David Bowie nelle ultime toccanti immagini di Lazarus
Care lettrici, cari lettori,
Maggio, forse per benedizione mariana, è stato mese proficuo, pieno di eventi e nuove collaborazioni.
Ecco la ricca messe.
Illustrazione di Paolo Cammello del 2013 su il Tempo in Dylan e F.S.Fitzgerald
Su La Repubblica XL abbiamo parlato de: - il concerto di Teho Tehardo e Blixa Bargeld al Teatro Quirinetta di Roma QUI - la seconda, bellissima edizione dell'Arf!, impreziosita dalla storica mostra di Hugo Pratt (e più umilmente, tra i tanti interventi, anche da un mio incontro con LRNZ) QUI - L'inevitabile celebrazione dei 75 anni del nostro artista preferito, l'immenso Bob Dylan QUI - L' intervista a Francesco Donadio sul suo grande lavoro filologico sui testi di Bowie, Fantastic Voyage, che ho avuto il piacere di introdurre durante la mostra DavidBowieBlackStardust allo SpazioCimaQUI
Anna Politokvskaja
Su il Blog de Il Fatto Quotidiano invece: - abbiamo parlato di Donna non rieducabile, spettacolo in omaggio ad Anna Politovskaja, con una straordinaria Elena ArvigoQUI
Su Minima&moralia abbiamo parlato di una rarità e due libri a cui teniamo molto: - L'Asino mortodi Jules Janin recensitoQUI - L'intervista a Massimo Palma suHappy DiazQUI - L'intervista alla traduttrice diLost in Translation Ilaria Piperno QUI
Su Fumettologica ci siamo occupati: - diIo sono Sharaui, fumetto in ricordo della straordinaria Mariem Hassan di Gianluca Diana e Andromalis QUI - del fumetto ispirato al grande VladimirMajakovskij di Laura Peréz Vernetti QUI - dei 60 anni del grande Andrea Pazienza, in particolare dello storico Pentothal QUI
Sulle colonne di spezzandolemanettedellamentevi abbiamo invece parlato de:
- Il dono pianistico di quell'adorabile Animale Musicale che è Michele Sganga QUI - La ricerca eretica tra Gnosi e Bhakti di ValentinoBellucci QUI - L'omologo articolo riassuntivo sulle pubblicazioni di Marzo e AprileQUI(da Pasolini a Michelangelo, dai Baustelle ai Marlene Kuntz, da Prince a Pergolesi)
Inoltre, in questo mese abbiamo esordito su due nuove testate, entrambe nel segno del Duca Bianco:
- Su D.A.T.E. Hub abbiamo lanciato la mostra su David Bowie allo Spazio Cima QUI
(siamo stati anche intervistati a riguardo da Giovanni VillaniQUI, dopo già questa breve intervista video su Astrogamma, Lost in Translation ed Happy Diaz per Letture Metropolitane QUI) - Abbiamo proprio esordito con una rubrica sul Bowie esoterico (Risonanza Magnetica) sul nuovo progetto DavidBowieBlackstar QUI
Giugno se possibile è stato ancora più fecondo, per cui continuate a seguire i nostri deliri.
Buona Lettura!
Sulle infinite interpretazioni di un capolavoro di suprema ambiguità quale Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino di Carlo Collodi si potrebbe stilare un'enciclopedia, non un libro.
Limitiamoci, dunque, ad elencare le versioni a noi più care, compagne fedeli di una ormai quasi trentennale ricerca.
Uno degli scatti più celebri di Zolla
Chiariamo subito che per noi l'interpretazione esoterica non è corretta, è clamorosamente evidente: come ha scritto il grande studioso Elémire Zolla: "Il Pinocchio di Collodi è un miracolo letterario dalla profondità esoterica quasi intollerabile".
In Uscite dal Mondo (Adelphi, un libro bellissimo che ha il solo difetto di dedicare un capitolo a un noto falso guru indiano oggetto di continui sberleffi sui social network), la penna suprema di Zolla verga pagine memorabili, senza temere di scomodare Apuleio e Goethe:
"Le figure eterne sono in buona parte presenti in Pinocchio.
Quella del burattino simbolico innanzitutto.
Quella della donna beatificante o Vergine Sapienza: la fatina collodiana continua la tradizione di Beatrice e di Laura con sommo onore.
