sabato 3 maggio 2014

"La memoria dell'acqua" di Reynès e Vernay




 


Proseguiamo il nostro reportage dallo stand Tunué con uno dei libri più apprezzati degli ultimi mesi.

Premiato lo scorso anno a Lucca col Gran Guinigi, candidato quest'anno al Premio Andersen della Fiera di Bologna, il volume di cui vogliamo parlare non è solo un libro per ragazzi.
Coppia nell'arte come nella vita, i francesi Mathieu Reynès e Valérie Vernay partono da spunti classici della letteratura d'avventura per rivelare l'esistenza di dolenti meccanismi interiori.
Niente a che vedere con i suggestivi e controversi esperimenti di Matsaru Emoto.
“La memoria dell’acqua” è un libro dallo sviluppo narrativo calibrato sapientemente: dall’iniziale intimismo, dosato fino al livello immediatamente precedente alla stucchevolezza, fino all’esplosione furiosa di elementi magico-soprannaturali, resa plausibile proprio dal lento crescendo della sceneggiatura.
Tutto è sfumatura, accenno, intuizione.
Anche in questo caso tornano elementi ben conosciuti della narrazione popolare e di genere: donne di buona volontà abbandonate da mariti scapestrati, inconfessabili segreti di famiglia, leggende nere che gravano come innominabili maledizioni su un villaggio, anziani e scorbutici guardiani del faro, bambine che svelano verità sepolte animate dall’inguaribile curiosità e dalla vivace incoscienza dell’infanzia. Tutto è pero reso con una freschezza espositiva che rende intenso e toccante il disvelarsi dei colpi di scena, pur quelli facilmente prevedibili.
In questo, oltre gli evidenti pregi grafici, grande impatto narrativo ha l’uso del colore, veicolo efficace per rendere i continui cambi di atmosfera che scandiscono la narrazione incrociata.
Siamo nel solco di una tradizione fumettistica solida come quella francese, l’originalità non risiede nei contenuti ma nell’affascinante gioco stilistico.
Una delle doti principali dell’opera coincide con quello che potrebbe apparire il suo punto debole: nonostante molto sia già visto o intuibile, la storia riesce comunque ad emozionare.
L’ordito della trama regge la tensione protratta fin dalle prime pagine, mutando nel fiabesco meccanismi di tensione rodati fino alla noia nel genere horror.
Un libro degno di una lettura attenta e ponderata.


"Watersnakes" di Tony Sandoval



Ho accettato volentieri il cortese invito della casa editrice Tunué - editori dell'immaginario ad essere ospitato al Comicon di Napoli per raccontare le loro attività di fiera e incontrare i loro autori.
E' stata l'occasione per conoscere e scoprire, artisticamente e umanamente, alcuni autori che non avevo mai accostato approfonditamente.
Nei prossimi giorni posterò una serie di ritratti/recensioni dei vari ospiti dello stand Tunué, oltre agli articoli su altri autori che verranno postati su Fumettologica.
Iniziamo con Tony Sandoval e il suo nuovo volume "Waternakes".


E’ un rinomato paradosso che leggendari maestri della commedia, immortali dispensatori alle masse della magia della risata, divenuti essi stessi sinonimo di comico (come Totò o Chaplin) siano stati nella vita privata invincibili malinconici, cronicamente timidi o amaramente introspettivi.
Un’antinomia uguale e contraria, interessante nella misura in cui è spiazzante, illumina la figura di Tony Sandoval.
Se le sue storie, ad una lettura immediata, colpiscono soprattutto per le ambientazioni cupe, i risvolti inquietanti, le atmosfere torbide e macabre, la sua personalità è tra le più solari e aperte del mondo del fumetto. Un vero e proprio compagnone, amante della birra, della buona tavola e delle lunghe chiacchierate notturne. Un messicano che risiede a Berlino (mescolanza quanto mai vivace e fascinosa), che mal sopporta l’invasione tecnologica dei social nelle nostre vite proprio perché ama e cerca il vero contatto umano. Un autore che si concede senza alcuna distanza ai propri fan, la cui naturale simpatia esplode in scroscianti risate, che ritmano  spontanemente il torrente di parole che riversa sull’interlocutore.

