martedì 16 aprile 2013

BERLINO ZOO STATION


                                                                          







Per quanto la vulgata nichilista contemporanea, nel suo tragico avvitarsi su se
stessa, dia come assunto ormai scontato che l’esistenza sia priva di senso (un mero
patetico sbattersi d’ impulsi freudiani fino all’ineluttabile epilogo dell’estinzione,
unica certezza), io celebro ancora a testa alta lo stupore del mistico e del fanciullo
di fronte al gioco misterioso in cui tutti, dalla nascita, ci ritroviamo attori e
testimoni.

E’ chiaro, ad un analisi razionale, fredda e oggettiva, l’esistenza appare esattamente
come magnificamente descritta da anime sublimi e menti superiori, in vette nerissime
di sapienza pessimista: “un pendolo che oscilla incessantemente fra noia e dolore”
(Schopenhauer), “ un racconto narrato da un idiota, pieno di strepito e furia e
senza significato alcuno (Shakespeare)”, “Amaro e noia... altro mai nulla; e fango
è il mondo” (Leopardi). Insomma, la nostra mente, non fa che ripeterci il mantra
dell’Ecclesiaste “vanitas vanitatum”, eternato ancora da Leopardi, in una mirabile
variazione: “l’infinita vanità del tutto”.

Questo tragico annuncio appare spietatamente confermato dalla mera constatazione
della condizione umana: sofferenza ovunque, ingiustizia trionfante, il dolore come
unico sentimento universale.

La stragrande maggioranza dell’umanità vive in condizioni di indigenza, o è vittima
d’ingiustizie, abusi, torture. La cronaca quotidiana è un intollerabile viaggio
nell’orrore per chiunque abbia un residuo seppur minimo di sensibilità ed empatia
umana. In più della metà del mondo la nascita equivale ad un violento approdo in un
inferno di schiavitù, inedia, abusi di ogni tipo.

Le ristrette oasi del mondo cosiddetto civile, evoluto, “ felice” sono prigioni per
masse forzosamente costrette ad un bivio: o costrette a un affanno continuo per
sopravvivere , strozzate in ritmi assurdamente frenetici e innaturali; o, peggio,
materialmente soddisfatte, ma schiave di illusori desideri imposti dall’alto. Miliardi
di zombie posseduti da dogmi materialisti, ipnotizzati come grottesche marionette.

Come faceva dire Pasolini a Gagarin ne il finale de “La Rabbia”, dall’alto di
una contemplazione cosmica l’umanità apparirebbe come: “miliardi di miseri
abbarbicati alla terra come disperati insetti”

I pochi ricercatori della verità, i soli per cui questo mondo è ancora in vita, albatri
baudelariani derisi dalla ciurma degli schiavi sociali, soffrono indicibilmente
la leopardiana distanza siderale tra l’infinito intuito nel loro cuore e la crudele
finitezza del reale.

Benvenuti nel Kali-Yuga: l’era della confusione, dell’errore.
Sembra proprio aver ragione il Dylan ultra pessimista degli ultimi anni: “Every
moment of existence seems like some dirty trick/ Happiness can come suddenly and
leave just as quick/ Any minute of the day the bubble could burst” (“Sugar Baby”),
“The suffering is unending/. Every nook and cranny has its tear” (“Ain’t talkin’”)

Il dolore quindi apparirebbe come l’unica forma di conoscenza, la religione un
ridicolo trucco, la scienza una continua conferma della nostra precarietà, le
ideologie delle trappole di massa.

A livello razionale, è esattamente cosi. Innegabile. Ma è solo da trecento anni che
l’uomo pensa che la mente abbia il primato tra le sua facoltà

In una splendida frase (la cui bellezza rimane intatta nonostante sia divenuta uno
slogan mocciano) Antoine de Saint Exupéry ammoniva: “non si vede bene che col
cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi”. Lungi dall’essere una frase da Bacio
Perugina, è sintesi poetica di una sapienza millenaria: il cuore è sede, per i mistici di
tutte le tradizioni, dello Spirito. L’Oceano di Verità, Consapevolezza e Beatitudine.