Quella degli aiutanti e degli avversari soprannaturali che accompagnano o ostacolano il cammino dell’iniziazione.
Quella del prologo nei cieli. Il demiurgo in molte tradizioni è un falegname e marionettaio. In sanscrito si dice sutradhara che vuol anche dire regista o architetto. La miseria e buffonaggine ovvero la caduta del mondo proviene in molte tradizioni arcaiche da un contrasto fra il Demiurgo cosmico e il Padre Celeste, narrato anche nelle cosmogonie gnostiche.
Una delle versioni più squisite è il preludio del Pinocchio.
L’archetipo della morte e della rinascita quasi dappertutto e sempre torna a vestirsi nella forma simbolica d’un inghiottimento nel ventre della balena o nelle sofferenze asinine o nel serpente verde che atterrisce, ma ha il segreto della rinascita".
Non possiamo soprattutto che sottolineare questa esemplare risposta data a Silvia Ronchey in QUESTA intervista: "Ovviamente Pinocchio è la storia di un'iniziazione. Come le Metamorfosi di Apuleio. Ha presente le pagine finali? Il latino del grande retore diventa una lingua infantile quando narra l'epifania di Iside, la madre universale, colei che compare nei sogni se si sogna rettamente... Che poi in Collodi è la fata dai capelli turchini".
Tralasciando le pacchiane pagliacciate di Benigni (il burattino castrato e zompettante fu il primo sintomo della decadenza), il classico Disney e il capolavoro nazionalpopolare di Comencini, inevitabilmente non possiamo non menzionare l'opera artistica che, come già confessato su queste colonne, ci folgorò l'infanzia: ovviamente il Pinocchio di Carmelo Bene.
Per il monstrum salentino l'icona del burattino rappresentava lo "spettacolo dell'infortunio sintattico nel teatrino perverso della Provvidenza ("la bella bambina dai capelli turchini") e dell'indisciplina cieca d'un pezzo di legno crocifisso da pro-verbi tricolori della carne: mortalità natale e sciagurata crescita umana''.
Un concetto illustrato con magistrale capacità di sintesi e maggiore chiarezza in una fulminante battuta: "è la storia di un bambino inumato prematuramente che scalcia nella propria bara".
Affine per sottile genialità e abissale introspezione, è il prodigio letterario di Giorgio Manganelli, Pinocchio. Un libro parallelo (come tutti i libri dalla bellezza rara, Adelphi): una riscrittura capitolo per capitolo del testo collodiano, in cui il gioco metaletterario dell'acutissima mente dissacrante dell'autore capovolge e spazza via qualsiasi equivoco sentimentale sull'inquietante racconto simbolico.
Riportiamo solo l'incipit, per invogliarvi alla lettura:
"C'era una volta...
– Un Re...
No...
Quale catastrofico inizio, quanto laconico e aspro, una provocazione, se si tiene conto che i destinatari sono i "piccoli lettori", i "ragazzi", soli competenti di fiabe e regole fiabesche. A scrutare tra gli interstizi di queste sette parole, si scopre subito una favola nella favola, qualcosa che è prossimo al cuore d'ogni possibile favola. Il "c'era una volta", è, sappiamo, la strada maestra, il cartello segnaletico, la parola d'ordine del mondo della fiaba. E tuttavia, in questo caso, la strada è ingannevole, il cartello mente, la parola è stravolta. Infatti, varcata la soglia di quel regno, ci si avvede che non esiste il Re.".
Giorgio Manganelli
E i fumetti?
Anche qui, dovremmo licenziare un volume della Treccani: dalle tre storiche versioni di Jacovitti alle illustrazioni di Galeppini, dalla reinterpretazione di Sto fino a Bunker/Chies e Bottaro.
Il Pinocchio di Jacovitti
Tra le più recenti, vorremmo ricordarne tre: quella di Ausonia, quella di Winshluss e quella di Marco Corona.
Perfettamente coerente con la sua poetica, Ausonia in Pinocchio. Storia di un bambino (RW Linea Chiara) capovolge specularmente, fin dal titolo, la prospettiva convenzionale, ispirandosi ad un assunto semplice e spiazzante: "E se la fiaba del burattino bugiardo fosse essa stessa una bugia? Rileggendola al contrario se ne ricava un messaggio che spinge alla rivolta".
