giovedì 11 dicembre 2014

66 Demonietti - di Michele Hiki Falcone


Il Demone del Nulla
Ora che l'ultima illustrazione è stata pubblicata, che l'ultima pietra della cattedrale è stata posta, posso finalmente parlarvene.
Poche cose, negli ultimi tempi, mi hanno colpito come la serie di illustrazioni di Michele Hiki Falcone intitolata 66 demonietti.
Per chi, come me, è allergico a qualsiasi compiacimento satanico d'accatto, e usa i testi e le immagini del pagliaccio Crowley come emetico, tema e referenze numerologiche non erano il più seducente dei biglietti da visita.
Eppure, al primo sguardo, ho visto pulsare, tra le pieghe del segno di Hiki, il battito della ricerca, ho udito, osservando in tralìce, l'urlo strozzato di una tensione gnostica.
Ho compreso subito che non si trattava di un manualetto per imbecilli in vena di facile blasfemie.
Ho sentito che dietro l'elencazione dettagliata dei diversi volti del Maligno non c'era la sciocca celebrazione del negativo, bensì l'urgenza di dare forma ai propri demoni, per esorcizzarli tramite il controllo artistico.
Ho visto la sua visione, ho percepito la sua sofferenza, ho scrutato le sue piaghe interiori, le ferite della sua anima, il cui balsamo inebriante è il succo vitale di una ricerca inquieta.
Ho capito insomma che la sua testimonianza alzava al cielo lo scettro della vera arte: era autentica.

Il Demone del Tradimento

Hiki ha guardato in faccia ognuno di questi demoni da vicino.

Il Demone della Violenza
Giocando con le dotte parole di derivazione greca, dalla catabasi è giunto alla catarsi,
La fascinazione maggiore è stata rappresentata, come sempre, da un paradosso: come all'interno immagini a prima vista minuscole si possa celare l'abisso di una riflessione esistenziale, l'oceano di esperienza che tempra l'uomo alla fiamma della sofferenza per restituire alchemicamente ad ognuno il proprio dolore sotto forma di sapienza.

Il Demone della Depressione
Dunque, tale è il potere contagioso dell'arte, mi ha spontaneamente mosso a commentare ognuna di queste immagini. La sua introspezione grafica mi ha imposto una mia pubblica introspezione letteraria.
Primo immediato, supremo riferimento sono state per me Le lettere di Berlicche di C.S.Lewis, uno dei libri più geniali del Novecento. Un paradossale resoconto immaginario dell'apprendistato di un giovane demonietto: una sorta di vademecum della possessione, in cui un demone adulto, veterano, dispensa i suoi consigli al giovane collega su come tentare le sue vittime, rivelando in questo modo una introspezione feroce e severissima, pur sfumata dal dono di un umorismo sapienziale.
Dunque (ecco il mio delirio), partendo da una citazione, colta o ironica, di un autore famoso (dalla filosofia al cinema alla musica) sulla qualità demoniaca illustrata, avrei potuto offrire una meditazione intellettuale a corredo dell'immagine.
Sono mesi che vi penso, che nelle pause tra i rocamboleschi spostamenti quotidiani, sulle rive dei mille rivoli della mia creatività, al termine di un articolo o nel mezzo di una meditazione, m'assediano intuizioni, giochi di parole, riferimenti, calembour o confessioni, ispirate dalle illustrazioni, insieme scarne e barocche, di Hiki.
Ora basta.
È tempo di iniziare l'opera.

Michele Hiki Falcone, al termine dell'opera



giovedì 4 dicembre 2014

20.000 Days on Earth - La trasfigurante confessione di Nick Cave





La prima riflessione che ispira la visione di 20.000 Days on Earth è che Nick Cave sia, in primo luogo, un magnifico scrittore.
Non una grande rivelazione, si obietterà, considerato che il magistero letterario del Nostro erompe in canzoni, poesie, romanzi, perfino un delirante fumetto, da più di 30 anni, temprando alla fiamma dello stile alto le intemperanze esplosive degli anni giovanili.
Amplieremo dunque la riflessione: la testimonianza, fondamentale, del film è quella di un artista autentico. L'indagine dell'ispirazione artistica, la ricerca disperante della fonte della creatività, di quell'oceano tempestoso, capricciosamente crudele e sovranamente misericordioso nel concedere i suoi doni divini, ecco: è questo l'argomento del documento ardente che abbiamo davanti agli occhi.
Non la vita dell'uomo, non la celebrazione dell'artista Nick Cave.
Il racconto dell'uomo e artista nudo davanti allo specchio, come nelle scene iniziali, pronto ad affrontare l'ennesima spietata introspezione, ad affondare lo sguardo nel proprio fango interiore, per poi estrarne l'oro incandescente della poesia.
E rimanere, come nei versi celebri del suo amato maestro Leonard Cohen, "al cospetto del Signore del Canto con nulla sulla lingua se non: Alleluja!".

Complice dell'incanto è certo la voce di Cave, così profonda, arroventata da mille folli esperienze da rendersi una fornace di sapienza pessimista: una voce che renderebbe tragica e intensa perfino la lettura delle istruzioni di un lassativo.


Chi cercherà in questo docudrama il racconto biografico, cronologico dell'idolo punk divenuto uno dei più raffinati cantautori contemporanei, rimarrà deluso.
Il film è una fotografia lucida del "qui ed ora".
Il fauno che si aggirava spiritato sul set del video Nick the Stripper con una bestemmia (in italiano!) vergata come uno sfregio sul petto, ora è un distinto, serissimo signore australiano, la cui eleganza costante a volte tradisce dei vezzi pacchiani da mafioso anni'30. Vive con l'adorata moglie e i figlioli in un angolo sereno di una città industriale inglese, lontano dal clamore londinese, dalla frenesia di Liverpool o dal vortice di nuove tendenze di Manchester.
Porge lo spettacolo dei suoi incubi con un eloquio forbito, un lessico impeccabile e prezioso, solo di rado screziato dall'accento australiano, quando, con tempi comici scientifici, spezza la melodia del monologo poetico con scintille di turpiloquio.


