mercoledì 28 maggio 2014

Io sto con gli indiani. Purtroppo.

In perfetta linea con lo spirito antisettario di questo blog, dichiarato fin dal nome, il primo post relativo al calcio che io, fiero laziale, vi pubblico è di un romanista.
Non solo perché Dario Di Napoli è un vecchio amico, ma anche perché è uno dei pochissimi sostenitori, di tifo trattando, onesti che conosco. Uno dei pochi che il 27 maggio 2013 non ha fatto finta di nulla, ad esempio. E lo dimostra anche in queste righe: orgoglioso dei suoi colori ma leale nel riconoscere la grandezza su sponde avverse.
Inoltre, ha messo su carta sostanzialmente le stesse riflessioni che avrei proposto io.
Non solo l'analogia karmica con il goal di Juventus-Lazio 0-1 del 2000.
Soprattutto, il disprezzo per i bambolotti da copertina.
Buona Lettura

Al cinema ho sempre fatto il tifo per gli indiani. Sporchi, poveri, brutti, armati di frecce, mandati allo sbaraglio contro i fucili dei conquistatori. Non è stata una scelta ragionata ma di puro istinto. Vuoi mettere il fascino di un apache o di un cherokee che si lancia urlando in sella a un cavallo contro un battaglione di gente ben vestita e pettinata di tutto punto ?
Ho fatto la stessa scelta anche per quanto riguarda un’altra delle grandi passioni della mia vita: il calcio. Tifo da trent'anni per una squadra che nella sua storia ha racimolato la miseria di tre campionati e perso numerose battaglie contro i conquistatori, che nella maggior parte dei casi indossavano una divisa a strisce. Ho mantenuto e continuo a mantenere questa coerenza anche quando ho assistito a partite che non vedevano protagonista la mia squadra del cuore. Di conseguenza sabato sera non potevo certo esimermi dal sostenere la causa dell’Atletico Madrid, un pugno di indiani messi insieme e capitanati dal grande capo Diego Pablo Simeone che si apprestava ad affrontare i più grandi conquistatori che la Storia del Calcio ricordi: il Real Madrid, la compagine dei reali di Spagna, un esercito di fenomeni pagati a peso d’oro e il cui calciatore più celebre è un vanitoso modello dal fisico scolpito prestato ai campi verdi.
In realtà un pezzetto del mio cuore pendeva a favore dell’uomo seduto sulla panchina dei conquistatori: un uomo di cui ancora conservo il ricordo mentre, con la sua maglia numero 4, tesseva trame perfette insieme al Divino, ad Agostino, a Toninho e a Marazico in uno dei centrocampi (mi si perdoni il neologismo) tecnicamente più forti che abbia mai visto calcare un campo di calcio. Un uomo che ha donato entrambe le ginocchia alla causa della mia squadra del mio cuore. Un uomo che però, in seguito, ha scelto di stare dalla parte dei più forti, dei più ricchi, dei più fortunati.


Quindi, caro Carletto, non volermene ma ho sperato sinceramente che la decima (o la desima, come odiosamente hanno continuato a ripetere tutti i giornalisti d’Italia) ti andasse di traverso.
Il grande capo Simeone invece dovrei odiarlo per ragioni puramente campanilistiche, ma non ci riesco. Non ci sono mai riuscito. Fin quando l’ho visto giocare ho sempre pensato che fosse uno di quei calciatori di cui mi sarei innamorato se l’avessi visto indossare la maglia della mia squadra. Mediano instancabile ma dai piedi tutt’altro che disprezzabili, imparai a stimarlo in occasione di un derby di quindici anni fa quando, dopo aver ricevuto uno sputo in faccia da Accì Zago, invece di andare a piagnucolare dall’arbitro incassò lo sfregio senza colpo ferire e continuò a giocare come se non fosse successo nulla. E a fine partita disse semplicemente: “Sono cose di campo, possono succedere, ma poi finisce lì”. Un uomo vero. Uno dei pochi che, da indiano, è riuscito a prendersi la rivincita contro i conquistatori strisciati che due anni prima gli avevano letteralmente scippato uno scudetto. E la rivincita se l’andò a prendere a casa loro, sotto i loro occhi, con un colpo di testa perfetto nell’angolo basso alla destra del portiere.


