Ad Andrea e Carlotta
Sarebbe stato troppo facile celebrare Roger Federer in tutta la sua innegabile grandezza il giorno dopo il trionfo di Wimbledon del 7 luglio scorso, l'inattesa miracolosa rinascita con la quale il Re si era ripreso spettacolarmente il suo trono dopo l'annus horribilis 2011 (il primo dal 2003 senza vincere uno slam). E invece, e' proprio oggi, nel day after della sconfitta più cocente (da Parigi 2008) con l'amico rivale di sempre, che ribadisce il predominio assoluto di Nadal sulla terra rossa e sancisce l'ennesimo smacco nei confronti diretti, ebbene e' proprio oggi che io sciolgo il mio peana a testa alta a quello che è, forse, l'atleta che più di tutti, in tutte le discipline, si avvicina all'ideale olimpico di perfezione sportiva.
Piu' che una lode, questo e' un atto di Fede.
(L'eventuale gioco di parole sta sulla vostra coscienza)
L'argomento è stato già esplorato magnificamente da David Forster Wallace, in pagine giustamente celebri e forse definitive (le trovate QUI, postate da Tonio Troiani, amico e stimato collega sulle colonne di Conversazioni sul Fumetto)
Federer appare in campo come un dio greco. Anzi, ha in sé più dèi, che volta per volta lo visitano e prendono il comando del suo genio tennistico a seconda delle qualità richieste dalla concitazione dell'agone. E' chiaramente una manifestazione apollinea: grazia ed eleganza sono la materia sottile di cui è costituito. Ma è un Apollo in grado di scatenare al momento giusto la furia devastatrice di Dioniso, per poi riassorbirne la vorace violenza e riconciliarlo alchemicamente nell'armonia suprema del suo stile. Scegliendo esempi più umani (ma evocandoli comunque dal Pantheon tennistico), Federer è la sintesi impensabile degli opposti metafisici*, che hanno scandito con le loro gesta antitetiche la storia del tennis moderno: ha il tocco stregonesco, il guizzo beffardo del genio McEnroe (ma li contiene nella disciplina di un palleggio impeccabile) e la costanza ipnotica da fondo campo di Borg (con una ricchezza di variazioni che impediscono però anche al suo peggior critico di etichettarlo come "pallettaro"); ha la spregiudicatezza aggressiva di Becker (moderata da un grande discernimento tattico) e la solidità del ritmo di Lendl (senza averne la gelida roboticità); stesso discorso per l'eleganza (più efficace) di Edberg, l'intelligenza (più imprevedibile) di Wilander, la classe (meno capricciosa) di Ivanisevic. In realtà appare proprio come il tennista definitivo totale, accostabile alla leggenda Laver (mutatis mutandi) e al mito intatto, superato solo da lui, di Pete Sampras.
Ora, se osserviamo onestamente, l'accostamento con i precedenti umani è più peregrino di quello con gli dèi. Federer, in campo, d'umano ha poco, pur non avendo la meccanicità straniante del robot o la superiorità inquietante dell'alieno. Ciò che comunica è bellezza, pace, ordine, grazia, controllo, senso supremo del gioco. Proprio come un dio greco. E non solo per le movenze dall'abbacinante splendore plastico, tra Fidia e Nureyev (quando gioca a Roma, l'impressione e' che una delle statue del Foro Italico si sia animata per danzare sulla terra rossa alla platonica musica delle sfere che risuona nelle menti divine).
No, non solo per la sua inarrivabile eleganza tecnica egli appare come un dio.
Il quid è proprio spirituale.
Quando gioca Federer è in meditazione. E contemplandolo, si accede anche noi a quel regno di grazia assoluto, di sinfonie di silenzio, di stupore sereno che è lo stato meditativo. A ben vedere mentre gioca non tradisce alcuna connotazione umana, dalla sudorazione alla rabbia (se non in rarissimi casi). Semmai dopo darà sfogo alle sue emozioni (lacrime di gioia o disperazione). Ma al di là del suo celebratissimo aplomb, della sua incantevole gentilezza con la stampa, il rispetto sacro degli avversari, la nobilissima beneficenza, la straordinaria disponibilità con i fan, è in campo che Roger manifesta la sua origine divina.
