giovedì 14 marzo 2013

"Tempest"- la quiete del saggio dopo la tempesta del genio



Sono passati molti mesi dalla pubblicazione di "Tempest", l'ultima opera del più grande artista popolare, a mio avviso, dell'ultimo secolo, Bob Dylan.
Mesi di ascolto quasi quotidiano, in cui antiche riflessioni e intuizioni improvvise hanno danzato nella mente, alternandosi nel più scomodo dei ruoli: essere la guida che incerta tiene la lampada ("always carry a lightbulb!") nel labirinto oscuro, irto di insidie ma gravido di tesori nascosti, della filologia dylaniana.
In molti, e con grande competenza, si sono cimentati nell'immenso sforzo di ricomporre lo sterminato mosaico di citazioni, riferimenti, omaggi al limite del furto, serissimi giochi e continui rimandi all'intera tradizione della cultura popolare, non solo, americana, che Dylan ha, stavolta più che mai, ricamato come un dispettoso cabalista.
Giunti alla fine della loro paziente ricostruzione, gli speranzosi ricercatori (a cui va tutta la nostra rispettosa solidarietà) hanno atteso l'illuminazione definitiva, trepidando nel posizionare l'ultimo, agognato tassello, che avrebbe finalmente rivelato il grande disegno d'insieme...
Ma si sono ritrovati ancora una volta davanti, come la mappa necessariamente incompleta d'un percorso infinito, l'enigma che da sempre sfidano invano, l'immagine che puntualmente li irride nel suo mistero.
 Il volto, più ambiguo della Gioconda nel suo beffardo sorriso, della Sfinge dylaniana.

Come il Nostro all'apice della sua leggenda, non ci rimane che accettare il caos, sperando che esso accetti noi. Perdersi nel labirinto, rinunciando alla mappa, danzando nella tenebra, evitando le sabbie mobili dell'esegesi, ma abbandonandosi estaticamente all'ascolto, lasciando risuonare l'eco interiore dei versi, confidando di trovare per caso, magari inciampandovi, lo scrigno magico della verità simbolica.


Più che una recensione, lo stralcio d'un diario intimo, più che una critica, appunti dettati da un ascolto interiore.




Come il volto della statua (un particolare del fiume Moldava, rappresentato come una giovane addormentata, del basamento della Pallade Atena di Vienna) lo è nel rosso della copertina, la grazia stentorea del magistero compositivo dylaniano è qui immersa nel sangue, il flusso dell'ispirazione è avvolto dalla morte, sotto lo sguardo severo e ardente della Dea della Sapienza.

La Verità testimonia, nella sua potente eterna saggezza, lo scorrere perenne della sofferenza e del dolore umano.

Già ho scritto altrove, parlando sempre di Dylan, non possiamo pretendere che il nuovo disco di un'artista della sua potenza iconica possa avere l'impatto  rivoluzionario dei suoi dischi storici. 

Se tutti hanno dovuto fare i conti con la grandezza del modello dylaniano, figuriamoci Dylan stesso (questo vale per qualsiasi genio rivoluzionario raggiunga la vetta in qualsiasi campo, da Orson Welles nel cinema a McEnroe nel tennis). Egli ha dunque dovuto combattere, come già scrissi, "con genio per non diventare il poeta alessandrino di sè stesso" (verrebbe da aggiungere col suo stesso genio, come preannunciato in uno dei suoi tanti capolavori nascosti, "Where are you tonight?": "i fought with my twin, that enemy within, 'til both of us fell by the way") .

