giovedì 29 maggio 2014

Grand Budapest Hotel è una meraviglia assoluta: almeno 6 motivi profondi



A Marco Morgantini

Quando ho pensato di scrivere questo articolo non sapevo che uno dal titolo molto simile era stato già pubblicato (lo trovate in due parti QUI e QUI)
Fa nulla, visto che le motivazioni sono dissimili, essendo quello un articolo, pur gradevolissimo, promozionale e non critico.

Alla prima visione di Grand Budapest Hotel ho presto raggiunto uno stato di silente beatitudine estetica, in cui oltre alla delizia visuale riconoscevo in me sintomi di un'autentica commozione.
Ho ritenuto, dunque, d'esser preda d'un rapimento intellettuale così seducente da impedirmi di poter scrivere una riga che fosse equilibrata sul film.
Approfittando di una improvvisa benedetta promozione che mi ha consentito di vedere e rivedere il film in oggetto più volte in lingua originale, ho potuto temprare al fuoco della riflessione critica il mio innamoramento iniziale. E posso dire ora, senza tema d'apparire stucchevole, che si tratta di un'opera meravigliosa

Perché è presto detto.

1) Non cade nella trappola del manierismo

Come nel caso di Quentin Tarantino (su cui ora non ci soffermeremo), quando un regista diviene di culto per la sua fortissima personalità autoriale e la presenza ricorrente di elementi totemici nei suoi film, ad ogni fotogramma, se intellettualmente onesto, si ritrova a compiere spettacolari acrobazie per evitare di cadere nella più insidiosa delle trappole: il baratro del manierismo.
Wes Anderson vince la sfida, ed anzi al termine della pericolosa passeggiata sul filo compie un salto mortale e ricade in equilibrio facendo l'inchino allo spettatore: la brillante costruzione a matrioska della narrazione, la scelta di giocare sull'eccesso delle proprie ossessioni (pur incastonate in un costante controllatissimo equilibrio formale) e un ricchissimo sottotesto di citazioni e rimandi interni.



Un parallelo (apparentemente peregrino, ma illuminante per svelare l'approccio autoriale) sorge spontaneo nella sua bizzarria: cosa vi ricorda il film di un regista maniacale ambientato in un albergo, in un panorama innevato? Ovviamente, temi, visione e ispirazione non c'entrano nulla con Shining, ma essendo questo uno dei film più matematicamente perfetti della storia del cinema, ritengo interessante evidenziarne le principali differenze. Entrambi film sulla solitudine, una che conduce alla pazzia e alla distruzione della famiglia e dell'amore, l'altra che invece riconcilia nella trasfigurazione della memoria poetica proprio l'amor perduto e una famiglia distrutta; uno popolato di fantasmi demoniaci, comparse di una mondanità satanica e vendicativa; l'altro animato da una grande orchestra di personaggi amabili , ciascuno indimenticabile, nella grande danza di un'orgia cromatica (la vividezza esasperata del ricordo idealizzato). E' interessante notare che, se il marchio registico dello sguardo kubrickiano sono le celebri soggettive, Anderson ci mostra sempre la realtà di lato, una sezione architettonica laterale e proprio per questo completa. Le sue costanti simmetrie non sono figlie della "fearful symmetry", di blakeana memoria, come quelle di Kubrick. Al contrario, sono la cornice estetica, del sogno e del ricordo, in cui provare a redimere nella grazia del racconto il dolore incontrollabile che erompe assurdo nell'esistenza.
 Un apparente distacco, che malcela l'identificazione con i propri personaggi.
Invece che l'io disperato della prima persona di Dostoevskij, Anderson gioca con la confessione in terza persona come Flaubert.
Ci ritorneremo alla fine.