Nell'omaggio monografico reso al campione svizzero da "La Gazzetta dello Sport" l'anno scorso, fece bene Sandro Veronesi a citare Carmelo Bene (si fa sempre bene, scusate il bisticcio, a priori), applicando a Roger ciò che il genio salentino predicava sul comunque immenso Edberg: "è il tennis che gioca se stesso". E fece altrettanto bene a citare un pregevole articolo di Matteo Codignola sulla sinfonia sublime del suo gioco (lo trovate QUI)
E, sia detto una volta per tutte, non sono i numeri (unici, strabilianti, difficilmente superabili) a sancire la sua superiorità ontologica. Qualora anche un giorno i suoi rivali lo superassero in Slam e vittorie (forse solo Djoko appare tra i contemporanei all'altezza del cimento), rimarrebbe comunque come il più grande, per la distanza siderale di perfezione stilistica che egli incarna.
Affrontiamo dunque ora i suoi notevolissimi rivali: Nadal e Djokovic.
Bisogna davvero avere un cuore sadiano per non voler bene a Rafa. Un ragazzo leale, generosissimo, che irradia positività. Soprattutto, un atleta ammirevole per dedizione, impressionante per potenza, titanico nei recuperi e nella costanza. Cuore e volontà si fondono in una macchina, per una volta, davvero gioiosa. Uno dei motivi della sua popolarità risiede nel fatto che Nadal rappresenta due stereotipi della narrazione pop congiunti: è insieme Rocky e Ivan Drago. Per grinta e concentrazione ha dimostrato definitivamente di essere superiore al Re. Come dice sempre l'amico a cui dedico questo delirio, di fronte ai miei poemi epici su King Roger: "Si, Federer è il più forte del mondo...ma Nadal è più forte di lui!" (come si argomenta QUI).
Conti alla mano (pur considerando che la maggior parte degli scontri è avvenuta su terra rossa, di cui il maiorchino è dominatore incontrastato), a livello di aridi numeri, è vero. Contro di lui, tra i 20 successi finora ottenuti, soprattutto ha vinto la finale di Wimbledon 2008, quella che è probabilmente la partita più bella di sempre (così definita in diretta da McEnroe, protagonista sconfitto, ma in quell'occasione già consegnato alla futura leggenda, della partita fno ad allora universalmente considerata tale, la finale con Borg giocata su quello stesso campo 28 anni prima).
Ma rimane una drammatica evidenza: la presenza di Nadal in campo è antiestetica come un ciuffo marroncino sporco in mezzo alle sopracciglia di una fotomodella. Dall'inizio di ogni match, in cui saltella per avvicinarsi ad avversario e arbitro come un.pugile sulle braci ardenti, ai gemiti da maiale sgozzato con cui ritma ogni colpo, fino all'insopportabile tic dell'aggiustamento dei calzoncini prima di ogni servizio (chissà, forse l'audacia in-estetica di rimestare senza posa nella zona perianale è un'inconscia evocazione della Fortuna). Efficacissimo ma non certo bello è il suo stile, L'impugnatura disumana, da martire del tornio, ne fa (per rubare un'espressione proverbiale al grande scriba Gianni Clerici) il principe degli "arrotini". Un atleta esemplare, ma più che un tennista il suo stile ricorda quello di un lanciatore del peso.
Soprattutto, zero fascino: ha la regolarità di Borg, senza averne l'aura mistica, la grinta di Jimmy Connors, senza la esaltante cattiveria, la potenza di Agassi, senza la selvaggia disinvoltura.
Cuore e muscoli, e basta: commozione senza bellezza.