Con occhi aperti alla visione interiore la vita ci appare come un’avventura.
Come diceva Chesterton: “La vita è la più bella delle avventure ma solo
l'avventuriero lo scopre. “

Una Sinfonia di coincidenze rivelatrici, una mappa segreta di percorsi interiori,
un codice divino di segnali e prodigi nascosto nell’apparente grigiore della
quotidianità.

E, una volta giunti alla visione, ci dissolviamo nella stupore infantile, al cospetto di
quella che Testori cantò come “La maestà della vita”.

Ma questo prodigio, lo splendore intimo dell’esistenza, solo si rivela a chi ha
custodito il sacro stupore, in ridenti occhi bambini (l’innocenza è la forma più alta di
saggezza) capaci ancora di meraviglia, non incrostati dal velo dell’abitudine

Questo articolo non sarà dunque una recensione, ma la testimonianza di
un’illuminante sincronicità.




Non c’è nulla di più nobile che l’accordo di due visioni contrapposte su un principio
universale.
Non c’è nulla di più rivelatore che l’incontro di due forme mentis affini applicate a
temi opposti, il riconoscimento di una verità raggiunta da percorsi apparentemente
paralleli e inconciliabili.
Per questo ci commuove l’episodio di Achille e Priamo: il superamento del muro
del proprio ego, inchinato di fronte ad una verità più grande. Una manifestazione
esemplare di una legge inconscia, una pausa nel massacro senza posa, un’epifania di
bellezza nella monotonia del male.
Una luce archetipica che si rinnova ritualmente, nella stretta di mano tra capitani
rivali prima di una partita, o negli omaggi reciproci tra capi di stato in conflitto.
Anche se l’abitudine svuota il rito di significato, la luce simbolica continua a
risplendere. Come dice Dylan in modalità Blake: “The fire's gone out but the light is
never dying” (“Ain’t talkin’”).

Conosco Massimo Palma da anni, pur non frequentandolo, e lo avevo sempre stimato
come brillante mente filosofica (potete verificare QUI), ma soprattutto come persona
dalla rara gentilezza d’animo (cosa per me ben più importante).
Quando ho saputo che aveva scritto un libro su Berlino, il mio cuore è stato teatro
d’un boato d’esultanza paragonabile solo a quella d’una curva sotto alla quale è stato
appena segnato un goal al 95° contro i rivali di sempre (ogni riferimento a persone
e fatti è puramente voluto). Erano due giorni che senza alcun motivo ammorbavo
il prossimo, amici, parenti, anche passanti sull’autobus e vigili nei gabbiotti, con
un interrogativo che mi lasciava senza requie: “Bowie e Iggy Pop sono risorti a
Berlino... il disco più bello degli U2 è stato inciso a Berlino...per non parlare di tutta
la Storia pregressa, le grandi anime, i filosofi, i poeti… Ma possibile che nessuno
ha scritto una guida, un libro su Berlino come città culturale, sullo spirito della città,
sull'atmosfera che ha ispirato capolavori in tutte le arti?!!!"
Una telefonata di un amico, una notizia en passant, un incontro casuale.
Chiariamo subito, chè il mondo è pieno di stolti e maliziosi: non scrivo che Massimo
è una mente elevata e un ottimo scrittore perché è mio amico. E’ il contrario: siccome
è una mente elevata e ha scritto un libro eccellente, io mi onoro di essere suo amico.
Anche perché…ma vogliamo parlare dei titoli che escono ora in libreria?
Negli ultimi 15 anni, di fronte allo spettacolo dei libri di Susanna Tamaro messi negli
scaffali di spiritualità, accanto a Simone Weil e Teresa d’Avila, mi sono ritrovato
più volte a sussurrare agonizzando come Mistah Kurtz: “l’orrore…l’orrore”.