Pinocchio, invece che al percorso iniziatico del romanzo di formazione, è sottoposto ad un itinerario quasi sadiano di destrutturazione psicologica: un interrogatorio dai tratti orwelliani lo inchioda alla colpa sociale di voler dire la verità. Tutto è rovesciato: Pinocchio viene umiliato, violentato, ingannato, solo l'incontro con Lucignolo è un'oasi di innocenza.
Un libro che è un sistematico capovolgimento delle convenzioni sociali, giocato con brillante astuzia dialettica su una delle icone più popolari del mondo.
Simile per alcuni versi, ma molto differente stilisticamente, è il Pinocchio di Winshluss (Comicon Edizioni): un notevole sforzo creativo, giocato sulle variazioni più spinte della rappresentazione alternativa e marcia del personaggio. Costruito come un robot da guerra, il protagonista, nei differenti quadri visionari che compongono la narrazione, incontrerà qualsiasi sfumatura di violenza e perversione. Qui sono assenti la cupa introspezione psicologica e l'eversiva carica antisociale di Ausonia. Il rovesciamento ulteriore è un controcapovolgimento: Lucignolo è triste e perdente, Pinocchio è un innocente macchina di morte, accolto come un Messia, ove invece sarà inconsapevole messaggero di caos.
Un libro ragguardevole a livello visivo, disturbante concettualmente.
Tra le numerose versioni, quella di Marco Corona spicca per equilibrio tra decoro formale ed originalità.
Pur nella classica eleganza della confezione Rizzoli Lizard, pur aderendo all'iconografia tradizionale dei personaggi collodiani, le illustrazioni del disegnatore rappresentano un omaggio libero e personale, incurante di ogni cura filologica, volto all'evocazione del ricordo, confuso ma autentico, delle letture infantili.
Tema centrale è lo stupore dettato dal primo incontro col personaggio, nella riscrittura mentale operata dalla fervida immaginazione di un bambino.
Come spiega lo stesso autore: "Questo Pinocchio, che è il Pinocchio come lo ricordo io, è mio e di nessun altro, e allo stesso tempo è il Pinocchio di tutti. È il racconto di Collodi illustrato così come la mia memoria l’ha restituito dopo averlo ingurgitato; corre lungo i binari del racconto tradizionale e improvvisamente sbanda, deraglia, imbocca strade diverse, costruisce da sé nuovi binari da percorrere, immagina nuove avventure possibili e impossibili. [...] Così, nella mia testa, tutto ha potuto trasformarsi, pur rimanendo uguale. E tutto continua a trasformarsi, anche ora che la mano ha fermato sulla tavola l’impressione della mia fantasia.”
Per chi segue e apprezza il talento grafico di Corona, è interessante osservare la trasformazione dal tratto lisergico e quasi felliniano de La seconda volta che ho visto Roma (sempre Rizzoli Lizard) alla compostezza da classico moderno delle illustrazioni del Pinocchio.
La versatilità dell'autore piemontese bilancia il rispetto per la tradizione grafica con l'indipendenza narrativa, in quella che è una serie di illustrazioni non didascaliche, in cui è chiaro il riferimento alle illustrazioni tardo ottocentesche di Enrico Mazzanti e Carlo Chiostri, ma in cui l'ispirazione si nutre principalmente, come detto, dell'humus fertile e caotico dei propri ricordi sfocati.
Confessiamo che attendevamo il volume da tempo, e avremmo desiderato una vera e propria riduzione a fumetti.
Un'illustrazione del Pinocchio di Corona
Ci consoleremo con l'annunciata riedizione del libro di Corona su Frida Kahlo.
Tra Vanna Vinci e lui sarà una grande sfida nel rappresentare una personalità dal carisma così singolare.
Consentiteci, prima di terminare un saluto al grande Paolo Poli:
P.S.
Questo non può essere un articolo esaustivo, su un tema così vasto e stimolante.
Accettatelo nei suoi limiti, come un elenco di spunti, spero stimolanti, per approfondire nelle vostre letture le infinite possibilità di riflessione che un classico come Pinocchio può ancora offrirci.
Solo ora mi accorgo che su queste deliranti colonne mai si era affrontato il rapimento estatico della danza classica.
Occasione è una serata in omaggio a uno dei più perfetti esemplari tra gli esseri umani documentati visivamente: l'immenso principe del volo danzante Rudolf Nureyev.