Non mi soffermerò sui pregi registici del film, evidenti alla visione, sulla fotografia in grado di trasfigurare, proprio come nei versi di Cave, il monotono cielo grigio di Brighton e farlo diventare visione apocalittica.
Ecco, dunque, il cuore della narrazione.
La trasfigurazione e la memoria, spesso fusi in reciproca simbiosi (trasfigurazione della memoria e memoria delle passate trasfigurazioni), sono questi i poli ossessivi della confessione di Cave.



Ripetiamo, non è un documentario su "Nick Cave", sulla sua carriera, sulla sua storia: non troverete filmati d'epoca dei Birthday Party; la travolgente passione con P.J. Harvey (nata proprio durante le riprese del conturbante video di Henry Lee); l'incontro quasi mistico a Glanstonbury con l'idolo Bob Dylan, che attraversò l'acqua che circonda la zona in zattera scendendo indistinto nella nebbia solo per dirgli "mi piace quello che fai"; l'emozione di cantare Suzanne di Cohen dal vivo, dopo aver ricevuto i complimenti di Cohen per l'indemoniata versione di Avalanche; non troverete nemmeno il formidabile trio improvvisato con Henry Rollins e Jello Biafra che cantano Deanna senza sapere le parole.




Tutto questo, Nick Cave ce lo ha già raccontato. Per essere precisi, come ogni vero artista, Cave non fa altro che raccontarsi.
Il suo inferno interiore lo ha scandagliato già in quasi venti dischi, quattro romanzi, tre sceneggiature: una costante eruzione autobiografica.
Ora ci mostra dove è giunto dopo tutto quel tremendo, documentatissimo, cammino infernale.
Siamo di fronte alla testimonianza di un autore davanti all'abisso della pagina bianca.
Il processo creativo (memoria e trasfigurazione) ci viene restituito in tutta la sua primordiale innocenza. Cave ci descrive, sfiorando l'ineffabile, il momento inafferrabile in cui la canzone, prima di essere addomesticata nella forma convenzionale, "è lei a comandare", selvaggia, sorgiva, purissima nella sua informe manifestazione dalle lande dell'inconscio.
Ne è splendido esempio la versione di Higg's Boson Blues, in studio, improvvisata, in un fecondo e commovente in fieri;  forse l'ultimo grande capolavoro della narrazione di Cave: una cavalcata delirante di immagini discordanti, lacerata tra lo scetticismo caustico e la perenne, insoddisfatta ricerca di Dio.



Il gioco, appunto, trasfigurativo, da sempre è giocato su antinomie che dilaniano l'interiorità.
Come nel folle passato alternava il consumo di droghe alla messa quotidiana, per cercare un "folle equilibrio", così la concordia oppositorum è cercata, inseguita, corteggiata in ogni manifestazione dell'autore: il culto del proprio ego (fiamma necessaria ad alimentare l'incendio della rockstar) è bilanciato dal terrore dello smarrimento della propria identità; l'evidente autocompiacimento è sfumato da una costante autoironia; gli eccessi osceni sul palco sono il rovescio di una silenziosa introversione.
Illuminante il paradosso di Cave che legge auto-ironicamente il proprio testamento, redatto da giovane non ancora famoso, in cui dispone di lasciare tutto al Nick Cave Memorial Museum, e irride  quella sua egoica fantasia giovanile...ma lo fa all'interno del proprio archivio ufficiale: ancora una volta la trasfigurazione della memoria, come realizzazione nel presente.
Cave è diventato quello che ha sempre voluto essere: qualcun altro.
Proprio in questo, ha manifestato pienamente la propria personalità.
Diventa, dunque, se stesso proprio attraverso la trasfigurazione.
Pur dichiarando l'importanza esistenziale, quasi ontologica della memoria ("la memoria è ciò che siamo", dice, la sua più grande paura è smarrirla), pur essendo la narrazione fondata sul rapporto col passato, in realtà il racconto affronta il vivo divenire attuale.
Il film testimonia il presente dell'autore, la difficile maturità infestata da demoni antichi, il precario equilibrio inseguito nel "qui e ora", dopo i vent'anni di delirio infernale che ha riversato in una discografia straordinaria.


La perenne lotta tra Bene e Male (come nelle rappresentazione medievali) è in ogni accenno, parola, ricordo: la grazia narrativa con cui Cave ci affabula redime ogni sconcezza, come nel delizioso aneddoto punk dell'orinatore sul palco, o nel racconto degli anni schizofrenici di Berlino.
Come Chris, il vicino di casa  berlinese che aveva costruito la sua camera a guisa di un tempio natalizio, ma che luci spente diveniva un santuario d' immagini pornografiche d'antan, in maniera inversamente proporzionale Cave ci mostra il risvolto positivo della sua vita, il rovescio dell'altarino satanico eretto per vent'anni con la sua arte.



Per chi conosce i testi, con rigore filologico, appare ancora più evidente, esposto, il gioco di contrasti, composto da nunerose allusioni, richiami interni, autocitazioni e autoparodie.
Le immagini, paradossalmente sconvolgenti, di Cave che mangia la pizza guardando la tv con i figli sono accostate all'esecuzione dal vivo di Stagger Lee, forse il brano più violento e osceno del cantautore, circondato da groupies in adorazione.
Ma, per quel che ci riguarda, non  c'è contraddizione, né agiografia auto-assolutoria (come il nostro stimato amico Mauro Uzzeo, col quale condividemmo l'esperienza del grandioso concerto romano, ha lamentato): è appunto la trasfigurazione il gioco proposto. Ma, attenzione, non è banale: Cave si trasfigura in un demone, in uno stupratore, in un emissario di Satana (come disse scherzando ripensando ai Birthday Party) per poi ri-trasfigurarsi nel benevolo padre di famiglia, e così via in un circolo psichicamente vizioso e artisticamente virtuoso fino alla santità.
Un circolo di menzogne? L'autenticità è proprio nel mostrarlo.
Lo dice benissimo Blixa Bargeld, figura geniale, nella sua breve apparizione (i pensieri e i ricordi di Cave si materializzano come dialoghi con gli effettivi compagni di viaggio del passato).