Ora, sinceramente, credo che se fossi nato dieci anni dopo (io che nell'adolescenza ero convinto d'essere stato serbo nella vita precedente, vivendo al ritmo della.musica balcanica, prima che generasse l'effetto correttamente descritto nel recente capolavoro di Elio), ora sarei in giro per il mondo a seguirlo match dopo match.
Un tennista serbo, meravigliosamente zingaro, cosi adorabilmente burlone da meritarsi il soprannome Djoker, che imita alla perfezione gli avversari, inscena siparietti con SuperMac ed esulta come Hulk...
sembra uscito da un fumetto di mia sceneggiatura. E, oltretutto, che tennista, ragazzi.
Un tennista moderno, potente e veloce, ma tra i pochi che si ricordano che si può anche andare a rete, non e' mica fallo.
Anch'egli ha trovato la sua gloria nel detronizzare il Re (dopo aver testimoniato per primo il suo colpo forse più strabiliante).
Ci vuole veramente tutta la tecnica del mondo, più il quid determinante della follia slava, per solo pensare di poter rispondere ad una prima di servizio del più grande giocatore vivente, su un match point, in questo modo (semifinale Us Open 2011).
Solo un genio, con quella sfrontatezza suprema, quella sovrana sprezzatura filosofica dell'esito dell'azione che gli slavi condividono con gli autentici romani (quasi avessero la "Bhagavad Gita" inscritta nel DNA) avrebbe tentato l'azzardo impossibile: un colpo in cui la pallina si riesce a vedere solo al terzo replay.
Ma anche col simpaticissimo Nole (al quale, una volta ritirato il Re, andrà il mio supporto da ultras), siamo sempre nella sfera umana: intelligenza, impegno, astuzia, intuizione, sacrificio, cattiveria agonistica. Splendide doti, raramente detenute da un unico atleta, ma umane.
Contemplare Federer, invece, è un tuffo nelle acque del Lete, ne l'oblìo estetico delle miserie quotidiane, una promenade onirica nei giardini dell'Iperuranio, un frammento accecante di visione paradisiaca.
Una scintilla salvifica di Bello e Vero nelle tenebre onnivore del Kali-Yuga.
P.S.
Breve nota di costume. Andare agli Internazionali di Tennis al Foro Italico equivale ormai a una scorribanda in un incubo di Ennio Flaiano. Il grande scrittore abruzzese avrebbe sicuramente trovato materia ardente per un grottesco romanzo- capolavoro (anche se il titolo dell'unico che ha scritto, "Tempo di uccidere", viene in mente ogni qualvolta un idiota risponde a voce alta al telefonino durante le partite), o una sceneggiatura indimenticabile per il suo amico Fellini, ispirandosi all'atmosfera uber-cafonal che si respira nel Campo Centrale.
Al di là degli sciami di coattume finto-pariolino che da sempre imperversano nella settimana dell'evento, ora il circuito ha adottato una nuova graziosa abitudine per ricordarci che l'Apocalisse è vicina. Tra un set e l'altro, nel sacro minuto in cui i giocatori dovrebbero raccogliere la giusta concentrazione, viene sparata a palla orribile musica contemporanea, quale "I follow rivers" di Likke Ly, sicuramente composta da un potentissimo mago africano (vediamo chi coglie...) come sinfonia di dissonanze disturbanti allo scopo di stordire e possedere psichicamente il mondo occidentale. E, addirittura, negli incontri in notturna, giunge da fuori il rumore ossessivo della techno commerciona, mentre valenti atleti combattono per la gloria.
Roba da far reincarnare Pindaro in un terrorista di Al-Qaeda.
Non sanno, gli stolti barbari (o peggio sanno ma si sono piegati alla volgarità dei tempi) che, come dice l'altra amica dedicataria dell'articolo, "il tennis è liturgia".
Non sanno, gli stolti barbari (o peggio sanno ma si sono piegati alla volgarità dei tempi) che, come dice l'altra amica dedicataria dell'articolo, "il tennis è liturgia".