Come ogni vero sapiente esoterico (vedasi la citazione di Carlo Tenca in calce a "Il Cimitero di Praga" di Umberto Eco, laddove si dice "...gli episodi sono pur necessari, anzi costituiscono la parte principale di un racconto storico...e...hanno il pregio di sviare più che mai la mente del lettore dal fatto principale"), Dylan ha spostato l'attenzione dall'essenza segreta del disco, consegnando alla 
storia brani destinati a una facilissima celebrazione, a divenire evento mediatico obbligatorio ("Dylan scrive una canzone di 14 minuti sul Titanic!", "Dylan scrive una canzone per John Lennon!").
Oppure, dissimulando il messaggio dirompente dietro l'innocua apparenza di un motivetto anacronistico come "Duquense Whistle".
Per me le vere gemme del disco sono altre, non "Roll on, John" (qualcuno ha mai riflettuto che l'ultima cosa che fece Lennon in pubblico fu la parodia del suo antico mito e amico Dylan appena convertito al Cristianesimo?! Questo spiegherebbe i 22 anni di riflessione...), nemmeno la title-track sul Titanic, che è in realtà una magistrale trasposizione in rima del film di Cameron.
I diamanti, oscuri e taglienti fino allo sfregio,  per me sono "Tin Angel" e, soprattutto, "Scarlet Town". La prima è una sontuosa "murder ballad", ipnotica come un richiamo infernale, in cui scorrono e confluiscono in una possente ispirazione tutte le grandi storie d'amore tragiche che hanno puntellato il cammino del grande cantautore, da "She died of Love" a "Black Jack Davey", passando per "Lily, Rosemary and the Jack of Hearts", capovolta però nel suo rovescio anti-eroico e noir.
La seconda è, accanto a "Missisipi" ed "Ain't talkin'", il brano dell'ultimo ventennio dylaniano che porrei a fianco, per intensità, ricchezza d'immagini e possesso formale, a classici assoluti come "Dirge" o "Wedding Song". Un microcosmo colmo di contraddizioni eppure perfettamente conchiuso, una Macondo per gnostici disillusi, dove il Bene e il Male si mescolano nel cuore degli uomini sotto forma di fedeltà e vizio. Una città al di là del tempo e dello spazio, che forse solo chi ha percorso fino in fondo "Desolation row" può arrivare a visitare. 
Le altre tracce non fanno altro che rendere compiuta e definitiva l'opera di costante rielaborazione che il grande cantautore fa da ormai più di 20 anni di tutta la tradizione a lui antecedente: "Early Roman Kings" come "Beyond here lies nothin'" è una variazione interessante su accordi celeberrimi; "Narrow way" e "Soon after midnight" sembrano l'evoluzione e l'aggiornamento degli omologhi brani, per genere e tematiche, di "Love and Theft" e "Modern Times"; "Long and wasted years" è un'amara riflessione sulla caducità dell'amore, come decine di notevoli precedenti da "Infidels" in poi, passando per "Oh, Mercy", fino all'ultima Trilogia del Disincanto.
Un'ultima considerazione su un aspetto che meriterebbe da solo un libro a parte (e in effetti è stato fatto, un importante libro di Alessandro Carrera "La voce di Bob Dylan -una spiegazione dell'America"!): la voce di Dylan. Quella voce irriconoscibile, ormai così luciferinamente arrochita, strozzata in un ghigno sardonico o intenerita in una ironica posa da crooner, che per anni dal vivo abbiamo maledetto come una fornace deformante che tramutava gli altissimi versi in grugniti inintellegibili, ora finalmente è  il medium perfetto, posseduto e modulato con paradossale maestria canora, per amplificare il furore veterotestamentario di questi novelli "proverbi dell'Inferno".

Ma, fedele all'assunto iniziale, non vorrei dilungarmi in sterili interstardimenti filologici, per ampliare la riflessione all'ultimo Dylan in genere.


Il disco segna una maturità raggiunta nel nuovo percorso della inesauribile creatività dylaniana.

Una creatività che ha conquistato, nel biennio '64-65, vette mai più raggiunte, per nitore, universalità e prolificità, da nessun altro artista contemporaneo. Come una reincarnazione di RimbaudDylan ha bruciato tutte le tappe della musica popolare, stracciando codici, bruciano regole, creando nuovi linguaggi, rifondando una tradizione (quella del flok e del blues) e iniziandone un'altra (quella del rock). Tutto ciò in pochi mesi, nei quali ha composto una serie di capolavori impressionante non solo per numero, ma per diversità d'ispirazione, stile e orizzonte (si pensi ad esempio a "Chimes of Freedom", "Mr. Tambourine Man" e "Like a Rolling Stone").
Uno stato di grazia artistica assoluto, per molti aspetti senza riscontri.
Un collegamento Fastweb con l'Inconscio Collettivo.
E poi, conosciamo il racconto, l'invenzione del concetto di rockstar, l'esaltazione e l'eccesso dell'ego, il Destino che gioca la carta della più facile metafora: quando si va troppo veloce si va a sbattere, e si rischia la distruzione. La parabola d'un pre-Ziggy, ma risorto, redento e trasfigurato, che ritorna dal regno dei morti per iniziare la più grande e difficile opera di decostruzione che si possa mai immaginare: quella del proprio mito.
Con la consapevolezza del predestinatoDylan sa perfettamente di aver smarrito quella connessione mistica con l' Inconscio Collettivo (magnificamente descritto come "magica fonte perpetua di creatività").  E' il tema del più grande, a mio modesto avviso, capolavoro dell'ultima stagione dylaniana: "Ain't talkin'"Già dal titolo, un richiamo al silenzio mistico, nel paradosso, da koan zen, di scrivere 18 strofe per dire che non si sta parlando (si ricordi la famosa obiezione di un poeta satirico cinese che, al famoso detto "Colui che non parla sa, colui che parla non sa", rispose che il sapiente che l'aveva detto aveva scritto un libro lunghissimo...).