Cave, come tutti i personaggi delle sue canzoni, è intimamente dostoevskijano: esplora il Male fino alla bestemmia per poi trovarci squarci accecanti di luce, che diventano commosse, impossibili preghiere atee (Into my arms, Oh Lord, As i sat sadly by her Side).



Sommamente dostoevskijano è il protagonista di Jubilee Street: la trasfigurazione, ancora, trionfale è quella dell'assassino vigliacco che uccide la prostituta perché scopre che il suo nome era nel diario della ragazza. Un Raskolnikov senza redenzione, che s'illude di averla scampata.
Da qui, la quasi demente ebbrezza che Cave simula sul palco.




Qui, ad esempio la scelta di non sottotitolare anche i testi delle canzoni fa smarrire un inside joke che pochi hanno colto: l'esibizione del brano è introdotta da uno splendido monologo che inizia "la canzone è eroica perché affronta la morte, è immortale...", e termina dicendo che un giorno la canzone, spera, gli insegnerà a "uccidere il dragone".
Bene, l'esibizione è registrata all'Opera House di Sydney.
Ora, non solo le celebri vele danno all'edificio la forma di un dragone, come a volte viene indicato dai locali. Ma per Nick Cave, osteggiato e ignorato nella sua patria per anni (l'ultimo album è stato il primo a divenire n.1 dopo una carriera di successi internazionali), nemico della sua patria fino ad essere fiero di essere definito "Australia's Nightmare" (nel senso di incubo per l'Australia), quel luogo, simbolo architettonico del suo Paese, è il dragone da uccidere.
Il tempio da profanare.
La trasfigurazione è completa: il cantante che urla "Look at me now!", celebrando la salvezza di un assassino con un coro di bambini e l'orchestra classica in uno dei luoghi simbolo della musica colta nel mondo, non sta solo rivendicando il proprio successo al pubblico di casa, una volta ostile.
Sta esponendo la propria possessione, il proprio dolore, da figliol prodigo, non pentito ma fiero di aver abbracciato la sua Ombra.
Guardatemi ora, sono una delle rockstar più  famose del mondo, sono un assassino libero,sono un uomo che soffre, sono un poeta, verrebbe da aggiungere evocando i celebri versi baudelariani, "ipocrita lettore - mio simile - fratello!".



In calce al film potrebbe esserci il più famoso dei Proverbi Infernali del nostro amato William Blake: "La Via dell' Eccesso conduce al Palazzo della Saggezza".
Un aforisma splendente, e frainteso, tratto tra il Matrimonio di Cielo e Inferno. 
Del quale matrimonio Nick Cave è il meraviglioso figlio bastardo.


                                          


Non a caso, il monologo finale (che invero può apparire artefatto se non si coglie il senso del gioco trasfigurativo) svela  le carte: il cantore dello stupro e della necrofilia, il demone incarnato, colui che è riuscito a portare su Top of the Pops un brano che aveva come messaggio "Tutta la Bellezza deve morire", si rivela portatore di una saggezza eterna, che dalla Bhagavad Gita passa per il III canto dell'Inferno di Dante (quello degli ignavi).
E come in un meraviglioso racconto di I.B. Singer, come nelle pagine più luminose di Blake, C.S. Lewis o Chesterton, l'ultima parola, che chiude la testimonianza sulla lotta interiore dell'artista con i suoi demoni, è il senso della vita: gioia.









lunedì 1 dicembre 2014

TUTTI GLI ARTICOLI DI NOVEMBRE



Novembre, la "Norvegia dell'anno" secondo la sublime Emily Dickinson, ci ha donato una messe ricca e varia.
Crediamo davvero di non avervi annoiato, ma per i lettori distratti ecco le prove di questa affermazione apparentemente così presuntuosa.
Forse, la nascita in questo mese di William Blake, il santo protettore del blog, ha propiziato tale gioiosa produttività.



Su Fumettologica, complice la frenetica tre giorni di Lucca Comics & Games, è stato un mese straordinario:

- Iniziamo con una delle interviste più interessanti e prestigiose della nostra breve e rocambolesca carriera: quella a Brian K.Vaughan, autore di alcune delle puntate migliori delle stagioni più riuscite di Lost. Per noi, dunque, quasi un eroe omerico. La conversazione, centrata sulla potente trilogia Saga disegnata da Fiona Staples,  l'abbiamo condivisa con Evil Monkey,  critico attento e arguto, e la trovate QUI



- La seconda intervista è un ibrido trionfante tra la chiacchierata fra due amici e la celebrazione di una vittoria: le riflessioni, a freddo, di Tuono Pettinato, la persona probabilmente più gentile dei tre lokas, sulla sua ultra-stra-mega -oltremeritata vittoria del Gran Guinigi come Autore Unico QUI



- La terza è la materializzazione di un sogno: quando nell'adolescenza mi dilettavo con le avventure dei Freak Brothers, mentre i vetusti mangianastri (eh, si, siamo invero adulti) amplificavano i blues disperati di Janis Joplin o le cattedrali psichedeliche dei versi dylaniani...beh, non mi sarei mai aspettato di raccogliere aneddoti su di loro proprio dall'autore di quelle dilettevoli avventure: Gilbert Shelton! Ecco QUI



