mercoledì 8 maggio 2013

Anni '50: Bob Dylan e David Lynch

E' con grande onore che ospito sulle pagine di http://contezarganenko.blogspot.it/
un articolo di Davide Martirani, pubblicato tempo fa sulle pagine di un compianto blog, "Il Grande Roe". Una riflessione di alto livello su due ricorrenti protagonisti di queste pagine:
Bob Dylan e David Lynch.
Buona Lettura.


Stavo ascoltando questa singolare compilation, una raccolta delle canzoni proposte da
Bob Dylan (nel bizzarro ruolo di DJ), durante il programma radiofonico Theme Time
Radio Hour
, andato in onda dal 2006 al 2009.
Com’è noto a chi ancora segua His Bobness, negli ultimi anni la musica di Dylan si
è mossa sempre di più verso sonorità e atmosfere anni ’50. Lo stesso look da cow-
boy, che ricorda analoghi travestimenti di Elvis, per quanto ai limiti del ridicolo sulla
figura sparuta e rinsecchita del vecchio Zimmerman, indica una volontà ben precisa di
ricollegarsi alla matrice country-blues da cui, a suo tempo, era sorto in lui il demone
della musica. Una sorta di amniotico ritorno alle origini.
La conferma di questa intenzione è proprio la scelta dei brani proposti in Theme Time,
che si arena fatalmente all’inizio degli anni ’60, e sciorina una miriade di artisti tra
jazz, blues, country e rock i cui nomi credo facciano ai più lo stesso effetto che hanno
fatto a me: blank face, direbbero gli inglesi. L’unico pezzo che davvero potevo dire di
conoscere prima di ascoltare il disco era questo – famosissimo – degli Everly Brothers:



E, anche lasciando da parte l’aria spettrale dei due fratellini, già qui c’è un punto di
partenza: il tema del sogno che è voluttà e rovina al tempo stesso (I’m dreaming my life
away) introduce bene una sorta di discorso sotterraneo che mi pare di ritrovare altrove,
in primo luogo – ovviamente – nella produzione recente dello stesso Dylan. Con alterne
fortune, infatti, zio Bob ha tirato fuori negli ultimi anni un gran numero di pezzi che
sembrano apparentemente usciti dai tempi di Chuck Berry. Dico apparentemente perché
non serve neanche un secondo ascolto, a mio parere, per cogliere il contrappunto
di disperazione che rivela subito il radicamento di questi componimenti nel suolo
avvelenato della contemporaneità. Sentiamone uno (uno dei migliori), dal suo disco del
2006 significativamente intitolato Modern Times. Il pezzo è "When the deal goes down",
cioè più o meno “quando il destino compie il suo corso”, “quando arriva l’ultima ora”, e
cose così.                                                          
Il brano, con la fondamentale cornice iconografica del video (lo trovate QUI), rappresenta
 al meglio il punto in cui la laudatio temporis acti diventa qualcosa di più che semplice nostalgia, e si rivela per quello che, al suo fondo, è: un terremoto dell’animo, un gesto di
contestazione radicale verso un mondo (il mondo) capace solo di distruggere, ferire,
annientare nel suo corso ogni attimo di felicità (more frailer than the flowers,
these precious hours), non lasciando dietro di sé che un cumulo di macerie, o una
registrazione sfocata in super8. "I heard the deafening noise, I felt transient joys. I know
they’re not what they seem": il “rumore assordante” è appunto quello del mondo, sotto
il cui rullo compressore vengono schiacciate le “gioie effimere” che “non sono ciò che
sembrano”. Il moralista nostalgico, dunque, si rivolge a un passato particolare solo come
tramite per quello che è il vero oggetto del suo desiderio: il passato ideale, assoluto,
perfettamente felice perché ormai cristallizzato, sottratto alla crudeltà del caso (cioè,
in ultimo, del movimento, del molteplice). Il passato come forma, più che sostanza del
tempo.
"You come to my eyes like a vision from the skies". Ed è certo una visione celestiale (in
senso tecnico, non trivialmente iperbolico) Scarlett Johansson, in una muta ma non per
questo meno efficace interpretazione della ragazza di provincia anni ‘50 *. La
morbidezza luminosa del suo corpo, l’incerta coscienza di un fascino offerto senza
calcolo, lo sguardo che ogni tanto si offusca sotto la nube di tristezze ignote: tutto
concorre a rinforzare la sensazione di rimpianto, di perdita. Come di qualcosa che si
aveva a portata di mano in abbondanza, e che ci si è lasciato sfuggire per folle,
imperdonabile leggerezza. Una donna così – che instillerebbe anche nei cuori più
corazzati da un gelido razionalismo il dubbio di una volontà superiore, di una scintilla di
luce ultraterrena – non solo era presente e viva, nell’universo impalpabile e semi-onirico
degli anni ’50, ma era una presenza quotidiana, familiare, che giocava con i bambini,
lavava i piatti, si spaventava nel tunnel degli orrori al luna park, divinamente
inconsapevole del proprio status empireo ("Ella si va, sentendosi laudare, /
benignamente d'umilta' vestuta"). Proprio come accade di solito, ci si accorge di tutto
questo con evidenza bruciante solo nel momento in cui si è costretti a constatarne la
perdita irreversibile. Ed ecco allora che la nenia tranquillante dalle sonorità vintage
rivela una composizione molto meno anodina di quanto apparisse in principio, e i
quadretti stucchevoli del tempo che fu si mostrano intessuti del filo amaro delle Parche.
Ma che gli anni ’50 nell’immaginario americano – e quindi, in parte, anche nel nostro -
siano una sorta di buco nero, di abisso in cui l’innocenza perduta si mescola alle tinte
cupe dell’orrore e della morte, era stato messo in chiaro già con grande forza altrove.
Prima ancora dei torbidi liceali di "Twin Peaks" – agghindati anacronisticamente come
i loro coetanei di trentacinque anni prima – la mente di David Lynch aveva operato
il cortocircuito tra passato e presente creando la cittadina di Lumberton, ridente e
bigotta comunità degli Stati Uniti settentrionali, percorsa da una corrente sotterranea
di perversione e violenza. In una scena giustamente famosa, il cattivissimo Frank Booth **
ordina a uno dei suoi sgherri di “cantare” (di fatto interpretare in playback) il classico
pezzo di Roy Orbison, "In dreams".