 E, per rimanere in tema, ogni volta che entro in una libreria e trovo all’entrata pile e pile
di libri di Fabio Volo, il Gran Nemico, con allucinato distacco chiudo gli occhi e
sogno l’odore del napalm di prima mattina (ben venga, se fosse l’odore della vittoria
dell’intelligenza sulla mediocrità).
Ma quando s’incontra un libro come “Berlino Zoo Station” ben altri automatismi
s’impongono: ci si leva il cappello come forma di rispetto, e poi lo si lancia in aria in
segno di tripudio.
Ora se, come diceva il già citato Chesterton, “la dignità dell'artista sta nel suo
dovere di tener vivo il senso di meraviglia nel mondo”, Massimo è uno scrittore
dignitosissimo.
Non è facile riconoscere il valore di un autore quando affronta temi che non
conosciamo, o che non ci hanno mai profondamente interessato. E’ difficile
apprezzarlo quando ci parla, con competenza ed entusiasmo, di cose che abbiamo
sempre osteggiato con ardore. Ma il cimento più arduo è accettare che qualcun altro
possa dire cose definitive su argomenti che si credeva di conoscere benissimo, e sui
quali ci si illudeva d’avere un punto di vista originalissimo e inedito; e più che mai
(con onesta ammirazione, tempra dei nobili, e mai con invidia, brodo esistenziale
dei mediocri) vedere come un altro possa esaurire brillantemente l’argomento , anzi,
aggiungendo pure ulteriori collegamenti ai quali non avevamo pensato.


(ad esempio sulla trilogia berlinese di Bowie qui magnificamente ritratta da Tuono Pettinato per il nostro blog)

Il libro di Massimo, avrete intuito, vince con nonchalance tutte e tre le sfide.
Coerente con quanto affermato, mi sono comprato apposta un cappello per levarmelo
di fronte a lui qualora dovessi incontrarlo (di quelli che costano poco ovviamente,
ma comunque di valore simbolico inalterato). Confesso senza imbarazzo che il mio
sogno un giorno è arrivare a scrivere un libro di questo livello sulle cose che amo e
studio alla follia (editori in ascolto mi propongo: Dylan e la Kabbalah? Carmelo Bene
e la mistica orientale? Bowie e David Lynch? Tarkovskij e l’iconostasi? Cèline e Di
Canio?
Favorite, il menu è ampio!).
Ma, insomma, di cosa parla questo libro?
“Berlino Zoo Station” è la più bella guida pensabile su una delle città più affascinanti
e ricche di cultura d’Europa. La metafora dello zoo è la grande linea guida, che lega
secoli di storia e una selva di personalità leggendarie e contrastanti , in una narrazione
frastagliatissima eppure coerente.
Massimo è b r a v i s s i m o nel disegnare la mappa delle interconnessioni culturali,
esplorata nel dettaglio dei più riposti anfratti semantici, nella brulicante realtà
dei vicoli più oscuri, scoprendo sorprendenti possibilità di dialogo, vertiginosi
accostamenti, stimoli continui all’approfondimento.
Il libro a livello di piacere intellettuale è l’equivalente del sogno proibito di un
adolescente, come perfettamente esplicitato dalla vignetta di Maicol qui riprodotta



ma è anche una sorgente di emozioni purissime. La mediazione dialettica è la
versione mentale, rovesciata, dell’armonia taoista. Un punto cruciale: ci torneremo tra
poco, armati fino ai denti.

Come un cicerone angelico, Massimo ci mostra dall’alto il grande disegno d’insieme
(dominando la storia e la topografia berlinese come gli angeli rilkiani di Wenders
fanno contemplare la città dall’alto in una celebre scena), per poi calarci nella più
cupa delle catabasi, aggrappati alle ali della sua conoscenza, nell’inferno animale dei
tossici, e nel cieco odio delle camicie brune, per poi riportarci sani e salvi sulle vette
del pensiero, avendo attraversato la commedia divina e diabolica degli infiniti volti
della città.



Affrontiamo ora i due grandi protagonisti, gli eroi morali, i punti cardinali, gli Alfa
e Omega del testo: un celeberrimo gruppo rock irlandese, un celeberrimo filosofo
tedesco.
Ora, francamente non posso definirmi un fan degli U2.
Ho amato (ero praticamente bambino) l’ingenuità guascona di Bono che sventolava
la bandiera bianca e si arrampicava sulle transenne, nel surreale incanto della cornice di
Red Rocks, in “Under a red blood sky” .


