venerdì 12 dicembre 2014

DIMENTICA IL MIO NOME - la prova di maturità di Zerocalcare



Oggi è il compleanno di Michele Rech. 
Un ragazzo che ho avuto il piacere di conoscere in alcune occasioni, in cui si è sempre rivelato di una gentilezza disarmante, di una disponibilità quasi imbarazzante, tale da collocarlo indiscutibilmente nell'ambito della santità laica.
Un ragazzo onesto, molto serio, ispirato da ideali alti e difficili da rispettare nella società contemporanea, che lui (tra mille paranoie e paletti morali in granito) fa di tutto per onorare.
Ah, tra l'altro, è il fenomeno editoriale italiano degli ultimi tre anni.
Tutti lo conoscono come Zerocalcare.

Circa un anno fa (per la precisione 51 settimane) Andrea Coccia e il sottoscritto ci incontrammo sul ring de Linkiesta per dibattere insieme sul "fenomeno" Zerocalcare.
Io, per modo di dire, "pro", Andrea, per modo di dire, "contro".
Andrea rifletteva seriamente sulle possibili ripercussioni negative del successo travolgente e della iper-produttività (quattro libri in un anno) dell'autore sul mercato (e sull'autore stesso); io, nei panni a me inusuali dell'avvocato della tesi più popolare, mi spericolavo in una complessa indagine sulle radici nobili della comicità irresistibile di Zero.
In realtà al di là del format accattivante, entrambi di fondo concordavamo: dietro ai nostri articoli contrapposti ci univa la stima, direi anche l'affetto, per l'autore e l'apprezzamento per i suoi libri (la nostra giocosa sfida la trovate QUI).
L'occasione del dibattito era la pubblicazione di Dodici.
In realtà, Zerocalcare, nella nostra amabile conversazione a casa sua pubblicata su FUMETTOLOGICA (QUI) aveva già chiarito come il libro fosse una sorta di prova generale per il successivo: " sto lavorando a lungo termine su un progetto solo (...)  il progetto principale, al quale sto lavorando da quasi un anno e che adesso pare finalmente arrivato alla fase di disegno, è questo: una storia lunga che riguarda un pezzo importante della mia storia familiare, nell'arco di tre generazioni, mia nonna, mia madre e me. Una storia in parte vera, in parte romanzata, che riguarda delle storie che mi sono state raccontate quattro anni fa da mia madre (...) una storia con una gestazione super-lunga, poiché è stato complicato innanzitutto comprendere cosa poteva essere raccontato e cosa no. (...)  Sia “Dodici” che, in parte, “Un polpo alla gola” sono stati pensati come banchi di prova per questa storia. Esperienze che mi sono servite molto. Ad esempio, con “Dodici” ho capito quali sono i miei limiti. Ho compreso che la narrazione lunga, con un continuo temporale, senza spezzettamenti narrativi…mi annoia! E quando mi annoio a fare una cosa in qualche modo restituisco questa impressione al lettore. Probabilmente, quindi, questa nuova storia, pur essendo lunga, procederà per moduli narrativi più brevi".

La copertina variant del libro, realizzata assieme a Gipi, del quale anche oggi ricorre il compleanno 

Parlava, ovviamente, di Dimentica il mio nome, due giorni fa dichiarato dagli ascoltatori di Fahreneit  "libro dell'anno".
Un anno dopo, il libro ha conquistato proprio Andrea Coccia, rispondendo in un certo senso sul campo alle precedenti legittime osservazioni di quest'ultimo.
Crediamo che Andrea sia stato il primo ad essere felice nel riconoscere le doti del libro, esattamente quelli che nell'articolo indica come i "fattori incatenati" che definiscono la vera arte: "onestà, fedeltà (o schiavitù?) ai propri demoni, ossessione per il tempo perduto, per il passato".
Ciò che Coccia ha apprezzato del nuovo libro è soprattutto il coraggio di affrontare la propria storia privata, i recessi intimi del proprio passato: "Con Dimentica il mio nome, infatti, Zero — per quanto mi riguarda finalmente — prende in mano frammenti del suo vissuto famigliare, li mischia con una sana (e potente, e funzionale, e ben gestita) dose di reinvenzione fantastica, affrontando — anche qui, per quanto mi riguarda, finalmente — le proprie ossessioni faccia a faccia, andando a inseguire i vuoti della memoria, riempiendoli con il proprio immaginario, risolvendo narrativamente i conti con un passato, quello famigliare, mai affrontato" (ecco QUI  l'articolo integrale).
Ovviamente, Zerocalcare, col suo puntuale senso comico, ha colto subito il paradosso potenziale del rovesciamento di opinioni.


Dunque, mi è piaciuto?