Scenario, le maestose rovine delle Terme di Caracalla, parto del genio machiavellico dei Severi, che videro le correzioni del folle Eliogabalo e le ricerche archeologiche sotto i papi rinascimentali, fino alle gare di ginnastica delle Olimpiadi del '60.
Lo spettacolo architettonico della cornice en plein air unica al mondo mostra anche i suoi goffi risvolti: se si ha un post defilato la visuale è distratta dalle ballerine che si allenano dietro le quinte, esultano per una performance ben riuscita o parlottano emozionate, per non parlare dei tecnici che armeggiano o vengono illuminati sul palco al momento sbagliato.
Tralasciando però questi trascurabili incidenti, lo spettacolo è bello e emozionante.
Per un ballerino nato negli ultimi anni del Novecento riprodurre fino alla mimesi i passi e le movenze di un'icona come Nureyev è il cimento più pericoloso: il rischio è che centinaia di pernacchi risuonino tra le vestigia solenni della demagogia imperiale.
L'effetto è quello che si prova quando si assiste a qualcuno che recita una commedia di Eduardo o Dario Fo interpretandone i ruoli principali, indissolubilmente legati agli autori originali.
Il tutto, con un sovrappiù di tecnica, carisma e presenza scenica inimitabili, tali da rendere l'impresa degna di un kamikaze nichilista.
Eppure, allo sguardo avido di meraviglia di noi profani spettatori, per noi che come il buon Louis CK viviamo momenti di fatica indicibile nel quotidiano tentativo di indossare i calzini, l'esibizione dei solisti e dei primi ballerini dell'Opera di Roma è stata ottima.
L'omaggio si articola portando in scena alcune delle più celebri coreografie del genio russo naturalizzato austriaco.
Non abbiamo l'autorità per parlare degnamente di uno dei più celebri ballerini di tutti i tempi, l'essere celeste e alato incarnatosi durante un viaggio su un treno nei pressi di Irkutsk: da ignoranti fruitori del suo splendore artistico, confessiamo solo un peregrino e ingenuo accostamento a Glenn Gould, non solo per il genio ma per il fascino e l'indipendenza carismatica della loro personalità.
Probabilmente, l'innovazione apportata da Nureyev nel balletto è meno sconvolgente di quella di Gould nell'esecuzione pianistica, forse la sua libertà è stata fieramente manifestata più nei comportamenti fuori dalla scena che nella reinterpretazione coreografica dei capolavori moderni, eppure ci permettiamo di dichiarare che una mente forse ancora adolescenziale come la nostra li contempla assisi su scranni dorati adiacenti, nel nostro pantheon personale, complice forse la grande risonanza pop delle loro figure (di quella del danzatore ne sanno qualcosa i Muppet)
A questo punto, lasciamo la parola a Patricia Ruanne:
Consentitemi, prima di parlare (per quanto ci consenta la nostra scarsa preparazione) dello spettacolo, una concessione volante all'imprescindibile elemento cafonal delle serate romane, che tinge di surrealismo anche gli eventi squisitamente culturali.
A parte l'elegantissima presenza della direttrice Eleonora Abbagnato (ogni volta circondata dal festoso corteo delle sue bimbe), durante la pausa, ho incontrato un affabile Harvey Keitel nelle toilette maschili.
Stringere la mano a Mr.Wolf ha rappresentato solo l'acme di una serata costellata di incontri indimenticabili: una tredicenne sosia di Sasha Grey ma più alta di me, una signora che impediva la mia visuale col corpo di Adinolfi e la capigliatura del primo Abatantuono, ma più di tutti memorabile un russo forse ubriaco, che al termine dell'intro collettiva del terzo atto de La Bayadère ha attirato l'attenzione con un peto perfettamente incastonato in una pausa dello spartito di Minkus.
Per tacere delle 27 bottigliette di plastica accartocciate durante lo spettacolo da mani degne di essere regalate per compleanno a uno psicotico armato di tronchesi.
Nelle serate romane, a dispetto di Jep Gambardella, non ci si annoia.
Si inizia col terzo atto della Raymonda di Alexandr Glazunov, in cui il genio coreografico di Nureyev tocca a nostro modesto giudizio i livelli più alti, forse per la risonanza interiore delle radici russe (il balletto nacque originariamente dall'immaginazione di Marius Petipa, leggendario maître de ballet del balletto imperiale di San Pietroburgo): inenarrabile la leggiadria festosa, la grazia giocosa, la progressione trionfale che emergono dai movimenti disegnati sulla scena, una rispondenza perfettamente armoniosa col tumulto dell'orchestra, soprattutto nel trascinante crescendo dell'apoteosi finale.