Uno dei rari momenti in cui con Sandoval non stiamo ridendo
Il suo ultimo libro, “Watersnakes”, possiede tutte le caratteristiche della sua identità autoriale, ormai giostrate con un controllo narrativo felicemente maturo.
La vicenda, fortemente connotata nelle chiavi del “diverso” e dell’oscuro, si nutre di numerose e contrastanti suggestioni, che la rendono intrigante anche a un lettore non di genere.
Tutto è sospeso tra magia e illusione, tra realtà e proiezione mentale, mantenendo costantemente teso fino alla fine il filo di una sottile ambiguità interpretativa.
Sandoval si concede anche qualche furbesco ammiccamento “diabolico” ai suoi lettori, ma sa calare una storia altrimenti poco avvincente in un contesto di grande forza simbolica. Senza spoilerare, l’autore mescola con malcelata sprezzatura elementi archetipici del mito universale (l’acqua come elemento di morte e resurrezione, il contatto vivifico col mondo dei morti, il sorgere dall’inconscio di potenti figure mistico-guerriere, l’accesso nel quotidiano ad un regno soprannaturale come chiave di lettura del cosiddetto mondo reale), dando così profondità e fascino ad una storia che altrimenti ben poco ci avrebbe attratto.
Oltre alla presa immediata di ingredienti disturbanti o lascivi, l’interesse che il libro desta è proprio nella capacità di creare nuove e convincenti variazioni su uno spartito già suonato con successo.
E la reinterpretazione costante delle propria ispirazione è il segreto di un autore longevo.

venerdì 25 aprile 2014

Il mio 25 Aprile



« È lei che ha fatto questo orrore?»
«No, è opera vostra »
(Picasso all'ambasciatore tedesco Otto Abetz)
È giunto il tempo di liberare la Liberazione.
Liberarla dai cappi ideologici, dalle appartenenze cromatiche destinate a svanire nella polvere dei secoli. e restituirle il suo valore simbolico universale.
Non fremete, nessun revisionismo, nessuna pacificazione politicamente corretta: il nazifascismo è stata la più grande manifestazione del Male nella Storia umana.
Ma la Liberazione non deve essere  una celebrazione retorica, strumentalizzata dagli indegni eredi dei "vincitori" di allora. Deve essere un appuntamento interiore per affrancarsi da qualsiasi odio, razzismo, intolleranza, di ogni forma e colore, per liberarci definitivamente da tutto ciò che oggi identifichiamo comodamente col fascismo. La Liberazione deve avvenire in primo luogo in ognuno di noi.
Deve essere il tragico e glorioso promemoria per spazzare via ogni forma di fascismo anche in chi antifascista si professa, con violenza eguale e contraria.

Piero Gobetti, uno dei più coraggiosi e profetici pensatori del Novecento

Sono sempre stato equidistante dagli illusori blocchi ideologici contrapposti che tuttora viziano anacronisticamente, come fantasmi molesti, il dibattito politico attuale.
Per me l'antifascismo (prima di essere combattuto sulle montagne) è stato quello dichiarato a testa alta, vent'anni prima, da Matteotti, da Piero Gobetti, dai fratelli Rosselli.
Anche da Gramsci, certo.
Ma il vero antifascismo è sempre stato, per definizione, antitotalitario.
Questo mi consente di studiare le pagine ardenti di Jùnger, di considerare Cèline il più grande narratore del Novecento, di portare il massimo rispetto alla tensione ideale di Ezra Pound.
Proprio perché sono antifascista.


A 11 anni vidi Film d'Amore e d'Anarchia di Lina Wertmullèr.
Alla fine del film, quando il protagonista, che s'immola ingenuamente in nome di un'utopia irrealizzabile, viene ammazzato di botte, pestato come un sacco di patate, volevo prendere a pugni tutti i fascisti del mondo.
Ma se il fascismo, identificato in quel vile atto di squadrismo è da condannare, lo è in quanto ingiustizia, viltà, sopruso, manipolazione delle vite altrui.
Elementi che ritroviamo fondanti in qualsiasi dittatura.
Anche, è evidente, in molte sedicenti democrazie attuali.
Quelle create dopo il fascismo, ad esempio.

Oggi il mio pensiero, senza retorica, tra le migliaia di eroi e martiri,  va a due persone in particolare.
La storia della prima la conobbi, alcuni anni fa,  in circostanze ben poco elevate.
Ero in uno studio medico, in attesa di essere visitato. Tutti conosciamo quei momenti di noia assoluta, in cui la mente s'impigrisce, non potendo concentrarsi su pensieri alti, in cerca di una distrazione anche futile per ammazzare quei pochi minuti prima del nostro turno. In quello studio, in mezzo alle consuete pile di "Gente" e "Oggi" dell'anno precedente, trovai una bella edizione illustrata del libro I Segreti di Roma di Corrado Augias. Non è mia intenzione ora soffermarmi sulle eventuali polemiche che possano coinvolgere l'autore.