In tutto questo, per chi come me ama il tennis d'antan, il divino serve and volley di McEnroe, le volèè improvvise di Edberg, i pallonetti sardonici di Nastase... beh, i segni della decadenza dei tempi si moltiplicano come bibliche cavallette.
A quei tempi si poteva incontrare David Bowie a Wimbledon.
Io quest'anno ho incontrato Alessia Merz.
E, nella contemplazione di Roger, ho dovuto veramente calarmi nel "qui e ora", estraniarmi come un monaco zen dalla folla circostante che, manco fosse al concerto di Vasco, a ogni punto incalzava: "dai, Rògge!", a volte variando nella insopportabile cantilena maccheronica "lezzgòròggelezzgò".**
Non a caso ho citato prima la "Bhagavad Gita": ciò che viene dichiarato in quel testo sacro è eterna verità.
Gli déi scendono sulla terra ogni qual volta l'umanità è in decadenza.***
*mi verrebbe da dire (il concetto è perfettamente pertinente) Aufhebung, citando l'odiato Hegel...ormai sono contaminato da Massimo Palma e dal suo stupendo "Berlino Zoo Station", di cui abbiamo trattato diffusamente QUI
** Li perdono solo perché ricordavano l'incipit di un capolavoro moderno, questo QUI
*** un saluto per l'apprezzamento agli amici della pagina Facebook "Roger Federer, il miglior tennista della storia" che trovate QUI
Ti avevo promesso un commento su Maggie's Farm. Ma le cose che scrivi offrono troppi spunti per un semplice commento! Basta dire che queste tue ultime righe mi hanno fatto tornare la nostalgia del grande tennis che seguivo anni fa... :-) I paradossi dell'agonismo sfrenato, dopato nello spirito prima che nel corpo, mi hanno allagato di tedio e tristezza da troppo tempo ormai. Ma ogni tanto la bellezza di un gesto mi incanta.
RispondiEliminaMolto interessante anche il tuo pezzo precedente su Shaul-Paolo. Mi verrebbe da chiederti cosa ne pensi dei riferimenti a Paolo in certi versi di Dylan...
"Per liberare i giusti, annientare i malvagi, ristabilire le leggi della spiritualità, io discendo di era in era". (IV -8) - Credo proprio ne abbiamo bisogno...
Maria Rosa
Carissima Maria Rosa,
RispondiEliminaè un grande piacere averti ospite sul blog ed essere seguito da te! Considera, ho ancora in cantiere una risposta sulle tue considerazioni caravaggesche ispirate dalla copertina di "Tempest" (e su altri aspetti). Dylan come sempre è una miniera di spunti, si potrebbe scrivere un libro per canzone (almeno per un centinaio). In questo caso provo a risponderti subito. Tralasciando i brani del periodo cristiano (in cui Dylan si pone come megafono d'una rivelazione, e quindi anche dei testi paolini, per quella folle equiparazione teologica affrontata nell'articolo da te citato), ci sono due brani che da sempre mi destano (puoi immaginarti quanto c'ho pensato ahahah)) profonde riflessioni. Il primo è "Up to Me", uno dei miei brani preferiti degli anni'70, una delle famose "narrative songs" del periodo "BOTT": ovviamente mi riferisco al distico "We heard the Sermon on the Mount and I knew it was too complex/ It didn’t amount to anything more than what the broken glass reflects", in cui cita la famosa espressione paolina della prima Lettera ai Corinzi sul "noi vediamo come in uno specchio per enigmi". Per anni ho pensato sinceramente si trattasse solo di una brillante rima, in cui Dylan giocava con disinvoltura culturale "americana" (come già aveva fatto con Eliot e Pound e Giovanni Battista in "Highway 61"), utilizzando le citazioni come materiale, per intenderci, "pop". Invece, negli anni ho capito che l'intuizione dylaniana come sempre è (magari inconsapevolmente) rivelatrice: in un gioco di parole egli testimonia come l'esegesi paolina abbia appesantito e reso incomprensibile la semplicità illuminante della lettera evangelica. Un distico che testimonia l'inquietudine del ricercatore consapevole di aver perso la strada (brano contemporaneo di "Shelter from the Storm", nel quale già esprime lo smarrimento dell'unione, "Now, there's a wall between us...", che poi esploderà anni dopo in "Ain't talkin'"), ma anche il corpo a corpo costante con la figura del Cristo (la conversione avverrà pochissimi anni dopo).