L’irrompere della voce malinconica di Orbison nella stanza in cui sono assiepati i
malviventi crea, come spesso accade in Lynch, un fortissimo effetto straniante; a
Hopper bastano poche inquadrature per suggerire alla perfezione il travaglio di Frank,
per convincerci all’istante dell’autenticità e della profondità della sua sofferenza,
portandoci a simpatizzare – almeno fugacemente – per uno dei villain più spietati del
cinema. Perché è evidente, in questi due minuti scarsi, che in quella melodia così
educata e per bene scorre un universo di dolore appena coperto dalla compostezza
dell’arrangiamento. E quello che si legge sul volto di Frank, mentre ascolta straziato il
salire di tono del ritornello, è esattamente quello che avevamo trovato nello scenario
dipinto da Dylan: il desiderio di recuperare un mondo perduto, di riaprire per un
attimo il varco di accesso verso una realtà pacificata, emancipata dalla violenza degli
ingranaggi che presiedono alla vita, e sottoposta al dominio incontrastato di un’unica,
gloriosa potenza d’amore.
Ma questo, appunto, può accadere solo nel sogno o nella memoria: laddove cioè le
connessioni tra le cose impallidiscono fino a disfarsi, e lasciano il posto a nuovi e più
giusti vincoli***. Però – e qui sta la vertigine – gli anni ’50 non coincidono con questa
dimensione onirica, ma verso questa a loro volta tendono nella disperata ricerca di
pace, di liberazione dal tormento del desiderio. Di nuovo, la vita reale viene rigettata e
sminuita in favore dell’autoannullamento, della dispersione di sé nel mondo dorato del
sogno ("I close my eyes, then I drift away, / into the magic night I softly say / A silent
prayer, like dreamers do, / then I fall asleep to dream my dreams of you").
Per chi li osserva da qui, allora, è inevitabile l’attrazione per quell’apparenza
dolcemente armonica, risolta. Ma è un attimo; e presto i segni non mistificabili di
una paura vecchia come il genere umano cominciano ad agitarsi sotto la superficie,
turbando, distorcendo la cara immagine della felicità antica fino a ridurla alle
sembianze di un orrore senza tempo.


*Ruolo, peraltro, già coperto brillantemente al principio della sua carriera, in quell’altro incubo a occhi aperti che è il magistrale film dei fratelli Coen, "L’uomo che non c’era". A proposito di lato oscuro degli anni ’50.

** E qui il pensiero corre per forza al titanico Dennis Hopper, che lo interpretava, e che ci ha da poco
lasciato
.

*** “Sappi che dal vero al sognato, non corre altra differenza, se non che questo può qualche volta essere molto più bello e più dolce, che quello non può mai”, dice il Genio a Torquato Tasso.

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