2) Summa e variazione dei grandi temi di Anderson

Il dono di un equilibrio aggraziato, abbiamo detto, fa sfuggire la pellicola al rischio del manierismo.
Ciò nonostante ritroviamo, porti allo spettatore con una maturità registica ormai definitiva, tutti i tòpoi peculiari e memorabili del cinema di Anderson: la precisione ossessiva del dettaglio estetico, spesso omaggiata nella cura dell'atto artigianale, meccanico eppure umanissimo (le mani supremamente femminili di Agatha che confezionano i dolci di Mendl,  a cui è affidato il vero trigger salvifico della storia); il rinomato assillo nel mostrare le famiglie disfunzionali qui giunge all'apice: per ogni protagonista sono direttamente assenti, ognuno appare un adorabile orfano, nato da se stesso, swayambhu si direbbe in sanscrito, appellattivo di Shiva come di Ganesha, il dio dell'innocenza (vedi punti successivi); anche qui ascoltiamo il canto epico di un personaggio carismatico, descritto nella caduta e nella resurrezione (dai Tenenbaum a Steve Zissou a Fantastic Mr.Fox); l'adorazione per l'eloquio forbito, tappeto sonoro perfetto per l'esplosione dei tempi comici devastanti del turpiloquio o di atti improvvisamente violenti (le parolacce della Blanchett in Life Acquatic, la memorabile coltellata di Pagoda nei Tenenbaum, qui la serie di pugni in faccia da cartone animato più le numerose contraddizioni tra tono aulico e imprecazioni di Monsieur Gustave H.); il rapporto buffo e commovente di fedeltà tra padroni e servitori/maggiordomi, spesso di derivazione indiana (Un treno per Darjeeling, forse il meno riuscito, è tutto un omaggio a quella comicità spiazzante nella cortesia che solo chi conosce l'India sa riconoscere come dato peculiare di quel popolo), che rende finalmente umana la complicatezza della dialettica servo/padrone; le meravigliose simmetrie di cui abbiamo già parlato; la poesia della scoperta adolescenziale dell'amore, di cui parleremo tra poco.



Il film è insieme Fantastic Mr.Fox e Moonrise Kingdom (vero gioiello poetico andersoniano).
Omaggio e rivisitazione dei film precedenti, che certo si consacra nella carrellata a metà film di tutti i grandi attori-feticcio del Nostro: una ilare cavalcata, ritmata da tempi comici da manuale, a cui il pubblico sembra quasi rispondere con una ola da stadio. Un omaggio ammiccante all'interno del film,  in cui ovviamente spicca  per spessore epico Bill Murray (per il quale confessiamo un debole quasi erotico): al termine della progressione di memorabili cameo,  appare quasi come un rarefatto supereroe, una sorta di redentore dell'eleganza.



3) Agatha




Dichiaro anche qui un tallone d'Achille emotivo: sarà forse perché in uno dei rarissimi scambi dialettici con Zero (quello nella camera da letto quando lui gli rivela di aver rubato il quadro), mi è apparsa specchio d'acqua della fanciulla che ho la benedizione d'aver sposato, ma non credo che nessun altro personaggio cinematografico femminile mi abbia mai conquistato come Agatha.
Un incanto senza precedenti.
Archetipo particolarissimo e per questo universale, correlativo oggettivo in carne ed ossa della fanciulla di cui tutti ci siamo innamorati, è la quintessenza delle adorabili qualità femminili: giocosa, fiera, saggia ed innocente. Traboccante gentilezza  nei gesti quasi inconsci, eppure coraggiosa fino alla vittoria nelle imprese più ardite.
Grazia e fierezza, un talismano invincibile contro la stupida volgarità del mondo moderno
Quando appare sulla giostra commossa dalla dedica di Zero, il suo volto è icona dello stupore vibrante, la scoperta dell'amore.



Il finale (Dio benedica Anderson per non averlo mostrato) in cui verrà inghiottita dalla crudeltà insensata della vita è poesia assoluta: era dai tempi in cui, nella tarda adolescenza, piangevamo sui versi di Laforgue recitati da Carmelo Bene, che non riconoscevamo in un autore tanta profonda comprensione dell'animo femminile.
Scioglierebbe il cuore in una cascata di nettare anche a Rudolf Hess.
Almeno credo.