Il secondo tempo vira su coreografie classiche: La Polonaise e il celeberrimo Pas de Trois del cigno nero, tratti da Il Lago dei Cigni di Cajkovskij, e il terzo atto de La Bayadère di Ludwig Minkus.
La prima parte del secondo atto è ripresa dalla celebre versione portata da Nureyev alla Scala di Milano (la trovate tutta QUI) nel 1990.
Molto si è speculato sull'interpretazione "oscura" dell'opera, in cui il coreografo avrebbe disseminato indizi su una propria lotta interiore, sul predominio e la fascinazione del lato oscuro, sul volontario cadere nell'inganno tra le identità di Odette e la figlia del malvagio mago Rothbart.
Per intenderci, teorie interpretative non dissimili da quelle che circolano su Bohemian Rhapsody del suo amico Freddie Mercury.
Ciò che rimane indiscutibile è la bellezza assoluta del gioco coreografico, le melodie gestuali che variano quelle cajkovskijane, in una tensione tra elementi contrastanti, in cui la tecnica (elevatissima) scompare al servizio di una narrazione incantata.
Inevitabile il finale dedicato a La Bayadère, l'ultima coreografia riproposta da Nureyev nel '92, già notoriamente malato di Aids, salutato alla sua ultima uscita pubblica da un commovente lunghissimo applauso da parte di tutto il pubblico, alzatosi in piedi, nel Palais Garnier.
Forse per la consapevolezza della fine incombente, Nureyev pare aver trasfuso tutta la sua sapienza, tutte le sfumature esplorabili, tutti i picchi raggiunti in carriera: i solisti strappano più volte applausi a scena aperta per la straordinaria difficoltà delle esecuzioni.
Gli applausi sono convinti e sinceri.
Il geniale ballerino russo non sta certo facendo una piroetta nella tomba.
Un omaggio degno, non solo al grande Nureyev, ma al potere pacificante del balletto, una forma suprema di resistenza estetica in un mondo devastato dal Brutto.
Quando a 400 anni dalla sua morte un artista viene celebrato ininterrottamente per 365 giorni in tutto il mondo, qualsiasi omaggio ulteriore è probabilmente superfluo. William Shakespeare è senza dubbio l'autore di teatro più famoso di tutti i tempi, superando i limiti della sua forma artistica e splendendo nel pantheon dei sommi autori dal valore universale, accanto a Omero, Virgilio, Dante e Goethe, per limitarci alla cultura occidentale.
Come sottolineò T.S.Eliot (nel confronto fra i grandissimi), l'opera di Dante è più universale, ma in Shakespeare c'è più varietà.
È proprio il dono della varietà che ha consentito al Bardo di donarci un affresco immenso e cangiante dei differenti, contrastanti aspetti dell'animo umano.
La vita come palcoscenico, l'esistenza come commedia, di cui dobbiamo essere al contempo attori e spettatori: questa antica verità, propria di tutte le tradizioni sapienziali, Shakespeare l'ha declinata magnificamente nell'imponente splendore della sua opera. Amleto, Re Lear,Romeo, Otello, Macbeth, Oberon, Ofelia, Giulietta, Mercuzio, Puck, Cesare, Shylock, Riccardo III...numerose sono le maschere shakespeariane, inventate o ispirate a personaggi storici, divenute, con la forza di veri archetipi, punti di riferimento della coscienza collettiva.
Dopo il grande successo della mostra dedicata a David Bowie (di cui abbiamo parlato QUI QUI e QUI), Spazio Cima dedica Tutto Il Mondo è un Palcoscenico- In The Mood for Shakespeare al grande Bardo.
Il programma, dal 14 al 18 Giugno, come nell'evento precedente è vario e interessante: dalla serie di scatti dedicati a Romeo e Giulietta di Ottavio Marino, passando per la presentazione del libro L'immagine femminile in Shakespeare di Paolo Randazzo, alle foto di scena di Al Pacino nei panni di Shylock scattate da Ruggero Rosfer, un festival di cortometraggi selezionati dal Globe Theatre, per concludere con una festa ispirata ai sonetti amorosi e al Sogno d'una notte di mezza estate.