Ai tempi di “The Joshua Tree” (facevo ancora le elementari, anche se per poco)
mi rispecchiavo anima e cuore nei loro ideali impastati di cristianesimo popolare e
genuina rabbia sociale, cosi generici da diventare, tramite la semplificazione pop,
manifesti universali. Ho mandato a memoria in pochi giorni “Achtung Baby” (di
cui il libro in oggetto è il più grande monumento pensabile), e già stavo alle medie.
(“Acrobat” rimane ancora un inno disperato, l’urlo disilluso di chi non spera più di
trovare ciò che ancora non ha trovato). Soprattutto, grazie a loro, attraverso i loro
riferimenti onestamente dichiarati, ho avuto accesso al Sancta Sanctorum: Dylan,
Bowie, I Beatles del “White Album”. E come in un antico apologo buddista, la barca
che ci fa attraversare il fiume per giungere all’ambita sponda, poi non ce la portiamo
appresso nel cammino. Dal confronto con i giganti del rock, pur mantenendo grande
affetto, immediati mi sono apparsi i loro evidentissimi difetti: la faciloneria di alcune
dichiarazioni, la boria di alcune pose (in seguito stemperate da una calcolata auto-
ironia), una gigioneria spesso fuori controllo.
Artisticamente tutto ciò è riassunto dai sospiri da attempato pornodivo in difficoltà
con cui Bono, soprattutto dal vivo, deturpa dei versi bellissimi, piegando la sua voce
potente a dei vezzi da pop idol (alcuni falsetti sono da fucilazione sommaria). Per
carità, lo ringrazierò per sempre per aver scritto l’inno internazionale dei ricercatori
(“I Still Haven’t Found What i’m Looking For”).


A malincuore, devo ammettere che dobbiamo a lui la resurrezione dell’Eroe: la pubblicazione di “Oh, Mercy”. Fu Bono a recarsi in omaggio al Dylan in crisi di fine anni’80 e a fargli tirare fuori, grazie alla devozione del fan e ad alcune casse di birra, gli appunti che il Maestro depresso
aveva abbandonato nei cassetti.
Tenendo conto di questo, dei suoi indubbi meriti pregressi, nella mia mente ho
commutato la certa pena di morte in 77 nerbate sulle terga, ma date con convinzione,
per l’incomprensibile deflorazione animalesca di “I’ve got you under my skin”.


Credo Sinatra sia morto alcuni anni dopo per il dolore e la vergogna.
Accostandoli ai maestri eterni, gli U2 comunque non sfigurano del tutto (non
come ad esempio quei patetici pagliacci degli Oasis). Hanno saputo distillare il
dettato dylaniano, negli appassionati paradossi, nei giochi di parole continui, nelle
antifrasi continue e ricercate (da “Where the streets have no name” a i brani più
alti di “Achtung Baby”, fino alla confezione manierista del brano pop perfetto in "Stay").
 Se, come disse Ginsberg, Dylan ha portato la poesia
nei jukebox, gli U2 l’ hanno portato negli stadi. Hanno rei-incarnato in maniera
magniloquente il cortocircuito bowieano della rockstar suicida, dell’idolo da bruciare,
nella grandiosa cattedrale postmoderna del tour “Zooropa”, dal cui pulpito infernale
scaturiva il bombardamento di significanti, ossessivi, contraddittori, ripetuti fino allo
svuotamento d’ogni significato possibile. Una sceneggiatura furba ma molto efficace,
la messinscena diabolica dello smarrimento di senso collettivo.



Ma se per i loro fan il gruppo rappresenta certamente, l’update definitivo, la sintesi
suprema dei grandi del rock, confluiti in un linguaggio semplice ed universale, per
me il loro rock-pop, potente, gradevole è una diluizione popolare, un abbassamento
di livello (pur con dei picchi di grande valore) rispetto alle sperimentazioni
rivoluzionarie di 30 anni prima.
Eh, lo so, sono un irritante misoneista, un incontentabile sapientone. Ma ho ragione.
Detto ciò, non credo abbia senso ora discettare ulteriormente su un band che da
più di 25 anni è considerata “la più grande rock ‘n roll band del mondo”. Vi rinvio
alle riflessioni di Massimo, che sul gruppo irlandese è una riconosciuta e meritata
autorità. L’esegesi dei testi di “Achtung Baby” tocca profondità che gli U2, credo,
si sarebbero sognati d’aver ispirato. Bono Vox dovrebbe tenere questo libro sul
comodino, e mandare cesti stracolmi di leccornie e prelibatezze a Natale e a Pasqua a
casa dell’autore.
Ma ben altra pirotecnica prolusione ora v’attende. Vi consiglio di andare a prendere
un bicchiere d’acqua.
Come dice Mangoni in un indimenticato classico (3.11-3.14):

FINE DELLA PRIMA PARTE, INIZIO DELLA SECONDA PARTE.