Lo smarrimento nel giardino deserto, abbandonato dal Giardiniere, è la più potente metafora della Caduta gnostica che un poeta (post) moderno e contemporaneo ci abbia consegnato.

Il Giardino mistico, antichissimo simbolo, non è solo, chiaramente, l'Eden, ma il Sahasrara, il loto dai mille petali della tradizione yogica e buddista, sede dell'armonia dei contrari, del contatto con il Divino, la Rosa Candida interiore, il Calice del Sè, allegoricamente il vero Graal.
Il castissimo talamo delle nozze alchemiche, definito poeticamente nelle Upanishad come la sede della Devi, il Tempio dell'intelletto illuminato dalla luce dell'Atma.  Non una metafisica Terra Promessa, non un vagheggiato Iperuranio, ma un luogo interiore.
 Come magnificamente descritto dal sublime poeta Kabir:
"Non andare al giardino dei fiori !
Oh amico! Non andarci !
E' dentro di te il giardino dei fiori !
Siediti sui mille petali del loto
E da lì contempla l'infinita bellezza."
(libera trad. mia)

Dylan ci descrive per lampi poetici, degni a tratti del suo amato Blake ("It's bright in the heavens and the wheels are flying/ Fame and honor never seem to fade/ The fire's gone out but the light is never dying/ Who says I can't get heavenly aid?"), la visione di sé stesso smarrito nel proprio Sahasrara, alla ricerca di un'illuminazione perduta. Un tema che ritorna ossessivamente fin dai tempi di "Time out of mind",  dacché in calce a tutte le composizioni dylaniane degli ultimi 20 anni si potrebbe mettere il verso: "While I’m strolling through the lonely graveyard of my mind"

  ("Can't wait"). Da questa frattura invisibile, da questo esilio spirituale, d'un viandante condannato a vagare nel proprio deserto interiore, nelle rovine della propria passata gloria, nasce l'immensa meditazione pessimista dell'ultimo Dylan.
Forse il "Never Ending Tour" è un disperato divertissement,  per sfuggire alla tortura del pensiero, per cercare d'afferrare il presente nell'attimo svanente di una variazione continua, lottando corpo a corpo ogni sera col demone gemello della propria leggenda.
Sia chiaro, per il sottoscritto queste non sono mere speculazioni. Dylan queste cose le sa.
Se non le sa, come io credo, consciamente attraverso il suo ininterrotto percorso di ricerca spirituale, che lo ha dichiaratamente condotto a visitare, almeno simbolicamente, i sibillini porti della Massoneria (si pensi alla famosa introduzione su Charlie Walker in "Theme Radio Hour", conclusa con "Preach on, my brothers"....che si riferisca a questo nella strofa "All my loyal and much-loved companions/ They approve of me and share my code/ I practice a faith that's been long abandoned/ Ain't no altars on this long and lonesome road"?!)...  se non le sa, ripeto, consciamente, le conosce nella luce della esperienza interiore, come spiegato mirabilmente da Jung in questa celebre intervista (4.39)
La perdita della connessione, la nostalgia dell'unione (spesso mascherata simbolicamente, come nel Cantico dei Cantici e nel sufismo, da desiderio amoroso) è tema che già ispirava le più riuscite composizioni degli anni'70, ad esempio nella già citata "Where are you tonight?" , o venendo tradotta sensualmente con irriverenza erotica in "Tough Mama"
Per non citare quella meravigliosa cavalcata onirica, sospesa tra iniziazione e profezia, di "Changin' of the Guards".
 Non solo come Dante e i poeti medievali che conosce e cita, ma soprattutto come la tradizione chassidica che scorre nella sue vene gli ispira, Dylan sa che la presenza del divino è (o si manifesta) nel femminile, e a questo aspetto si rivolge or come amante, or come sorella, or come madre, per saziare la sua sete di spiritualità. A volte confondendo i ruoli, 
nell' "errare-errore" che lo rende, purtroppo per lui, più che a Dante vicino a Petrarca (non a caso lo omaggerà nel racconto d'un amore impossibile eppure sempre ricercato, "Tangled up in blue":"Then she opened up a book of poems/And handed it to me/ Written by an Italian poet/ From the thirteenth century/ And every one of them words rang true/ And glowed like burning coal/ Pouring off of every page/ Like it was written in my soul from me to you"). 
Altre volte, con cristallina ispirazione, come nell'immortale "Shelter from the Storm",  dove all'apice del canto mistico confessa la sua hybris ("Now there's a wall between us something there's been lost/ I took too much for granted got my signals crossed").
Nel confuso, spesso, ma sempre fecondo sincretismo dylaniano, Iside è madre e sposa ("this is a song about marriage, it is called "Isis"!) , ed è archetipicamente anche Maria Christi sponsa (come canterà alla moglie Sara, con involontaria ironia poco prima del divorzio: "radiant jewel/mystical wife"). Se in "Ain't talkin'" rivolgeva alla Madre una preghiera sconsolata (I'm trying to love my neighbor and do good unto others! But oh, mother, things ain't going well"), all'inizio di "Tempest", album quasi omonimo d'una commedia shakespeariana ma in realtà nero come le più fosche tragedie del Bardo, nel momento del cambiamento, della crisi violenta ("when the wind of changes shift"), appare una materna nota di speranza: "I can hear a sweet voice steadily calling/ Must be the mother of our Lord".
La quiete del saggio dopo la tempesta del genio.