Grazie della pronta risposta, Adriano, ci rifletterò con calma...
EliminaTi propongo a mia volta due brani considerati "minori" "God Knows" con "But fire next time" e "Maybe someday" con "For whose sake did you live/for whose sake did you die?"
Dimmi cosa ne pensi al riguardo, se vuoi,- poi ti dirò il mio punto di vista.
Ho un'altra domanda (sono un'autentica scocciatrice!): tu dici, giusto sopra, "la conversione avverrà pochissimi anni dopo" - Dunque tu pensi ci si possa realmente convertire? Io penso che si possa dirlo solo nel caso in cui si indossino le religioni come abiti. Ma se la fede, la relazione col divino è un cammino fatto di tappe e soste, una ricerca della sorgente, dell'unione tra "I and I", a che cosa ci si dovrebbe convertire?
Un abbraccio :)
"God Knows" è uno dei brani "minori" che amo di più, specialmente nella versione live di Woodstock '94, in cui il cantato universale di Dylan riesce a mescolare perfettamente stilemi della musica popolare e sapienza biblica. Può darsi anche che Dylan abbia conosciuto quel verso per la prima volta perchè citato in un famoso Gospel. Con "Maybe someday" peschiamo nel Dylan meno celebrato, anche se è senza dubbio un brabo riuscito. Credo che in questo caso, egli, memore della recente "conversione" (tra poco ne parleremo) proietti appunto la domanda cruciale dell'esistenza(e ripeto Paolo come tutti i falsi maestri era un genio degli slogan) come un monito celeste. Nella cultura popolare americana di cui Dylan si nutre la Bibbia è la fonte che intride ogni riferimento. E nel Nuovo Testamento Paolo si è ritagliato un posto da leone.
EliminaL'altro brano (anche questo un "outtake" capolavoro, casualmente?...ma tanto dopo "Blind Wilie Mc Tell" non ci meravigliamo di nulla) è quel vero e proprio inno etico di nome "Dignity". Anche qui Dylan conforta il mio anti-paolinesimo, liquidando nella riuscita battuta "Heard the tongues of angels and the tongues of men/ Wasn't any difference to me", la famosa distinzione ("se anche parlassi le lingue etc...") della già citata Lettera ai Corinzi. Una sorta di richiamo nietzscheano ad essere "fedeli alla terra", senza cercare illusori paradisi metafisici? E' chiaro che la canzone s'ispira alla saggezza pessimista blues, sardonica dell'ultimo venticinquennio dylaniano, che lascia ben poche speranze sull'umanità. Ma proviamoci:può essere letto sia come disincantata condanna delle proiezioni ideali, delle idealizzazioni angeliche rivelatesi un trucco (alla "not much is really sacred" di "It's alright, ma"), ma, chissà, forse anche come considerazione mi verrebbe da dire spinoziana: non c'è differenza tra lingue degli angeli e degli uomini, perchè gli uomini stessi (Dylan lo sa bene) possono essere messaggeri (l'etimologia è quella!) visitati dal divino, dall'Assoluto, essere specchio e canale di una sapienza angelica, elevare il proprio spirito fino a divenire capaci di profezia, accedere all'Eterno. Si, si lo so, che il tono di Dylan è quello di "i've never been too impressed" in "Is your Love in vain?", e forse sto solo proiettando la mia Weltanschauung sul Nostro. Ma la bellezza dei poeti (e in questo Bob è poeta autentico e grande) sta nel loro cogliere dei significanti universali, che possono illuminare, con suprema ambiguità da Sibilla, di volta in volta aspetti diversi, anche contraddittori, della riflessione interiore. Grazie Maria Rosa per questo splendido spunto. Spero di leggerti ancora sul blog;)