Accanto agli U2 il vero, grande protagonista, l’ispiratore, l’eroe del libro è un idolo
pop che non vi aspettate: Georg Wilhelm Friedrich Heg…scusate, devo ricompormi.
Non credevo di dover mai scrivere questo nome sul mio blog. Vabbè, avete capito
si, quello di tesi-antitesi e sintesi, dello Spirito Assoluto, il summus philosophus
dell’Accademia Danese…
Diciamo che non è esattamente il mio filosofo prediletto.
(Chi volesse approfondire il mio punto di vista può estasiarsi qui 35.53)


Provo a sviluppare il concetto.
Potrei dire che l’affermazione “La filosofia è necessariamente sistema.” ha sempre
destato in me la medesima reazione che un altro celebre tedesco aveva alla parola
“cultura”: portare istintivamente la mano alla pistola. Ma è un esempio spesso usato,
non rende giustizia alla peculiare intensità del mio sentimento.
Ecco, potrei dire che una delle poche volte che sono in disaccordo col mio amato
Schopenhauer è stato quando definisce Hegel “assassino della Verità”.

             
                                             (in queste note a margine invece lo ritrae come un asino)

 Stavolta, diletto Arturo, oppongo un vibrante dissenso: una definizione troppo generosa
per il filosofo tedesco (per uccidere qualcosa bisogna saperla identificare, quindi
conoscerla), e ingenerosa per la vasta e variegata categoria degli assassini (che tra le
loro fila possono vantare eterni simboli di coraggio e giustizia, da Arjuna, passando
per Giuditta, fino a Ken Shiro).

Ma sento di non aver esplicitato ancora bene il mio punto di vista.
Diciamo che avrei volentieri festeggiato il mio diciottesimo compleanno, come
credo molti di voi, nelle seguenti comunissime modalità: di fronte alla Porta di
Branderburgo
, in guisa di Eliogabalo, al cospetto di una folla oceanica di anti-
storicisti, protetto come Luke Skywalker alla fine di Episode VI, dai Lari benevoli
di Schopenhauer, Kierkegaard e Nietzsche, offrendo alla furia purificatrice del
dio Fuoco le pagine della “Fenomenologia dello Spirito”. Ca va sans dir, il tutto
circondato da Baccanti discinte che in preda ad un furore estatico avessero urlato “ciò
che è reale NON è razionale”.