4) Un inno alla purezza

E qui arriviamo a uno dei più irriducibili punti di forza del film, e di tutta l'opera di Anderson.
Non solo nel capolavoro dedicato al tema, il già citato Moonrise Kingdom, ma in quasi tutti i suoi film, l'autore mostra con grande pudore l'impaccio adolescenziale nei confronti della tremante scoperta del sesso.
Un tema stilisticamente così personale da meritarsi una riuscita parodia, la quale, benché si conceda come l'ispirazione richiedeva qualche volgarità, è sicuramente centrata.



C'è una scena celebre nei Tenenbaum  (film che nonostante l'entusiasmo che stiamo profondendo per l'ultima fatica del regista per noi comunque detiene ancora la palma di vetta andersoniana) in cui viene narrata la gioventù immorale di Margot, sulle note perfette di  Judy is a Punk dei Ramones, in un crescendo irrefrenabile di ambientazioni paradossali e variazioni viziose.


Eppure, nonostante l'apparente scabrosità dei contenuti, ciò che rimane è il senso vivo, vitale, giocoso di una giovinezza vorace, inquieta, dissipata, ma che mantiene comunque alta la fiamma di una ricerca innocente.
Nell'impaccio da adorabile disadattata di Margot, c'è comunque la sete di emozioni autentiche, come motore della folle corsa alla dissolutezza.
L'ho spesso accostata, questa sequenza, a una concettualmente simile, ma tragicamente disperante, tratta dal film Le regole dell'attrazione, ispirato a un romanzo di Bret Easton Ellis.
Qui, lo svuotamento interiore che deriva dalla consumazione famelica e squallida dei rapporti fisici, è raccontato nell'ebbrezza di un videoclip in soggettiva, per poi svelare il desolante smarrimento della propria identità, nella ripetizione meccanica e ormai inerte di un piacere morto.
Come solo nel Il meraviglioso mondo di Amèlie, l'esperienza del sesso è esposta nel suo animale affanno verso un momento svanente, di cui la protagonista femminile è giocosa e distaccata testimone.
Ciò che conquista nei film di Anderson è la celebrazione, sotterranea e proprio per questa profonda, dell'innocenza, elemento fondante della personalità che nessun comportamento può macchiare o rimuovere fino in fondo.
Non a caso, in un momento chiave del film, Monsieur Gustave H. dice più o meno a Zero che il segreto della bellezza di Agatha è la sua purezza.
Un magnete che desta un'attrazione innocente, tutto l'opposto che gli sguardi complici da moderno corteggiamento, spesso preludio a squallidi momenti di intimità fugace, come già sancito da T.S. Eliot ne La Terra Desolata.

5) Racconta il dolore con la gioia

Questo dono dell'innocenza che trasfigura poeticamente il dolore d'esistere è la chiave segreta della narrazione. Ricordiamoci che il film nasce da una visita in un cimitero, e che la miccia della rocambolesca narrazione è l'evidenza della sofferenza. Lo scrittore, voce narrante, si accosta al vecchio protagonista, e scopre dalla sua commossa voce la straordinaria storia, proprio perché colpito dalla sua composta  e soffrente solitudine.
Il dato di fatto è che questo film fantasmagorico, colorato, avventuroso, in realtà racconta un brevissimo periodo di una vita passata nel lutto e nel dolore.
E la scelta di non narrarci il crudele rovesciamento degli eventi, lasciandoci alla visione di Agatha e Zero, uniti da Monsieur Gustave, al culmine della felicità fiabesca in un paesaggio dalla bellezza quasi onirica, rende ancora più commovente e intimo il sentimento del dolore.



In un film traboccante di dettagli e dialoghi brillanti, è proprio il non mostrato, il non detto a svelarne la bellezza.
L'happy ending dell'avventurosa vicenda è solo il preludio a un dramma incombente, anzi a una serie di cataclismi emotivi. L'ingiustizia, umana ed esistenziale, si avventerà sul sogno perfetto, conquistato con la forza dell'amore e del coraggio.
A quel punto, gloria e ricchezza appariranno nella loro effimera inutilità, polvere di sogni andati, utili solo a mantenere il tempio della felicità perduta, dove meditare dignitosamente sul dolore di vivere.
Una suprema, crudele ironia, che però conserva intatta la magia poetica e lo stupore dell'esistenza.
Una mistica dei sentimenti e del potere della bellezza che nasce come un fiore stupendo nel deserto della sofferenza universale.