- Siamo entrati nello studio di Toni Alfano, autore di Pompei, uno dei libri più interessanti usciti nell'anno. La visione della sua libreria mi ha svelato il perché della fascinazione che l'autore esercita sul sottoscritto: la compresenza di miei auctores (quali Céline), pensatori di riferimento assoluto (Jung in primis), testi per me letteralmente sacri (come l'immortale compendio di saggezza noto come Tao Te Ching) accanto a miei dichiarati "nemici" spirituali: il cialtrone affascinante Jodorowsky (ne parlammo qui) e uno criminale che nemmeno voglio nominare su queste colonne consacrate a Blake. Questa compresenza di profonde connessioni e divergenze della ricerca è certo un grande magnete intellettuale. Ecco QUI


- Una conversazione profonda su temi cruciali con Paco Roca, su I solchi del Destino, che come ha scritto Alessio Spataro, è "inaccettabile che non sia libro di testo scolastico". Uno sguardo colto e appassionato sulla stagione straordinaria e tragica della guerra civile di Spagna del '36. Soprattutto, sulle sue devastanti conseguenze QUI



 - Una delle interviste indubbiamente più prestigiose che abbia mai avuto il piacere di ottenere: Jutta Bauer, un premio Andersen, praticamente un Premio Nobel per la Letteratura per ragazzi. Una conversazione breve ma colma di saggezza: splendide le sue riflessioni sul potere dell'innocenza e sulla pura creatività dei bambini, QUI



- Proseguiamo con Enrique Fernandez e il suo I Racconti dell'Era del Cobra: ben più di un raffinato pastiche  una narrazione rocambolesca, pregna di citazioni e capovolgimenti di scena. Esploratela QUI




- La chiacchierata divertita e colta con Squaz, in cui menzioniamo l'amico Don Pasta (QUI) e svisceriamo i tanti spunti del suo ultimo, adorabile volume L'Eredità QUI




Sul blog che state leggendo è iniziata l'annunciata svolta, che ci condurrà a virare sempre più sui temi prediletti della ricerca filosofica e della letteratura, pur contaminata con altre forme artistiche quali il cinema, la musica o il fumetto.

- Abbiamo iniziato col riassunto del mese precedente QUI (non perdetevi il racconto del concerto romano di Morrissey QUI)

- Vi abbiamo raccontato le nostre impressioni su  La Cura Schopenhauer di Irvin Yalom QUI



- Abbiamo speso meritate lodi per Alessandro Ponticelli e il suo irrespirabile Blatta QUI



- Abbiamo detto la nostra su Il Giovane Favoloso di Mario Martone, omaggio necessariamente impossibile al nostro ammirato Leopardi QUI



Per Dicembre c'è già tanto materiale pronto a uscire dall'impalpabile limbo delle potenzialità.
Speriamo di elargirvi degne strenne
Buona Lettura!


lunedì 24 novembre 2014

Il Giovane Favoloso di Mario Martone - una sfida impossibile



Anche per un regista serio e preparato come Mario Martone, realizzare un film biografico su Giacomo Leopardi (la più alta voce poetica italiana di tutti i tempi dopo Dante Alighieri, oltre che forse il nostro più grande filosofo moderno) rappresenta di fatto una sfida impossibile.
Troppi, mastodontici, insormontabili sono gli ostacoli che occludono un itinerario sereno e diretto, una visione limpida e illuminata dell'essenza esistenziale dell'immenso autore, tuttora ignorato, nella sua oceanica profondità, dai più. Brevemente, osserviamo i più evidenti: da un lato restituire cinematograficamente la complessità biografica di una vita che solo uno sguardo superficiale potrebbe additare come monotona, mentre al contrario fu rocambolescamente nomade; e non ci riferiamo solo alle abissali esplorazioni interiori del poeta, ma proprio alla serie fortunosa, improvvisata, quasi picaresca di spostamenti, traslochi, peregrinazioni, sostenuti in condizioni fisiche sempre più cagionevoli e in quasi completa indigenza.
Ancora, ben più arduo cimento, è affrontare il gigante Leopardi dovendo scrostare due secoli di luoghi comuni scolastici beceri e triviali, di etichette orrendamente superficiali e, proprio per questo, di immediata presa sulle menti comuni.


 Soprattutto, accostarsi a Leopardi (non all'autore, proprio alla persona) significa dover trattare la materia più delicata e preziosa che esista: la sensibilità, sublime e fragilissima, di un poeta siderale e tremendo, che ha accolto nella sua carne le sofferenze ontologiche dell'intera umanità.
Un tentativo non molto distante dal mostrare un diamante rarissimo camminando su un filo a cento metri d'altezza: le possibilità di mandare in frantumi il prodigio di bellezza sono talmente elevate da indurre al tentativo solo un incosciente. Oppure un invasato d'amore, talmente folgorato dallo splendore del prodigio,  da esser disposto a rischiare la rovina, propria e dell'oggetto, pur di mostrarlo alla massima altezza, per consentirne la  migliore visione a tutti.
Leopardi è, assieme a Baudelaire, la voce poetica più alta e universale dell'Ottocento europeo (per tacere di William Blake, che collochiamo fra i profeti mistici).
Soprattutto, è un pensatore dalla lucidità spietata e inesorabile, una mente sconfinata, in grado di vedere profeticamente la china irrimediabile della decadenza moderna: "Di questa età superba,/ Che di vote speranze si nutrica,/ Vaga di ciance, e di virtù nemica;/ Stolta, che l'util chiede,/E inutile la vita/ Quindi più sempre divenir non vede".
Impossibile accostarsi alla fiamma del suo genio senza bruciarsi.


Chiariamo subito: il film merita onore per i molti, rari pregi del cinema martoniano, applicati col massimo della cura alla materia trattata. Il film è rigorosissimo, filologicamente maniacale, molto accurato nelle ricostruzioni storiche, facendo trapelare un rispetto quasi sacrale della figura leopardiana.
E di questo siamo grati.