Si, mi rendo conto, è un’idea banale, tutti ci abbiamo pensato almeno una volta.
Per carità, poi, si sa, Hegel è un gigante della filosofia, un mastodonte del pensiero,
colui che dopo Platone e accanto a Kant ha elevato la riflessione ad altezze…ma
basta col politicamente corretto, lo odio!!!!
Eppure, vi giuro con la mano, non dico sulla “Bhagavad Gita” (mai giurare su ciò
che è veramente sacro), ma su ciò che più mi è umanamente caro (il vinile di “Freak
Out!”
o la maglia di Mihajlovic del 2000, scegliete voi)….ho provato seriamente un
paio d’anni fa a leggerlo.
Mi sono detto: “Adriano, non essere sciocco, non fare il bambino, hai letto milioni di
libri, non puoi non leggere un filosofo così importante…se tante persone intelligenti
lo amano avrà una sua grandezza, no?!”
E vi prometto in ginocchio, o Corte Suprema dei miei lettori, un paio d’anni fa mi ci
sono messo, onestamente, ho voluto fare tabula rasa dei miei pregiudizi, ho svuotato
la coppa del mio ego…e con animo sereno e mente aperte ho dischiuso le pagine
sulla dialettica servo-padrone.
Un grande classico del pensiero, una delle vette della filosofia moderna. Certo.
Una volta raggiunto il quarto paragrafo… non ricordo più nulla…solo di essermi
svegliato, dopo, altrove, su un lettino, con un forte senso di oppressione, le braccia
forzatamente incrociate, e di aver distinto tra la nebbia dei narcolettici solo un foglio
con alcuni numeri: il conto dei danni per la biblioteca messa a fuoco.
Eppure, eppure, eppure, cari fratelli della Loggia “Estrema Irratio”, tale è la passione,
l’intelligenza, la profondità con cui Massimo ci parla di Hegel che me lo ha fatto
diventare perfino simpa…vabbè, non esageriamo…interessante!
E’ un esercizio di straordinaria apertura mentale (più che mai pertinente considerando
il titolo di questo blog) vedere colui che abbiamo sempre visto come l’incarnazione
del tronfio atteggiamento occidentale di forzatura razionale del reale, come
l’emblema della sapienza accademica sterile , della nozione mentale contrapposta
alla vera sapienza, dell’inganno menzognero della nostra mente eretto a sistema
opprimente…ebbene, lo dico: vederlo sotto tutta altra luce.
Hegel nelle pagine di Massimo, non solo è una rockstar (e fin qui, visto il successo
ottenuto in vita che faceva imbestialire Schopenhauer, ci poteva stare…come lo
stesso autore ricorda Bowie disse la stessa cosa, e per molti versi purtroppo a ragione,
di Hitler!), ma è proprio l’opposto di come lo abbiamo sempre percepito: uno
studente goliarda e disperato, un filosofo anticonvenzionale, stufo dei triti luoghi
comuni, mosso dal desiderio di rendere la filosofia qualcosa di reale, vivo, concreto,
posseduto e ossessionato dal purissimo desiderio di trovare la verità e diffonderla, di
liberare l’umanità dall’inganno e dall’ignoranza.
Un animo equilibrato tra l’intuizione poetica del suo amico Holderlin (che per noi
nell’ approdo pre-nietzscheano alla follìa si avvicinò molto di più dell’amico filosofo
al vero; diremmo di lui come egli stesso scrisse in uno dei suoi ultimi appunti di
Edipo, “accecato, ha forse un occhio in più”, aperto alla visione interiore) e gli slanci
trascendentali dell’altro amico Schelling (che, stiamo schematizzando, non poteva
accettare la sua pretesa di spiegare e razionalizzare tutto).
Una mente aperta e vivacissima, dal respiro geniale, in grado di capovolgere l’onda
del conformismo culturale con la forza della sua indipendenza intellettuale.
Uno di noi, insomma. Un ricercatore che ce l’ha fatta. Un’intelligenza straordinaria
che ha speso la sua intera esistenza per dare senso alla vita di tutti. Più alto di Kant,
più risolutore di Marx, più felice di Nietzsche, più definitivo di Spinoza.
Nel libro Massimo ripete, più che come un mantra come un leit-motiv (è proprio lui
a dire che il filosofo puntava a realizzare “l’opera d’arte totale” della filosofia), che
Hegel aveva capito tutto. Da sempre io dico che è vero, con una piccola correzione:
ha capito tutto (le sue intuizioni sul ritmo ternario dell’esistenza e sul manifestarsi
progressivo dello Spirito sono luminosamente vicine alle verità della rivelazione
mistica orientale), ma al contrario (pretendo di aggredire il reale attraverso i limiti
della razionalità, di trovare la sintesi nella dialettica, e non cercando il ritorno
all’Uno attraverso la via interiore, dantesca, gnostica dei mistici e degli artisti)!
Per me l’idealismo hegeliano è un Advaita Vedanta scomposto e ricomposto
artificiosamente, una risalita al di fuori dell’inferno del dubbio, in cui però il
filosofi che escono “a riveder le stelle” non si rendono conto che stanno ammirando
un fondale di cartapesta. Parafrasando il sublime Rumi, noi non siamo gocce
nell’oceano, ma “l’oceano in una goccia”. Il dissolvimento nell’unità primordiale
avviene al superamento di ogni dialettica, nell’estinzione dell’illusorietà, dunque
anche dell’attività mentale, nel superamento del superamento stesso della
sintesi….vabbè, Massimo poi ne parliamo davanti a un caffè…
Comunque, sei riuscito a farmi parlare di Hegel senza conati e tafferugli, manda il
curriculum all’Onu: puoi risolvere il conflitto in Palestina.