6) Un atto d'amore

Il film, al termine di diverse visioni, si configura come un maestoso atto d'amore.
In primo luogo alla cultura mitteleuropea dei primi del Novecento, a quel mondo decadente e fascinoso, al suo tesoro smarrito di galateo d'antan, di formalità stucchevoli eppur seducenti, di orchestrate schermaglie tra reciproche e lambiccate cortesie. Un tentativo, anche'esso, nobile e disperato di riscrivere una realtà su cui incombeva la spada di Damocle della tragedia storica, nel gioco combinato di parole alate e gesti concertati.
Per le circostanze paradossali della vita, che l'opera ben mostra, nello stesso periodo in cui mi sono innamorato del film, ho intrapreso un tedioso impiego che mi pone a contatto con ambienti simili a quelli descritti nel film, in un ruolo affine al protagonista. Lo scontro quotidiano con la volgarità, la maleducazione e, soprattutto, l'orripilante assenza di senso estetico dell'attuale alta società, rende ancora più incantevole e magico il mondo descritto da Anderson, pur scontando la inevitabile idealizzazione letteraria che l'autore vi proietta.
Appunto la letteratura.
Il libro è un mastodontico omaggio alla creazione artistica, alla letteratura in primis.


La menzione cifrata di Zweig, autore simbolo di quel periodo e di un certo modo di vivere la letteratura, è solo la punta dell'iceberg della complessa costruzione del regista.
L'inizio di questo canto alla vita è in un cimitero.
Per chi è cresciuto vicino al Cimitero Acattolico di Roma, dove riposano Keats e Shelley e Pasolini trovò ispirazione memorabile omaggiando Gramsci, è facile riconoscersi nella ragazza che si reca a leggere sulla tomba dello scrittore prediletto, sembra quasi di sentire le note di Cemetary Gates dei The Smiths.
Il film è un racconto nel racconto: la storia, cosi vivida e reale, esasperata cromaticamente dalla lente caleidoscopica del ricordo, è filtrata sia da un racconto letterario che, ancor prima, da una memoria, intima dolente e personalissima. Rielaborata dalla labilità della memoria e dalle lenti deformanti della trasfigurazione letteraria.
Ma proprio per questo, Gran Budapest Hotel è una grande celebrazione del potere trasfigurativo dell'arte nei confronti del male di vivere.


Soprattutto, come un bambino che si balocca con i suoi giochi inventati, l'opera è uno straordinario atto d'amore nei confronti di se stesso.
Come, appunto, Flaubert con Madame Bovary, Wes Anderson ci rivela alla fine del film: "Monsieur Gustave c'èst moi".
Come lui, il regista è un baluardo di un mondo che non c'è più, e che già non c'era più da vent'anni prima che egli indossasse per noi i panni seducenti del concierge artistico, invitandoci a prendere alloggio nelle pittoresche camere della sua fantasia.
Divenuto l'icona del gusto vintage (no, non lo chiamerò hipster, vuol dire un'altra cosa!), in realtà Anderson ci parla sempre di un mondo, di una visione del mondo, già sfumata quando lui era bambino.
Si pensi alle meravigliose colonne sonore dei suoi film, alle voci di Nico e Bowie, al mito di Costeau e all'India degli hippy. Un abilissimo trucco che non può che destare la nostra sincera empatia.
La fuga dall'opprimente bruttezza contemporanea non nel già corrotto panorama mentale della propria infanzia, ma nella ricostruzione magica di un passato mai vissuto e per questo abitato come propria dimora nel labirinto fatato dell'immaginazione.
Un trucco, certamente.
Ma anch'egli , proprio come il protagonista del film, è riuscito a "coltivarne l'illusione con una grazia meravigliosa".








2 commenti:

  1. Wow mi appare tutto molto interessante e poi con grazia meravigliosa termino la lettura trasognata, Appena mi capita è importante vedere il film

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