La selezione degli attori (si, quella che con pigra arrendevolezza linguistica chiamiamo spesso casting) è a tratti definitiva: folgorante Silvia (Gloria Ghergo, nel suo innocente splendore, sembra l'incarnazione dei versi "beltà splendea/ negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi"), impeccabile il da noi sempre apprezzato Sandro Lombardi nei panni di Don Vincenzo, fredda e tremenda la madre interpretata da Raffaella Giordano, convincente il Pietro Giordani reso da Valerio Binasco, potente Paolo Graziosi come lo zio oppressivo, fedele e credibile la Fanny Targioni Tozzetti di Anna Mouglalis.

Gloria Ghergo nei panni di Teresa Fattorini, la Silvia leopardiana
Cenno a parte meritano i veri coprotagonisti: nella prima parte, notevole Massimo Popolizio nel restituire il complesso rapporto della figura paterna col figlio geniale (da un lato grande onore e affetto, dall'altro ossessiva brama di controllo); nella seconda, Michele Riondino ci presenta un Antonio Ranieri forse troppo "bello e tenebroso", ma crediamo che, in un'opera così ragionata, l'antinomia fraterna col poeta sia stata indicata dal regista, non sia frutto capriccioso dell'attore.
E il protagonista? Ci leviamo il cappello (intendiamo una tuba di quelle lunghissime) davanti ad Elio Germano, la sua interpretazione è prodezza di pudore e sensibilità. Ogni movimento potrebbe diventare macchietta, stereotipo, sfregio; ogni verso, celeberrimo, recitato una profanazione, uno stupro culturale, un marchio vergognoso. E invece, supremo è l'equilibrio, tra commozione e profondità, tra adesione mimetica e invenzione attoriale.
Una prova che definitivamente sancisce l'ingresso di Germano tra i grandissimi attori.



Affrontiamo ora, però, gli ostacoli di cui prima abbiamo accennato.
Come qualsiasi tentativo biografico, l'autore è costretto a tagliare, a scegliere, ad enfatizzare un aspetto e a trascurare altri.
Parlando di un autore dalla produzione sterminata, e tutta fondamentale, ogni scelta, direbbe Kierkegaard, porta angoscia.
Chi scrive ha tributato subito il suo dazio di lacrime al primo verso de La sera del dì di festa, "Dolce e chiara è la notte e senza vento...", sfogando emotivamente la profonda empatia con uno dei suoi prediletti auctores, potendo così poi osservare con maggiore distacco critico l'opera.



Incomprensibile, come da molti segnalato, l'utilizzo di una colonna sonora moderna (del dj berlinese Sacha Ring, pur premiato a Venezia) per sottolineare i versi sublimi ed eterni de L'Infinito. Stridente, in particolare, nella scena in cui il poeta scopre il rifiuto ipocrita della Tozzetti, fugge in lacrime, inciampa e singhiozza disperato. Scena straziante, resa magistralmente da Germano, amplificata da un intelligente movimento di camera.  Grande intuizione, il poeta dilaniato dalle sofferenze, accanto alla Natura indifferente, il silenzio l'avrebbe resa indimenticabile. Perché aggiungervi un moderno lamento soul? Perché non Chopin o, ripeto, i "sovrumani silenzi" cantati dal poeta? Straniamento brechtiano? Forse, i limiti dell'impostazione "civile" di Martone, che gli conferiscono il grande dono del rigore, in questi casi affiorano nel loro tentativo di cercare il "contatto" col pubblico.


A questo riguardo, è encomiabile invece come il regista si sia svincolato dai gangli della critica marxista, per darci una visione filosoficamente più complessa  del poeta. Se parte della visione eroica e protestataria del giovane Leopardi è certo figlia del famoso saggio di Cesare Luporini (Leopardi progressivo), Martone non lesina il sarcasmo dell'autore verso i progressisti liberali, sbeffeggiati nel testamento poetico dai versi stentorei ispirati dal panorama desertico del Vesuvio: "Dipinte in queste rive/ Son dell'umana gente/ Le magnifiche sorti e progressive".
Due volte Martone fa ribadire a Leopardi la sua comunanza con la visione degli orientali, distintamente gli indiani. Impossibile non pensare alla clamorosa coincidenza di date e idee con Schopenhauer (a cui abbiamo dedicato QUI alcune considerazioni), ma ancor più difficile appare negare il valore de L'Infinito come specchio perfetto di una meditazione sul non-dualismo.



Comprensibile, invece, la scelta, comunque coraggiosa, di affrontare subito il totem della "siepe", di far recitare, nell'ispirazione a voce alta, le tre poesie forse più celebri, o di menzionare le più note tra le lettere e le Operette Morali. Certo, vedere il Canto notturno di un pastore errante nell'Asia (forse la vetta poetica della letteratura italiana moderna) ridotto ad esser citato in un dialogo su un ponte fiorentino con Giordani ci ha stretto il cuore. Ma comprendiamo la necessità di scegliere un itinerario narrativo, necessariamente manchevole e arbitrario in un'opera non seriale.
Veniamo, dunque, alle scene più controverse e coraggiose del film.


In primo luogo, sontuosa è la citazione del Dialogo della Natura e di un Islandese: per quanto ci discostiamo dalla facile lettura freudiana che identifica la madre del poeta con la Madre Natura, la resa è maestosa. Non solo, la scelta restituisce piena giustizia alla posizione filosofica di Leopardi che (come ha spiegato in un saggio fondamentale, Dio in Leopardi il grande intellettuale contemporaneo Giovanni Casoli) non si limita al freddo ateismo dei philosophes illuministi, ma diventa una titanica rivolta antiteistica, come il grandioso, e poco conosciuto, Inno ad Arimane testimonia.