RispondiEliminaPer quello che riguarda la "conversione" (tema paolino per eccellenza) ammetto d'aver usato l'espressione per convenzione, per riferirci ai tre dischi di ispirazione cristiana. L'interrogativo che poni non è per nulla capzioso,anzi. Dylan è proprio il tipo di ricercatore che ha indossato e smesso tutte le etichette religiose (ateo irriverente, predicatore cristiano, ebreo sionista, massone etc...), svuotandole di significato nella inquieta quest dell'essenza interiore ("and discovering her invisible self"). Apri una questione che meriterebbe un libro e non si può esaurire in un post. Posso solo dire per ora che, per quanto negli anni sia stato affascinanto dalla teologia negativa, dalla mistica pura, dalla Gnosi che evocava il Senza-Forma, il mio percorso spirituale mi ha portato a conclusioni differenti. Posto un Interlocutore spirituale, Divino o Interiore, che lo si chiami Cristo, Shri Krishna, il Sè, l'Atma, Inconscio Collettivo etc...posto che esista, credo che egli si manifesti (o noi possiamo farne oggetto di visione) attraverso comunque la Forma: platonicamente può sembrare una bestemmia, ma dobbiamo fare i conti (e li deve fare soprattutto Lui!) con la miseria della nostra attenzione. Per cui i mandala, le icone, i mantra, come anche pitture, opere, poesie, nel caso del Nostro canzoni, possono essere più o meno consapevolmente "porte regali" direbbe Florenskij, manifestazioni, canali, testimonianze dell'Assoluto.
RispondiEliminaPer tornare alla tua domanda, convertirsi a che? E' vero, se siamo già lo Spirito qualsiasi forma esteriore è vana. Ma il punto è che dobbiamo, direbbe Nietzsche, "diventare ciò che siamo", e in questo percorso interiore di ri-conoscimento, dobbiamo "sporcarci le mani", per intenderci, con la Forma, con la materia, e quindi l'adesione, non voglio dire l'utilizzo, il passaggio necessario delle forme religiose può essere un percorso all'Assoluto. Per poi,certo, abbandonarle al momento del riconoscimento definitivo. Non a caso cito la "Bhagavad Gita" in cui Shri Krishna parla di "Ananya Bhakti", la devozione in cui l'Altro non c'è, non c'è separazione fra Dio e devoto: solo in quel caso, di assoluta identità, di annullamento della dualità, l'offerta verrà accettata dal Dio. Logicamente, però, si pongono due problemi: come faccio a raggiungere tramite la devozione ad un Altro lo stato in cui non sono più Altro da Lui? E soprattutto quando l'ho raggiunto, che senso avrebbe fare offerte per ottenere benedizioni quando ho già raggiunto l'obbiettivo, sono diventato parte integrante del Divino? La famosa battuta sui testi sacri (e quindi su tutte le tecniche religiose, mantra, esercizi, preghiere): se non sono illuminato è inutile leggerli, non li comprenderei...ma se sono illuminato, diremmo a Roma, che me li leggo a fà? E' il paradosso costante, il koan ciclico, di voler costringere ciò che è Infinito e Assoluto nei limiti della mente. Il Divino è oltre la Logica, per quanto supremamente Logico. Blake l'aveva intuito, esprimendolo nel verso di "London" da cui ho rubato il titolo del blog: "In every cry of every Man,/In every Infants cry of fear,/ In every voice: in every ban,/ The mind-forg'd manacles I hear". Spero di non essere stato troppo confuso, ma ci vuole veramente il respiro di un libro: è semplicemente il punto in cui si è incagliata la teologia occidentale (Tommaso d'Aquino che in punto di morte dice che la sua immensa opera non è che paglia, ad esempio).
RispondiEliminaGrazie ancora delle tue domande molto profonde.