Ma nel libro, non si parla solo degli U2 e di Hegel.
Massimo riesce a parlare, in maniera puntuale, esauriente ed originale, di tutte le
figure che hanno attraversato Berlino negli ultimi due secoli.
Aspettate. Rileggete questa frase che ho scritto. Pensateci un attimo. Realizzate
quanto è difficile.
Ora possiamo andare avanti.
Potrei scrivere un altro libro come guida-commento al testo (come per l'"Ulisse" di
Joyce) per la mole di spunti, stimoli e collegamenti che m’ispira. Ogni riga è un
precipitato di riflessione, che s’intuisce su certi temi almeno ventennale, impreziosita
da un accostamento inedito, da un gioco di parole rivelatore, da uno squarcio di
pensiero illuminante. Non c’è una considerazione superflua, non c’è un’apparizione
che non ritorni, in un intreccio complesso e raffinato come quello di una cravatta da
dandy, nel compimento del suo ruolo all’interno della babelica mappa berlinese.
La qualità forse più notevole del libro è che in questo immenso gioco di
riferimenti, citazioni, salti continui di tempo e di spazio, di tono e argomento, tutto,
narrativamente si tiene. Come complessità e felicità di riuscita stiamo ai livelli della
sceneggiatura di “Lost”, almeno fino alla quinta serie (poi un giorno scatenerò il
putiferio parlando del finale, che a me tutto sommato è piaciuto, massa di miscredenti
che non siete altro!). Come uno sfrontatissimo acrobata Massimo cento volte rischia
l’accostamento eccessivo, la battuta fuori luogo, il paragone sacrilego, ma con
l’eleganza di Nureyev sfugge, con precisi riferimenti e ferree argomentazioni, ai
tentacoli voraci e ovunque presenti del banale.


Non resisto, devo fare una rapida carrellata delle personalità principali(a parte
quelle già lungamente introdotte) che vengono presentate nel libro, tanto per darvi
una vaga idea della ricchezza del testo (prendetelo come il trailer sbrigativo di un
film da vedere e rivedere): stupenda è l’apparizione di Rilke, i cui angeli tremendi
sono l’altissimo modello letterario di quelli divenuti ormai icona cinematografica
grazie a Wim Wenders; Lou Reed e i Velvet Underground sono comparse oscure e sfuggenti,
ma rese in una luce indimenticabile, proprio come lo sono stati nella storia del
Rock; definitive per me le pagine sul rapporto tra Bowie e Berlino, un argomento
per me così interessante da tornarci nella breve vita di questo blog già tre volte;
profondissime e di dolente sapienza sono le riflessioni su Christiane F., la cui
vicenda è giustamente studiata ed approfondita nel suo violento impatto di simbolo
generazionale, con grande sensibilità umana; Walter Benjamin (su cui Massimo ha
scritto cose pregevoli, ad esempio QUI) ha il posto che gli spetta, tra le grandissime, profetiche
intelligenze del secolo scorso; Christopher Isherwood vede finalmente riconosciuto il
valore più profondo del suo “Cabaret”, e il suo ruolo di svolta cruciale nella carriera
del Duca Bianco; Carl Schmitt si guadagna la fama di “uomo più cattivo del mondo”;
vengono svelati i trucchi, vecchissimi, delle tesi-shock di Fukuyama sulla fine della
Storia; si omaggia in tempi non sospetti l’inquieto fantasma di Delmore Schwartz;
persino Patti Smith è omaggiata di un meritato cameo nel finale, dominato però
da un crescendo commovente che non vi svelo….in tutto questo si esplorano non
solo metodicamente tutti i quartieri e le strade principali di Berlino (che Massimo
credo conosca molto meglio di quanto, che ne so, un nome a caso? Alemanno, per
esempio, conosca Roma), ma anche gli impulsi sotterranei che hanno mosso con
violenza e fragore la storia europea degli ultimi duecento anni.