Nel dettaglio, potete consultare il programma QUI.
Un evento da inserire nella serie di innumerevoli omaggi globali che provano, ciascuno come singolo tassello, a provare a comporre il mosaico complesso e rivelatore del genio shakespeariano.
Dettaglio della statua di Giordano Bruno a Campo de' Fiori a Roma
Due città, due microcosmi conchiusi e distanti, due tradizioni sotterranee e incrociate, due libri molto interessanti che le raccontano.
Napoli e Trieste.
Accostamento quanto mai anomalo: la città del sole e dei bassi chiassosi posta accanto al freddo e alla compostezza della piccola Vienna, i guaglioni sfrontati e ridenti dei Quartieri Spagnoli mescolati alle distinte signore in pelliccia che escono dal Caffè Tommaseo, la lava ardente del Vesuvio e il gelo della bora, Eduardo che conversa con Svevo, risi e bisi addolcito da una sfogliatella.
Tutto appare stridente.
Eppure, a parte il primato condiviso del caffè, c'è un legame strano, invisibile, per nulla scontato, che lega le due inaccostabili realtà: due città a loro modo di confine, costrette da una storia diversa ma egualmente tormentata a divenire multietniche, divise tra nostalgie di glorie passate e un'appartenenza italiana sospesa tra profonda identità autarchica e slanci patriottici.
Soprattutto, quasi al livello della capitale dell'occulto Torino, sono due città percorse da un tacito e imponente fondamento di sapienza esoterica.
I due libri che intendiamo segnalarvi affrontano con approccio intuibilmente diverso quelle che delineano come due roccaforti metropolitane della conoscenza iniziatica.
Ne Il Rinascimento napoletano e la tradizione egizia segreta (Ed. Narcissus.me), Salvatore Forte sceglie un peculiare filo sotterraneo, nell'oceano di conoscenza misterica che sottende all'architettura di Nèapolis (dai culti isiaci alle leggende legate al mago-profeta Virgilio): la discendenza diretta del neoplatonismo partenopeo dagli antichi riti egizi, da sempre considerati in certi filoni di ricerca esoterica come fonte della Tradizione.
Da grande cultore della figura di Giordano Bruno, Forte rende ovviamente il carismatico sapiente di Nola il protagonista principale di questa ed altre ricerche.
Il punto certo più interessante del ricco libretto (minuto ma assai denso di nozioni e spunti) è il tentato disvelamento dei significati occulti presenti nella Cappella Carafa in S.Domenico Maggiore, supposto teatro d'ispirazione per il consesso degli Dei nello Spaccio della Bestia Trionfante, opera fortemente iniziatica di Bruno.
Non vogliamo rovinarvi il piacere della scoperta nella lettura, ma il nucleo della riflessione verte su alcune vestigia egizie presenti nella cappella, traccia indiscutibile per Forte del passaggio di conoscenze iniziatiche di cui poi Bruno fu carismatico e impetuoso messaggero e testimone.
Diverso l'approccio di Francesco Boer, ne Il Volto Arcano di Trieste (Bruno Fachin Editore), libro meno assertivo rispetto al precedente, non lo definiremmo un testo iniziatico, più un agevole prontuario per addentrarsi nei significati nascosti dell'architettura della città.
Come in altri testi, quali Alchimia dei Simboli, l'autore non teme di indulgere nella didascalia: il suo approccio è divulgativo, scevro da compiacimenti professorali, allergico a certe etichette tradizionali in senso guenoniano, costantemente in ricerca di nuovi spunti e stimoli, senza dogmi. Boer (autore anche del romanzo Il Viaggio Sotterraneo) è cercatore aperto, laico, erudito ma non accademico, nei suoi testi appare sempre provvida l'ironia a stemperare l'eventuale rischio di toni ieratici.
Abbiamo personalmente utilizzato il testo come guida in una recente visita triestina, e ne abbiamo potuto apprezzare la gradevole narrazione e la puntuale precisione nelle informazioni.
Sia Boer che Forte gestiscono due pagine Facebook molto interessanti (Alchimia dei Simboli il primo, Giordano Bruno e i Rosacroce il secondo) che vi invitiamo a visitare come quotidiana occasione di spunti, scoperte ed intuizioni.
Due compagni di ricerca culturale che meritano la vostra attenzione e di cui parleremo ancora.