In realtà, quello che penso, gliel'ho già detto di persona durante la nostra ultima conversazione a Più Libri, Più Liberi (la trovate QUI).
Il libro oggettivamente è il crocevia della carriera di Zerocalcare.
In un certo senso, ha vuotato il sacco completamente sulla sua adolescenza, o quantomeno sull'approccio adolescenziale, su quell'immaginario, comune a molti (compreso il sottoscritto), in cui si è riconosciuta, emotivamente, un'intera generazione.
Infatti, nell'intervista conferma: "il libro rappresenta a pieno quello che volevo fare. Sento anche che in qualche modo rappresenta la fine di un ciclo. Per la prima volta, se penso a cosa devo fare in futuro, ho il vuoto cosmico."
Non a caso, quando gli pongo la domanda di rito sui progetti per il futuro, se la cava con una dedica da incorniciare in oro bianco:



(chi conosce le modalità del mio matrimonio sa che compongono una storia a metà tra Amici Miei e Un treno per Darjeeling,).

Analizziamo ora, brevemente, il libro.
Il primo dato è che, indubbiamente, tutto appare più serio.
Non serioso, ma consapevole, maturo, meditato.
Non mancano, ovviamente, i classici luoghi di riconoscimento grafico-narrativi adorati dai fan (l'Armadillo, i personaggi dei cartoni animati come maschere della nostra interiorità, Rebibbia e The Clash etc.). Ma sono inseriti in un contesto più ampio, più profondo, immersi in un chiaroscuro interiore che li rende gradevoli punti di riferimento, non protagonisti nell'economia narrativa.
L'autore insegue meno la risata, ma quando la trova la fa esplodere ancora più potente.
Zero ci regala alcune perle aforistiche degne di essere mandate istantaneamente a memoria ("La morte è la prima causa di accolli in Occidente", "Nella scala dell'abbrutimento umano,  Downtown Abbey si situa tra la masturbazione ore pasti e l'eroina", "Dice che il dolore fortifica. Ti fa le ossa, dice. Diventi uomo. Dice."), ma è chiaro che qui l'umorismo è un mezzo per traghettarci nell'inquieto fiume dell'introspezione.
Se l'accusa, spesso rivolta (a volte snobisticamente ma altre no) ai libri di Zero era quella di essere sempre, si, gradevoli, divertenti, ma limitati alla superficie della quotidianità, stavolta ci si addentra nelle pieghe oscure della propria memoria negata, del passato occulto, rimosso, alla ricerca delle proprie radici.
L'umorismo è benedetto, perché salva dal precipizio scivoloso della retorica, mantenendo l'autore sul filo di una narrazione sostanzialmente equilibrata.
Certo, a volte si concede un po' troppo la risata nei momenti topici, come si volesse esorcizzare la tensione degli snodi narrativi più intensi (la gag della carpa fellatrice fa esplodere il riso ma sgonfia la massima tensione costruita per tutto il libro), quasi si volesse rimanere con un piede nello sguardo adolescenziale (quando il tema del libro è proprio l'uscita forzata dalla spensieratezza, l'ingresso traumatico nella consapevolezza adulta).
Chiaramente, (è ovvio per me, ma per molti pare di no): non è Pazienza, non è Gipi (a proposito: auguri, Gianni!).
Non vi vedo nulla di strano: è Zerocalcare.
Il dado, comunque, è tratto.
La propria vita privata, almeno dal punta di vista post-adolescenziale, è stata scandagliata, canzonata, trasfigurata, resa luogo comune (in senso buono) generazionale, per alcuni aspetti esaurita come fonte d'ispirazione.
Più che un libro riuscito, a mio modesto giudizio è un libro importante.
Zero si è liberato dei fantasmi, si è scrollato di dosso le risate facili  e le pacche sulle spalle.
Ora, davvero, egli può (con tutta la calma del mondo) cominciare a diventare un grande narratore contemporaneo.
Il prossimo passo (non per il recente viaggio a Kobane, ma per una militanza ormai ventennale) potrebbe essere affrontare direttamente tematiche sociali?
 Si, lo so, è una mia ossessione (eppure ho sempre preferito Artaud a Brecht, Elémire Zolla a Umberto Eco).
Anche qui Zero, nell'ultima intervista, mi ha risposto con onestà e coerenza: "le opere di natura politica secondo me devono essere affrontate e raccontate collettivamente, devono essere il prodotto di una collettività. Io non penso che un singolo si possa svegliare la mattina e farsi portavoce del popolo.".
Ineccepibile.
Dunque, a questo punto un giornalista esperto lancerebbe il titolo per accalappiare i lettori: "Dove sta andando Zerocalcare?"
Francamente, spero ad una splendida serata con i suoi amici, per celebrare il suo trentunesimo compleanno.
Lasciamolo in pace. il ragazzo sa quello che fa.

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