Molto si è discusso, invece, sulla veridicità dell'episodio, umiliante e beffardo, con l'ermafrodito nei bassi napoletani: Martone si esalta nella rappresentazione della sua Napoli, vitale, carnascialesca, ribollente Suburra di vizio e umanità. Lo sguardo, che qui si fa quasi pasoliniano, redime ogni volgarità: è vero che gli scugnizzi bersagliavano di crudeli lazzi il povero poeta, è comunque di grande pudore, nel grottesco, l'approccio tragico del poeta al peccato misterioso della lussuria.

                                      

Alto compendio della vicenda esistenziale leopardiana è il finale, affidato ai versi sublimi de La Ginestra. Mentre il poeta enuncia le sue terribili eterne verità, lo sguardo di Martone esplora le desolazioni desertiche del Vesuvio, la pietrificata morte di Pompei, fino a condurci nel mistero annichilente del silenzio cosmico.
Una scena a livello di un finale di Tarkovskij.
Elio Germano si fa maschera tragica, visione stentorea dello sguardo poetico sull'abisso.
Ricorda il volto indimenticabile e quasi intollerabile dell'ultimo Nietzsche.


Una vetta attoriale che, crediamo, non sarebbe stata sgradita a Carmelo Bene (non a caso unica voce dei Canti nella nostra nota).
Dunque: la sfida impossibile è inevitabilmente persa. Ma, proprio come insegnano i versi leopardiani, già il tentativo, disperato, eroico, necessariamente fallimentare, merita ben più degli onori veneziani, il Leone d'Oro a Martone e il Premio Pasinetti a Elio Germano.
Merita rispetto e gratitudine.
Il tributo degno dei veri artisti.


venerdì 21 novembre 2014

BLATTA di Alberto Ponticelli - l'inferno come destino sociale


Tutta, o quasi, l'arte del Kali Yuga è arte della nigredo.
Se dovessimo chiarire il concetto  a lettori non avvezzi al linguaggio esoterico, tradurremmo: tutta, o quasi, l'arte dell'ultimo secolo (periodo di grande confusione morale e progressivo smarrimento ideologico) è arte del dissidio, dell'esilio, della lacerazione, della disarmonia.
Tutti, o quasi, i grandi geni del Novecento, in ogni ambito artistico, sono stati in primo luogo testimoni del Nulla, cantori del fallimento, profeti della Morte, ossessivi talmudisti della mancanza di senso. Con accenti, toni e ispirazioni diverse, tutti maestosi monumenti al pessimismo più fosco.
 In letteratura, da Joyce a Beckett, da Céline a Fitzgerald a Kafka, in primo luogo: una magistrale esplorazione dello smarrimento di sé. Nel cinema, da Hitchcock a Kubrick, da Lynch a Polanski a Lars Von Trier: geni differenti, che condividono però uno sguardo spietato, crudele, implacabile sull'abisso di nequizie dell'animo umano. L'arte figurativa e la musica classica , con l'avvento di per sé destinato all'anacronismo delle avanguardie, hanno spalancato la porta dell'inferno, o meglio del subconscio, delle dissonanze, dell'impossibilità di visione (da Munch a Bacon, da Schöenberg a Luciano Berio). Nell'ambito della musica popolare, l'atmosfera è talmente intrisa di negatività, di compiacimento satanico e celebrazione del Male, da far proporre più volte addirittura la candidatura al Premio Nobel per uno dei pochi cantori universali, affrancati dal morbo collettivo di negazione esistenziale. Ci riferiamo ovviamente a Bob Dylan, che della presenza del Male fa spunto di ricerca gnostica (come dice il suo ammiratore Guccini: "la giostra dei miei simboli fluisce uguale per trarre anche dal male qualche compenso"). In filosofia tutto ciò è stato sistematizzato fin troppo: da Sartre a Ciorian, fino alle derive post-strutturaliste, registrando tardivamente ciò che l'arte aveva già intuito e manifestato (come dice il mio non amato Hegel in un'affermazione invero illuminante: "la filosofia arriva sempre troppo tardi...la nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo").
Restringendo il discorso al perimetro del fumetto italiano attuale, questa visione allucinata del reale, questo iperrealismo tetro e delirante, eppure tragicamente rivelatore, ha i suoi moderni maestri: Akab ne è il più potente creatore di icone, Maicol il più geniale aforista, Ratigher il narratore più efficace.
In questo indirizzo, con autonoma personalità autoriale, si iscrive pienamente Alberto Ponticelli con Blatta (ristampato recentemente da RW Linea Chiara).



Raramente atmosfere simili, di orrore distopico, ci colpiscono o attraggono*.
Ma il libro di Ponticelli ha il carisma nero di un monolite visivo, piantato come una tomba su ogni possibile speranza nell'umanità.
Saranno state forse le circostanze della prima lettura ad amplificare l'impatto devastante dell'opera sulla mia sensibilità. Ultimo giorno del Comicon, città di Napoli paralizzata dai festeggiamenti per la Coppa Italia: dopo esservi giunto a piedi, dribblando bombe artigianali e  prostitute nigeriane coi volti dipinti d'azzurro (somma tristezza, tingere di festa altrui la propria schiavitù), mi sono barricato nella Stazione Centrale, divorando il libro mentre centinaia di tifosi impazziti provavano a buttare giù a calci le vetrate, armati di mazze a volto coperto.
Circostanze indubbiamente peculiari, quasi un corollario vivente dell'assunto dichiarato in quarta copertina: "l'uomo non è in grado di gestire la propria libertà".
A una attenta rilettura, avvenuta dopo mesi in un ambiente sicuramente meno singolare, Blatta non cede nulla in potenza d'urto interiore.