Aprii il capitolo dedicato alla Resistenza, e lessi la storia del Generale Sabato Martelli Castaldi.

Sabato Martelli Castaldi, un italiano di cui essere fieri

Si era presentato spontaneamente alle autorità nazifasciste, assieme al suo compagno Roberto Lodi, per scagionare un innocente.
Mentre i nazisti lo torturavano, per estorcergli il nome dei compagni, rispose con una pernacchia.
Lo racconta  in un biglietto miracolosamente pervenuto alla moglie:
 "Penso la sera in cui mi diedero 24 nerbate sotto la pianta dei piedi, nonché varie scudisciate in parti molli e cazzotti di vario genere. Io non ho dato loro la soddisfazione di un lamento, solo alla 24° nerbata risposi con un pernacchione che fece restare i manigoldi come tre autentici fessi. Quel pernacchione fu un poema!"

D'improvviso, i miei occhi si riempirono di lacrime, lacrime di ammirazione, commozione e fierezza.
Tra i tanti difetti del nostro incerto popolo, quel generale aveva incarnato nella maniera più alta quel disprezzo della morte e quell'indifferenza sardonica che ha plasmato i migliori spiriti italiani.
Lo sberleffo dell'avversario fino all'estremo sacrifico, il senso del gioco nell'apice dell'eroismo, il potere della risata come scudo della Verità.
Il suo ultimo messaggio, prima della morte, inciso sul muro della prigione di Via Tasso fu:
"Quando il tuo corpo
Non sarà più, il tuo
Spirito sarà ancora più
Vivo nel ricordo di
Chi resta- Fa’ che
Possa essere sempre
Di esempio"

Maximilian Kolbe, su di lui la Pace

Questa riflessione mi porta all'altra figura sublime a cui voglio dedicare le mie riflessioni.
Maximilian Kolbe.
Un sacerdote francescano polacco al cui cospetto io, da fiero anticlericale, mi inchino e alla cui memoria  porgo per sempre un fiore.
Deportato ad Auschwitz, si offrì di morire in cambio di un padre di famiglia.
Lo scambio, in un momento di surreale compassione da parte degli aguzzini, fu concesso.
In pace assoluta, in quiete suprema, attese la morte con un calmo sorriso.
I nazisti furono talmente impressionati dalla sua pace da ordinargli di non sorridere.
Lui, ovviamente, non smise.
Aveva raggiunto la vera libertà. La vera Liberazione.
Che potevano fare i nazisti, per impedirglielo, ucciderlo?!
Un condannato a morte felice è lo smacco definitivo per i suoi assassini.
Un koan zen vivente, la santità che mette in cortocircuito il Male, la luce dell'innocenza che spazza via le tenebre.
Non è una metafora di Tolkien o di C.S. Lewis: è successo davvero.
Miracolo incarnato nella Storia
Le sue ultime parole, al medico che gli iniettava il mortale acido fenico prima che il suo corpo venisse disperso in cenere, furono: "Lei non ha capito nulla della vita...l'odio non serve a niente...solo l'amore crea"..
Al momento della morte, Kolbe aggiunse: "Ave Maria".
Il finale del "Faust" di Goethe divenuto realtà terrena:
“Tutto l’effimero
Non è che illusione
L'inadeguato -
Qui diventa evento;
L'indescrivibile -
Qui si è fatto;
L'eterno femminino
Ci porta in alto”.

Come scrisse Pèguy:  «la rivoluzione sociale sarà morale, o non sarà affatto».
Gli faceva eco più o meno negli stessi anni Gobetti, nella frase che riassume le nostre riflessioni:
 "Da queste esperienze nascerà la rivoluzione spirituale di questo popolo vissuto di rassegnazione e di mediocrità".