Una parola sullo stile: chi mi legge sa bene, con dolorosa pazienza, quanto il
sottoscritto ami i voli pindarici, l’ellissi barocche, i collegamenti volanti, gli ossimori
improvvisi.
E’ molto interessante notare come Massimo non giochi con gli sbalzi di tono, non
contrapponga sacro e profano, ma al contrario li assuma subito come pari, li assorba
in uno stile equilibrato, in cui la contrapposizione è già mediata, dialetticamente
sciolta, hegelianamente risolta.
Il rigore accademico con cui si accosta alle pagine più complesse dell’idealismo
tedesco è il medesimo con cui decripta le influenze dei Joy Division sui gruppi
successivi, mescolandole con spregiudicata disinvoltura, ed eguale serietà. Passaggi
come “la variante hegeliana di Achtung Baby, la Fenomenologia dello spirito
sono da T.S.O., ma solo per organizzare una festa a sorpresa con bacio accademico
sull’ambulanza.
E quindi, come ultimo, supremo omaggio non posso che proclamare il mio
“sì”dionisiaco, e nell’accettazione totale accettare anche l’Aufhebung (concetto
hegeliano traducibile con “sublimazione”, superamento della contraddizione, una
tensione dialettica, ad esempio riscontabile nel rapporto servo-padrone, in cui
si “superano conservando” i due termini della contrapposizione nel divenire del
progresso dialettico). E, quindi, spezzando le manette anche della mia di mente, tale
è la mia ammirazione per questo testo che arrivo a l’impensabile. Chioserò il mio
omaggio dedicando a Massimo le parole, perfette in questo caso, del mio antico
nemico Hegel: ”Il sì della conciliazione, in cui i due Io dismettono la loro
opposta esistenza, è l’esistenza dell’Io esteso fino al due, l’Io che resta qui uguale a
sé e che nella sua completa alienazione e nel suo contrario ha la certezza di se stesso;
– è il dio che appare in mezzo a loro”.
Per dirla con un verso di un autore a me molto più caro (i poeti, si sa, intuiscono e
sintetizzano ciò che i filosofi rendono complicato): “we always did feel the same/ we
just saw it from a different point of view” (Bob Dylan, “Tangled up in blue”).


La più lieta agnizione avviene però alla chiusura del volume.
L’intuizione sopravviene come una battuta geniale capita in ritardo, e ancora più
deflagrante nella sua detonazione comica.
In realtà, il complesso intarsio di connessioni interculturali, la grandiosa visione
d’insieme che l’autore ha disegnato come un raffinato esercizio enigmistico, era già
li, presente, viva, offerta a tutti nel suo miracoloso splendore. Un mosaico già pronto.
Bastava solo osservare.
Massimo ne ha solo scoperto l’evidenza, e sollevato il velo con la curiosa semplicità
di un bambino che gioca, ricalcando i contorni della mappa, e consegnandocela come
un dono, fatto in primo luogo a se stesso, un premio meritatissimo alla fine di una
ricerca entusiasmante.

Ma questo prodigio, lo splendore intimo dell’esistenza, solo si rivela a chi ha
custodito il sacro stupore, in ridenti occhi bambini (l’innocenza è la forma più alta di
saggezza) capaci ancora di meraviglia, non incrostati dal velo dell’abitudine.

1 commento:

  1. Come sai, condivido moltissimo l'avversione per Hegel. Anche solo qualche breve citazione che hai fatto mi ha provocato immediatamente la stessa irritazione che mi provocava quando lo studiai.

    Probabilmente Hegel ha contribuito a mettere ordine in un mondo irrazionale. Ma mi verrebbe da dire che "Il sonno dell'irrazionalità genera mostri". Molti parlano (a spropositoo, credo) del superuomo di Nietzsche, ma ho sempre avuto la convinzione che Hegel (suo malgrado, spero) abbia contribuito molto di più alla nascita del nazismo.

    Hegel lo vedo come una specie di disinfettante, di quelli universali per i pavimenti. Dopo il suo passaggio, tutto è pulito, perfetto, immancabilmente morto. Scomparso l'odore di sporcizia, resta l'odore asettico di disinfettante, ancora più insopportabile.

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