Il libro è l'epitaffio su ogni delirio laicista riguardo le "magnifiche sorti e progressive" della tecnocrazia: l'immortalità ("per un laico la massima espressione dell'affermazione della vita"  fa dire Corrado Guzzanti a Padre Pizarro, in una delle sue più geniali invenzioni satiriche) diventa un sempiterno inferno. Senza rivelare nulla al lettore interessato, Ponticelli ci cala in una distopia, più che orwelliana, ultra-huxleyana, in cui la condizione umana è ridotta al nulla automatico, ben oltre qualsiasi incubo kafkiano o beckettiano. Qualsiasi possibile rivolta è stroncata in una reincarnazione coatta, qualsiasi impeto della volontà annullato in un impermeabile esistenza meccanica.
L'anomalia del Sistema (rappresentata, appunto da una blatta, l'insetto più ripugnante diventa simbolo e porta di un'impossibile libertà) conduce a un ulteriore straniamento, a una ancor più annichilente consapevolezza.
Ponticelli implacabilmente inchioda l'uomo alla sua nuda miseria animale, qualsiasi tentativo di ricostruzione sociale, di ritorno a una purezza edenica è travolto dal male divenuto Macchina, Sistema, Espropriazione dell'Identità.
Il condominio di Polanski de L'Inquilino del Terzo Piano, che congiura contro l'identità dell'individuo fino a condurlo allo smemoramento schizofrenico di sé, è divenuto l'intera umanità.
Il finale, sospeso, tra fuga e dissoluzione, abbandona il lettore alla più desolata contemplazione del nihil ontologico.
Per chi, come chi scrive, abitualmente si nutre della luminosa saggezza di Chesterton, delle illuminazioni di Tolstoj e delle visioni mistiche di Blake, riconoscere il valore di un'opera simile credo equivalga a conferire una medaglia artistica.




*Consentitemi una brevissima digressione: ho letto Debbi la strana di Paolo Di Orazio .
È un libro estremo, tremendo, a tratti intollerabile. Ogni pagina vomita incubi tragicamente plausibili, che invadono il subconscio del lettore come barbari infoiati assalirebbero un monastero. Tutto il Male del Mondo trasuda dalle righe acide e assordanti che compongono il racconto, ossessive e sfregianti come un rosario blasfemo.
Io che non sopporto lo splatter, e disprezzo il porno, non mi sento di consigliarlo a nessuno a cui voglia bene. Per i miei parametri, la censura scatterebbe alla seconda pagina.
Ma voi, e so che siete tanti, che amate questi generi, che siete cresciuti con Stephen King e Clive Barker, che adorate Lovecraft e vi nutrite di sguardi sulla negatività, non avete alternative: incoronate Paolo come Re d'Italia.
Per stile, profondità e spietatezza, non ha eguali...

martedì 18 novembre 2014

La Cura Schopenhauer


Per Camilla Crisante

Irvin Yalom è un professore di psichiatria alla Stanford University, che da anni riversa la sua decennale esperienza sul campo associandola allo studio dei grandi filosofi.
Ha finora scritto una ideale trilogia di romanzi, ciascuno dei quali incentrati sulla figura dei pensatori più congeniali alla sua ricerca: Schopenhauer, Nietzsche, Spinoza.
Per una sorprendente coincidenza, si tratta forse dei nostri prediletti (aggiungeremmo Kierkegaard e poi, fuori d'ogni etichetta, Camus e Simone Weil).
Abbiamo, dunque iniziato (grazie all'adorabile mecenate a cui è dedicata questa nota) il primo dei tre: La cura Schopenhauer.
L'assunto narrativo è presto dichiarato: un luminare della psichiatria scopre improvvisamente di avere sei mesi di vita. Lui, punto di riferimento costante dei suoi pazienti, cade in una profonda crisi esistenziale.
Decide, dunque, come forma di estrema introspezione, di ricontattare l'unico caso che non era riuscito a risolvere: un cinico apatico, schiavo di una ossessiva compulsione sessuale.
Lo riscopre collega, guarito non dalla psichiatria, ma dalla lettura del più pessimista e distaccato dei filosofi moderni: appunto, Arthur Schopenhauer.
Non rivelo altro per non rovinare la lettura, ma la narrazione continua alternando la descrizione dell'impatto della notizia sul gruppo di terapia, e della sua conseguente traumatica evoluzione, col racconto cronologico della vita del filosofo.
Il libro è un omaggio degno e profondo alla statura elevatissima del pensiero schopenhaueriano.

Friedrich Nietzsche* (il più geniale fra i suoi allievi e, in seguito, il più veemente dei suoi contestatori) fu il primo a rimarcare l'importanza pedagogica della figura di Schopenhauer come educatore, non a caso terza delle sue cruciali Considerazioni Inattuali.
Considerato da Tolstoj "il più geniale di tutti gli uomini", Schopenhauer è in primo luogo maestro di stile (anche in questo caso eguagliato e superato solo dal menzionato discepolo/ demolitore Nietzsche).
Come scrive Thomas Mann nel saggio del 1938 dedicato al filosofo (omaggiato senza menzionarlo nel romanzo giovanile I Buddenbrook), egli possedeva un "linguaggio vigoroso, elegante, preciso, passionale e arguto, di una purezza classica e di una grandiosa e serena severità stilistica, quali mai si erano viste fino ad allora nella filosofia tedesca".