Nella mia ricerca spirituale, ho incontrato una personalità che è riuscita sia a ottenere, lottando, la libertà politica, che a raggiungere e diffondere la Liberazione spirituale  (c'è un interessante film a riguardo, chiamato proprio Freedom and Liberation).
Che oggi si celebri  la vera Liberazione, la  Moksha, liberazione dall'illusione del dolore e della sofferenza.

venerdì 11 aprile 2014

Intervista a Paolo Raffaelli + articolo su "I Combattenti" su FUMETTOLOGICA





Pur non essendo un adepto del culto bonelliano, nei tempi recenti, ho avuto occasione di leggere con grande piacere due albi della collana "Le Storie" che hanno attratto la mia attenzione.
Uno è "I Fiori del Massacro", di Recchioni e Accardi, di cui abbiamo parlato QUI.

L'altro è "I Combattenti" disegnato da Paolo Raffaelli su testi di Luigi Mignacco, di cui abbiamo parlato QUI.

Mi hanno colpito molto i disegni di Raffaelli, capace di descrivere con pochi segni un'atmosfera peculiare e mille volte già raccontata, appunto, con una nuova forza.
Il volto del soldato Madison a volte appare uno scorcio di bellezza pasoliniana, il pilota D'Arcy in un sorriso sardonico rivela più di un saggio sociologico sul conflitto fra le classi sociali in Inghilterra.
Espressioni che avrebbero potuto essere inserite in una storia di Cavalieri Templari o in un documentario sui The Clash.
Proprio perché lo sguardo dell'artista non è stato sedotto dalle sirene della mera ricostruzione storica, ma ha scavato negli istinti, nelle reazioni umane, eterne e per questo sempre attuali.

Paolo Raffaelli

Del resto, il disegnatore pare avere il senso dell'avventura, dell'arte, della ricerca e del rischio gloriosamente iscritto nel DNA.
Il personaggio straordinario raccontato in QUESTO articolo è suo zio carnale.

Abbiamo avuto anche l'occasione di conversare con Paolo nella rubrica #tavolidadisegno su Fumettologica.
L'intervista la trovate QUI.
Buona Lettura!

P.S.
I numerosi articoli e interviste legati al mondo del fumetto stanno prendendo molto spazio nel blog, che nasceva in realtà come dedicato ad altri argomenti (letteratura, filosofia, musica, spiritualità).


Prometto che dal prossimo mese, accanto alle comunicazioni sugli articoli pubblicati su Fumettologica e Linkiesta, torneranno gli articoloni infiniti di approfondimento delirante che molti di voi lettori apprezzano e ci chiedono!

mercoledì 2 aprile 2014

Intervista a Emilio Lecce per #tavolidadisegno su FUMETTOLOGICA




Ieri è uscita su FUMETTOLOGICA  per la rubrica #tavolidadisegno l'intervista a Emilio Lecce.
Come altre interviste che sto pubblicando queste settimane, ciò che leggete a volte è un patchwork di varie conversazioni avvenute nell'arco di un anno, in cui in pochi incontri ho avuto il privilegio di seguire l'evoluzione stilistica e i vari progetti di autori molto diversi fra loro (Dell'Otto, Pontrelli, Dell'Edera, altri che seguiranno e appunto Lecce).
E' molto interessante la stratificazione di esperienze, influenze reciproche e confronto quotidiano che la condivisione di uno studio può ingenerare tra autori completamente diversi, ma duttili e complementari.


Stefania Nebularina immortala il mio rapimento

In particolare. ci sono due motivi che mi fanno apprezzare il lavoro di Emilio, al di là della comprovata abilità tecnica (che senza cuore artisticamente lascia il tempo che trova).
Il primo è la sua sensibilità, e il suo pudore, nell'affrontare storie di grande valore civile.
Mi riferisco ovviamente a "E' lui che mi sorride", su testi di Alessandro di Virgilio, per la Round Robin Editrice, che racconta la tragica vicenda di Giancarlo Siani, coraggioso giornalista ucciso dalla mafia nel 1985 per le sue testimonianze scomode.



La seconda è una valutazione extra-artistica, su una condizione di grazia esistenziale, che informa ontologicamente lo spirito dell'autore e quindi irrora della sua luce ogni tavola della sua opera, come fosse un frammento di rivelazione.

Emilio appartiene a una casta spiritualmente aristocratica, temprata da ideali sublimi ed eterni valori, come i suoi lineamenti fieri e nobili dichiarano con franca serenità.
Una religione elitaria per pochi felici.

Se non avete capito ancora, la spiegazione è in questa foto:


Ah, che sbadato.
L'intervista la trovate QUI
Buona Lettura!

P.S.
Grazie a Stefania Nebularina (seguitela!) per le foto!!!