Un uomo che si è fatto da solo, un uomo con los huevos (come ama dire lui stesso) contro uno dei santoni storici del calcio moderno. Lo scenario perfetto. Degno di un finale di Sergio Leone. Clint Eastwood contro Lee Van Cleef. E la sfida inizia nel stesso della celebre scena de Il buono, il brutto e il cattivo. All’insegna della paura e, perché no, del rispetto.
D’altronde il Real non può e non deve fallire. E’ questa l’occasione giusta per conquistare la decima Coppa dei Campioni. Contro i rivali concittadini. Nella tribuna autorità è presente un giocatore in rappresentanza di ogni squadra che ha alzato le precedenti nove Coppe. Nel sentire il nome di Raùl Gonzalez Blanco sento distintamente sussultare la mia anima di amante del calcio. Che fenomeno era quel ragazzo. Indossava la maglia degli odiati conquistatori blancos, ma vederlo giocare mi rimetteva in pace con il mondo.
Dal canto suo l’Atletico Madrid ha poco da perdere. Si è ritrovato in finale quasi per caso, e ha appena vinto, da outsider, il campionato spagnolo dopo diciotto anni. Inoltre il suo giocatore più rappresentativo, il centravanti Diego Costa, sta male e scende in campo solo per onor di firma, tant’è che dopo soli otto minuti Simeone deve toglierlo dal campo. Però i colchoneros tengono il campo alla grande. Corti, aggressivi, pronti a ripartire. Il Real prova a pungere, ma senza far male. Una palla buona ce l’ha Gareth Bale, il gallese pagato 110 (centodieci !) milioni di euro che però davanti a Courtouis calcia a lato con un esternaccio sinistro indegno dei trenta euro (!) che percepisce ogni minuto della sua vita. Visto che i conquistatori non sparano, allora tanto vale provare a scagliare qualche freccia. E una di queste, al minuto trentasei, va a segno nel più beffardo dei modi. Un pallone innocuo scodellato in mezzo all’area viene colpito di testa da Godin, onesto difensore centrale che una settimana prima, sempre di testa, ha segnato contro il Barcellona il gol decisivo per il titolo. Una palla lenta, che nella maggior parte dei casi finirebbe tra le mani del portiere. Solo che il portiere dei blancos, Iker Casillas, campione del mondo e bicampione d’Europa in carica, non si trova tra i pali. Come Walter Zenga quella maledetta notte del 3 luglio del 90 è uscito senza motivo apparente quel tanto da ritrovarsi uccellato dal pallonetto che si deposita lentamente in fondo al sacco. Gli indiani vincono. E si va all’intervallo. E io inizio a coltivare la speranza che, in fondo, il calcio, a volte riesca anche a essere uno sport giusto. Che premi gli sforzi di chi costruisce le squadre non a suon di milioni, ma a suon di uomini veri. E che Eupalla, il dio del pallone magistralmente inventato da Gianni Brera, ogni tanto imiti il suo più illustre collega e consenta a Davide di battere Golia.


Il grande Gianni Brera, penna formidabile
Nel secondo tempo sembra che i minuti scorrano più in fretta. E soprattutto sembra che i calciatori di Simeone siano di più rispetto a quelli di Ancelotti. Gabi, il capitano, riscrive la definizione di uomo ovunque. Lo si può vedere in difesa, a centrocampo, in attacco, coadiuvato dal fedele scudiero Juanfran. Godin sembra un baluardo insormontabile, commovente come Franco Baresi nella finale di Usa ’94. Il tempo passa, e il sogno inizia a prendere corpo. A dieci minuti dalla fine però, l’esercito dei conquistatori inizia l’arrembaggio. Gli indiani restano in trincea e non escono più. Manca poco, però, basta poco. Arriva finalmente il novantesimo. Tutti gli occhi dei presenti allo stadio Da Luz si girano verso il tabellone luminoso alzato dal quarto uomo. Cinque minuti di recupero. Tanti. Troppi per degli indiani stremati da una resistenza così strenua. Ne passa uno. Poi due. Poi tre. Il Real ottiene un calcio d’angolo. Il pallone arriva alto poco prima del limite dell’area di rigore. Un uomo in maglia bianca si alza più di tutti e colpisce in modo perfetto. Non è Cristiano Ronaldo, la star più attesa che fino a questo momento ha combinato pochino. Non è Benzema, che nel frattempo è uscito.

Sergio Ramos vs Val Kilmer

 E’ Sergio Ramos, difensore vagamente somigliante a Val Kilmer, che con due suoi gol (di testa) ha regalato alla sua squadra la finale battendo in semifinale gli invincibili bavaresi del Bayern Monaco. La palla si infila nell’angolo basso alla destra del portiere. Ironia della sorte, è quasi la fotocopia del gol che Simeone segnò alla Juventus quattordici anni fa. La partita fondamentalmente si conclude qui, nonostante il commovente impeto del Cholo che continua a invocare a gran voce i propri tifosi. Ma ormai Eupalla ha deciso e i supplementari diventano una formalità.


Troppo ha già retto l’Atletico, ferito fisicamente e psicologicamente, e i conquistatori devono solo attendere prima di piazzare i colpi mortali. Il primo lo spara Bale, dopo cinque minuti dall’inizio del secondo overtime. Il secondo porta la firma di Marcelo, superbo terzino entrato dalla panchina, probabilmente l’uomo che con le sue accelerazioni ha portato l’ago della bilancia dalla parte dei blancos. Il terzo è un’autentica farsa, un rigore quasi inventato per consentire all’uomo copertina di questa edizione della Coppa dei Campioni di uscire dall’anonimato di una finale in cui non è mai stato protagonista. Come, del resto, in nessuna di quelle che il campione (perché di campione si tratta, intendiamoci) portoghese ha disputato.
Cristiano Ronaldo spiazza Courtouis ed esulta in modo spropositato, quasi irriverente, mostrando gli addominali e dimostrando a tutto il mondo la sua pochezza di uomo. I muscoli e l’arroganza servono ai modelli, non ai calciatori. Non a caso, il più grande interprete di questo sport era alto meno di un metro e settanta e sfoggiava una discreta pancia rotonda.
Finisce così. I conquistatori hanno battuto gli indiani. Golia ha sconfitto Davide. I milioni hanno avuto la meglio sugli uomini. Lee van Cleef ha ucciso Clint Eastwood. E io mi chiedo chi me lo ha fatto fare di appassionarmi allo sport più crudele del mondo. Meglio il cinema. Almeno fino al giorno in cui Cristiano Ronaldo non deciderà di mettersi a fare l’attore.

Dario Di Napoli

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