uno dei più celebri ritratti di Friedrich Nietzsche

Tornando a Yalom, innanzitutto, è apprezzabile che nel libro si ribadisca come molte delle tesi freudiane siano già presenti nelle riflessioni del pensatore di Danzica, soprattutto in quel nerissimo gioiello, capolavoro a sé stante, che è la Metafisica dell'Amor Sessuale: uno squisito distillato di pessimismo antiumanista, che illustra con mirabile distacco l'intuizione leopardiana dell'amore come "inganno estremo".
Il libro rappresenta anche l'occasione per approfondire la conoscenza biografica della burrascosa vita del pensatore, lacerata tra l'impetuosa ricerca filosofica, permanenti ristrettezze pratiche e l'indifferenza dei contemporanei, ripagati abbondantemente con la scottante moneta del disprezzo.
Solo tardivamente, negli ultimi anni di vita, a Schopenhauer verranno tributati i giusti onori.
Celebri sono le sue sfuriate da libero docente all'Università di Berlino di fronte all'aula semivuota, mentre in quella accanto gli studenti si accalcavano in fila per ascoltare come un profeta l'odiato Hegel**. Yalom non risparmia nulla alla grande mente, si inchina alla sua lucidità e alla sua coerenza intellettuale ma non nasconde certo i suoi intollerabili difetti caratteriali: un cinismo sistematico, un egoismo fiero e sprezzante, non a caso proprio di colui che eresse e incarnò un monumento filosofico alla Misantropia.
Sgradevole ed esaltante insieme è il sarcasmo incendiario con cui il saggio pessimista deride e condanna gli esseri umani, o meglio i "bipedi" com'egli gli appella, alla vana insignificanza delle loro vite.
Altri, comunque, sono i pregi del libro, al di là della mera, preziosa opera di diffusione del pensiero schopenhaueriano.

Irvin D.Yalom
Per quanto chi scrive non riesca a celare un certo imbarazzo per l'atmosfera tipicamente americana delle terapie di gruppo (quella positività fittizia e sgradevole, quella superficialità di giudizio e quella scarsa istintiva conoscenza di sé che induce a confessarsi in pubblico appoggiandosi alla stampella precaria dell'approvazione altrui), Yalom conduce il gioco egregiamente, conciliando le esigenze di plausibilità della narrazione (e la conseguente presenza di banalità sciorinate da alcuni partecipanti al gruppo) con la progressiva agnizione di eterne verità filosofiche a cui il lettore è indotto.
Non sbrigativa e abbastanza affidabile è l'esplorazione delle pratiche meditative, in questo caso la vipassana, tra le più diffuse negli Stati Uniti e non solo (chi scrive non vi aderisce, ma è altro discorso).
Del resto, Schopenhauer è il pensatore occidentale che più ha attinto dichiaratamente all'oceano di saggezza della conoscenza orientale, come rivelano toni, concetti e visione di un passo del genere: "L’uomo che, dopo tanti angosciosi conflitti con sé stesso, riesce infine a ottenere una così piena vittoria, non è più altro, ormai, che un soggetto puro di conoscenza, un limpido specchio del mondo. Nulla può più angustiarlo e commuoverlo, perché egli ha spezzato i mille fili del volere che ci tengono legati alla terra: il desiderio, il timore, l’invidia, la collera, e simili passioni, che ci sconvolgono e ci dilaniano. Con volto placido e sorridente, contempla le immagini illusorie di questo mondo...".
I personaggi del romanzo, all'inizio eccessivamente stilizzati, col tempo assumono una complessità verosimile e rendono dialetticamente viva l'attualità del pensiero del filosofo.
La trama si svolge avvolgente, ritmata da colpi di scena  (alcuni prevedibili, altri meno), mantenendo alta l'attenzione della ricerca filosofica.
Di grande interesse la riflessione sull'incombenza della morte, tema di un testo cruciale di James Hillman del quale presto tratteremo.

Un libro valido, degno di una lettura attenta, che può rappresentare un confortevole viatico per addentrarsi nel pensiero di una delle più grandi menti filosofiche dell'Occidente moderno.

un celebre e tardo ritratto di Schopenhauer


* ne abbiamo parlato QUI e QUI
** ne abbiamo parlato QUI

giovedì 13 novembre 2014

TUTTI GLI ARTICOLI DI OTTOBRE






Cari lettori,
il vortice di impegni, progetti, articoli, deliri è tale che perfino queste comode note escono con ritardo ormai regolare.

Siate consapevoli però che nelle prossime settimane un cannoneggiamento di prelibate primizie intellettuali abbatterà i muri della vostra attenzione per conquistare il centro del vostro desco mentale.

Detto ciò, ecco a voi il mosto d'Ottobre.

Su FUMETTOLOGICA abbiamo pubblicato:

- L'intervista per #tavolidadisegno a Mabel Morri QUI.
In realtà, in questo caso ha fatto tutto lei, onorandoci col graditissimo dono di un'intervista disegnata.
Presto vi racconterò di una splendida serata in sua compagnia. In chiesa.



- Il racconto di Selfy, il progetto di Inuit, che combina un'importante visione culturale dell' autoproduzione con interessanti esplorazioni nelle nuove tecnologie di stampa QUI


- La conversazione iniziatica col Dr.Pira, tra le cui ardenti righe potreste trovare il senso recondito della vostra esistenza QUI



Su queste deliranti colonne, invece vi abbiamo inflitto:

- il recap del mese precedente;) QUI

Carmelo Bene visto da Tuono Pettinato


- il racconto del primo concerto romano di Morrissey QUI



- la recensione del film La Trattativa di Sabina Guzzanti (in realtà un appello ad andarlo a vedere) QUI



- Le celebrazioni per il primo anno di FUMETTOLOGICA QUI



- il racconto del Comicsday a Monterotondo, soffermandoci sulla scoperta di Metamorphosis di Giacomo Bevilacqua QUI



Vi dico solo che i prossimi articoli (sul blog) avranno come tema:
- Schopenhauer
- i rapporti fra il e la Kabbalah
- Ratigher
- Caligola e Edoardo II
- Zerocalcare
- Bowie/ Baudelaire e Dylan/Fitzgerald
- Chesterton e Wilde
senza citare un'intervista a un signore che non è esagerato definire il maestro di molte leggende viventi.

Più tutto quello che nel frattempo accadrà e scompaginerà come sempre i progetti d'ognuno.

Buona Lettura
e a presto con nuove mirabolanti avventure!