Solo ora mi accorgo che su queste deliranti colonne mai si era affrontato il rapimento estatico della danza classica.
Occasione è una serata in omaggio a uno dei più perfetti esemplari tra gli esseri umani documentati visivamente: l'immenso principe del volo danzante Rudolf Nureyev.
Scenario, le maestose rovine delle Terme di Caracalla, parto del genio machiavellico dei Severi, che videro le correzioni del folle Eliogabalo e le ricerche archeologiche sotto i papi rinascimentali, fino alle gare di ginnastica delle Olimpiadi del '60.
Lo spettacolo architettonico della cornice en plein air unica al mondo mostra anche i suoi goffi risvolti: se si ha un post defilato la visuale è distratta dalle ballerine che si allenano dietro le quinte, esultano per una performance ben riuscita o parlottano emozionate, per non parlare dei tecnici che armeggiano o vengono illuminati sul palco al momento sbagliato.
Tralasciando però questi trascurabili incidenti, lo spettacolo è bello e emozionante.
Per un ballerino nato negli ultimi anni del Novecento riprodurre fino alla mimesi i passi e le movenze di un'icona come Nureyev è il cimento più pericoloso: il rischio è che centinaia di pernacchi risuonino tra le vestigia solenni della demagogia imperiale.
L'effetto è quello che si prova quando si assiste a qualcuno che recita una commedia di Eduardo o Dario Fo interpretandone i ruoli principali, indissolubilmente legati agli autori originali.
Il tutto, con un sovrappiù di tecnica, carisma e presenza scenica inimitabili, tali da rendere l'impresa degna di un kamikaze nichilista.
Eppure, allo sguardo avido di meraviglia di noi profani spettatori, per noi che come il buon Louis CK viviamo momenti di fatica indicibile nel quotidiano tentativo di indossare i calzini, l'esibizione dei solisti e dei primi ballerini dell'Opera di Roma è stata ottima.
L'omaggio si articola portando in scena alcune delle più celebri coreografie del genio russo naturalizzato austriaco.
Non abbiamo l'autorità per parlare degnamente di uno dei più celebri ballerini di tutti i tempi, l'essere celeste e alato incarnatosi durante un viaggio su un treno nei pressi di Irkutsk: da ignoranti fruitori del suo splendore artistico, confessiamo solo un peregrino e ingenuo accostamento a Glenn Gould, non solo per il genio ma per il fascino e l'indipendenza carismatica della loro personalità.
Probabilmente, l'innovazione apportata da Nureyev nel balletto è meno sconvolgente di quella di Gould nell'esecuzione pianistica, forse la sua libertà è stata fieramente manifestata più nei comportamenti fuori dalla scena che nella reinterpretazione coreografica dei capolavori moderni, eppure ci permettiamo di dichiarare che una mente forse ancora adolescenziale come la nostra li contempla assisi su scranni dorati adiacenti, nel nostro pantheon personale, complice forse la grande risonanza pop delle loro figure (di quella del danzatore ne sanno qualcosa i Muppet)
A questo punto, lasciamo la parola a Patricia Ruanne:
Consentitemi, prima di parlare (per quanto ci consenta la nostra scarsa preparazione) dello spettacolo, una concessione volante all'imprescindibile elemento cafonal delle serate romane, che tinge di surrealismo anche gli eventi squisitamente culturali.
A parte l'elegantissima presenza della direttrice Eleonora Abbagnato (ogni volta circondata dal festoso corteo delle sue bimbe), durante la pausa, ho incontrato un affabile Harvey Keitel nelle toilette maschili.
Stringere la mano a Mr.Wolf ha rappresentato solo l'acme di una serata costellata di incontri indimenticabili: una tredicenne sosia di Sasha Grey ma più alta di me, una signora che impediva la mia visuale col corpo di Adinolfi e la capigliatura del primo Abatantuono, ma più di tutti memorabile un russo forse ubriaco, che al termine dell'intro collettiva del terzo atto de La Bayadère ha attirato l'attenzione con un peto perfettamente incastonato in una pausa dello spartito di Minkus.
Per tacere delle 27 bottigliette di plastica accartocciate durante lo spettacolo da mani degne di essere regalate per compleanno a uno psicotico armato di tronchesi.
Nelle serate romane, a dispetto di Jep Gambardella, non ci si annoia.
Si inizia col terzo atto della Raymonda di Alexandr Glazunov, in cui il genio coreografico di Nureyev tocca a nostro modesto giudizio i livelli più alti, forse per la risonanza interiore delle radici russe (il balletto nacque originariamente dall'immaginazione di Marius Petipa, leggendario maître de ballet del balletto imperiale di San Pietroburgo): inenarrabile la leggiadria festosa, la grazia giocosa, la progressione trionfale che emergono dai movimenti disegnati sulla scena, una rispondenza perfettamente armoniosa col tumulto dell'orchestra, soprattutto nel trascinante crescendo dell'apoteosi finale.
Il secondo tempo vira su coreografie classiche: La Polonaise e il celeberrimo
Pas de Trois del cigno nero, tratti da Il Lago dei Cigni di Cajkovskij, e il terzo atto de La Bayadère di Ludwig Minkus.
La prima parte del secondo atto è ripresa dalla celebre versione portata da Nureyev alla Scala di Milano (la trovate tutta QUI) nel 1990.
Molto si è speculato sull'interpretazione "oscura" dell'opera, in cui il coreografo avrebbe disseminato indizi su una propria lotta interiore, sul predominio e la fascinazione del lato oscuro, sul volontario cadere nell'inganno tra le identità di Odette e la figlia del malvagio mago Rothbart.
Per intenderci, teorie interpretative non dissimili da quelle che circolano su Bohemian Rhapsody del suo amico Freddie Mercury.
Ciò che rimane indiscutibile è la bellezza assoluta del gioco coreografico, le melodie gestuali che variano quelle cajkovskijane, in una tensione tra elementi contrastanti, in cui la tecnica (elevatissima) scompare al servizio di una narrazione incantata.
Inevitabile il finale dedicato a La Bayadère, l'ultima coreografia riproposta da Nureyev nel '92, già notoriamente malato di Aids, salutato alla sua ultima uscita pubblica da un commovente lunghissimo applauso da parte di tutto il pubblico, alzatosi in piedi, nel Palais Garnier.
Forse per la consapevolezza della fine incombente, Nureyev pare aver trasfuso tutta la sua sapienza, tutte le sfumature esplorabili, tutti i picchi raggiunti in carriera: i solisti strappano più volte applausi a scena aperta per la straordinaria difficoltà delle esecuzioni.
Gli applausi sono convinti e sinceri.
Il geniale ballerino russo non sta certo facendo una piroetta nella tomba.
Un omaggio degno, non solo al grande Nureyev, ma al potere pacificante del balletto, una forma suprema di resistenza estetica in un mondo devastato dal Brutto.
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