il Lou di Coney Island Baby è un rocker malinconico, il Lou di Metal Machine Music uno sperimentatore newyorkese quasi infantile (e a suo modo accattivante, con una sua strampalata innocenza), il Lou degli anni ’80 un rocker maturo e generosamente scontroso, che sfiora la canonizzazione ma se ne ritrae appena un istante prima. Gli ultimi vent’anni sono stati i più commoventi: il vecchio e sofisticato artista di Manhattan in perpetuo rehab non era un pupazzo come troppi altri, aveva riconquistato una sorta di puerizia pasticciona, forse l’adolescenza che, nella declinante e orribile era eisenhoweriana, tra tentativi poetici illeggibili, intossicazioni da stanzetta universitaria, non ancora sciamanico-conviviali, elettroshock disciplinari da antico regime (cinquant’anni fa è un eone, nel Secolo Breve), non aveva mai vissuto."
RispondiEliminaHo scoperto questa pagina per caso, mentre cercavo cose su lou reed qua e là, e leggerla è stato bellissimo..malinconico e rinfrescante! E alla fine leggo Adriano Ercolani! Sei bravissimo Adriano, e grazie di questa perla. Sergio De Felice.
RispondiEliminaGrazie mille Sergio!
RispondiEliminaSpero di continuare ad interessarti, in archivio puoi trovare articoli su Bowie, Dylan e il cantautorato italiano;)
Buona Lettura!