P.S.

Oggi con mio immenso piacere e grande onore iniziamo su questo blog una collaborazione spero duratura, con un artista che considero, oltre che ben più di un amico (un fratello d'intelletto e cuore),  non solo uno dei più grandi talenti viventi in Italia, ma anche una mente critica di rara lucidità e analisi: Lorenzo Ceccotti.
In questa sua duplice veste, ci dona l'illustrazione in testa al post, questo suo personale ritratto-riflessione, per me la più bella sintesi concettuale di Dylan mai fatta, che mostra perfettamente la ricchezza sapienziale dell'icona dylaniana.
Mi ha scritto, infatti: "In questo disegno c'è un triplo inside joke su "the answer is blowing in the wind": quelli che noi chiamiamo strumenti a fiato, o fiati, in inglese si chiamano "venti" (winds). M'ha sempre affascinato i titolo di questa canzone, cantata da un suonatore di armonica come Dylan, che con un gioco di parole da quattro soldi, me ne rendo conto, "blows into the wind". Percepire nell'aria la verità e cercare di catturarla con una melodia fatta esclusivamente della stessa aria in risonanza, distillando, attraverso l'armonica e il corpo come fosse un alambicco alchemico, l'anima in una armonia.
Ah dimenticavo: e infatti il psi (la lettera dell'alfabeto greco) che sta sull'armonica rappresenta il soffio vitale (psyche) che si ramifica nella vita, così come il soffio vitale monofonico nelle note in armonia nel disegno (da un suono a 10 suoni accordati) o come nella menorah, da uno a 7 (sempre a forma di psi), o l'albero in generale, dove da un elemento nasce una moltitudine. Che poi nell'arte è il solito concetto di lasciarsi attraversare dai significati e cercare di acchiapparli con la rete più fitta possibile, cercando di non farsi scappare nulla, nessun dettaglio."
Se siete interessati a comprarne una stampa o entrare in possesso dell'originale potete farlo qui.

4 commenti:

  1. Commento pubblico di Mr.Tambourine, gestore di www.maggiesfarm.eu, il più importante sito italiano su Bob Dylan: "Caro Adriano, come sempre le tue analisi sono molto profonde, frutto di una ricerca mentale non facile, paragoni a volte semplici ed a volte complicati come le allegorie nella Divina Commedia. La tua recensione di "Tempest" è una delle più belle che io abbia letto, permettimi di farti tantissimi complimenti per la "qualità". C'è questa tua frase che mi ha particolarmente spinto a meditare: "Forse il "Never Ending Tour" è un disperato divertissement, per sfuggire alla tortura del pensiero, per cercare d'afferrare il presente nell'attimo svanente di una variazione continua, lottando corpo a corpo ogni sera col demone gemello della propria leggenda". Il NET è davvero l'armageddon di Bob Dylan, una vera lotta per la sopravvivenza fra due anime completamente diverse, l'uomo e la sua leggenda. Solo che nessuno dei due cederà mai il passo all'altro, così il Tour si perpetuerà senza fine finchè uno dei due riuscirà a stare in piedi sul palco. Poi, un giorno futuro, tutto si fermerà improvvisamente, l'uomo e la sua leggenda verranno presi in consegna dalla "Storia" che comincerà un'altra meravigliosa neverendingstory che continuerà a perpetuarsi nel tempo. Alla prossima, Mr.Tambourine, :o)"

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  2. "Che poi nell'arte è il solito concetto di lasciarsi attraversare dai significati e cercare di acchiapparli con la rete più fitta possibile, cercando di non farsi scappare nulla, nessun dettaglio."
    Se siete interessati a comprarne una stampa o entrare in possesso dell'originale potete farlo qui.



    Così non va, contez.

    Viviana suggerisce:

    "Che poi nell'arte è il solito concetto di lasciarsi attraversare dai significati e cercare di acchiapparli con la rete più fitta possibile, cercando di non farsi scappare nulla, nessun dettaglio."
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    Vivi is back!

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  3. Grazie Viviana, presenterò il tuo apprezzamento a LRNZ, autore della frase nonché della stupenda illustrazione!

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