Anche per un regista serio e preparato come Mario Martone, realizzare un film biografico su Giacomo Leopardi (la più alta voce poetica italiana di tutti i tempi dopo Dante Alighieri, oltre che forse il nostro più grande filosofo moderno) rappresenta di fatto una sfida impossibile.
Troppi, mastodontici, insormontabili sono gli ostacoli che occludono un itinerario sereno e diretto, una visione limpida e illuminata dell'essenza esistenziale dell'immenso autore, tuttora ignorato, nella sua oceanica profondità, dai più. Brevemente, osserviamo i più evidenti: da un lato restituire cinematograficamente la complessità biografica di una vita che solo uno sguardo superficiale potrebbe additare come monotona, mentre al contrario fu rocambolescamente nomade; e non ci riferiamo solo alle abissali esplorazioni interiori del poeta, ma proprio alla serie fortunosa, improvvisata, quasi picaresca di spostamenti, traslochi, peregrinazioni, sostenuti in condizioni fisiche sempre più cagionevoli e in quasi completa indigenza.
Ancora, ben più arduo cimento, è affrontare il gigante Leopardi dovendo scrostare due secoli di luoghi comuni scolastici beceri e triviali, di etichette orrendamente superficiali e, proprio per questo, di immediata presa sulle menti comuni.
Soprattutto, accostarsi a Leopardi (non all'autore, proprio alla persona) significa dover trattare la materia più delicata e preziosa che esista: la sensibilità, sublime e fragilissima, di un poeta siderale e tremendo, che ha accolto nella sua carne le sofferenze ontologiche dell'intera umanità.
Un tentativo non molto distante dal mostrare un diamante rarissimo camminando su un filo a cento metri d'altezza: le possibilità di mandare in frantumi il prodigio di bellezza sono talmente elevate da indurre al tentativo solo un incosciente. Oppure un invasato d'amore, talmente folgorato dallo splendore del prodigio, da esser disposto a rischiare la rovina, propria e dell'oggetto, pur di mostrarlo alla massima altezza, per consentirne la migliore visione a tutti.
Leopardi è, assieme a Baudelaire, la voce poetica più alta e universale dell'Ottocento europeo (per tacere di William Blake, che collochiamo fra i profeti mistici).
Soprattutto, è un pensatore dalla lucidità spietata e inesorabile, una mente sconfinata, in grado di vedere profeticamente la china irrimediabile della decadenza moderna: "Di questa età superba,/ Che di vote speranze si nutrica,/ Vaga di ciance, e di virtù nemica;/ Stolta, che l'util chiede,/E inutile la vita/ Quindi più sempre divenir non vede".
Impossibile accostarsi alla fiamma del suo genio senza bruciarsi.
Chiariamo subito: il film merita onore per i molti, rari pregi del cinema martoniano, applicati col massimo della cura alla materia trattata. Il film è rigorosissimo, filologicamente maniacale, molto accurato nelle ricostruzioni storiche, facendo trapelare un rispetto quasi sacrale della figura leopardiana.
E di questo siamo grati.
La selezione degli attori (si, quella che con pigra arrendevolezza linguistica chiamiamo spesso casting) è a tratti definitiva: folgorante Silvia (Gloria Ghergo, nel suo innocente splendore, sembra l'incarnazione dei versi "beltà splendea/ negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi"), impeccabile il da noi sempre apprezzato Sandro Lombardi nei panni di Don Vincenzo, fredda e tremenda la madre interpretata da Raffaella Giordano, convincente il Pietro Giordani reso da Valerio Binasco, potente Paolo Graziosi come lo zio oppressivo, fedele e credibile la Fanny Targioni Tozzetti di Anna Mouglalis.
Gloria Ghergo nei panni di Teresa Fattorini, la Silvia leopardiana |
E il protagonista? Ci leviamo il cappello (intendiamo una tuba di quelle lunghissime) davanti ad Elio Germano, la sua interpretazione è prodezza di pudore e sensibilità. Ogni movimento potrebbe diventare macchietta, stereotipo, sfregio; ogni verso, celeberrimo, recitato una profanazione, uno stupro culturale, un marchio vergognoso. E invece, supremo è l'equilibrio, tra commozione e profondità, tra adesione mimetica e invenzione attoriale.
Una prova che definitivamente sancisce l'ingresso di Germano tra i grandissimi attori.
Affrontiamo ora, però, gli ostacoli di cui prima abbiamo accennato.
Come qualsiasi tentativo biografico, l'autore è costretto a tagliare, a scegliere, ad enfatizzare un aspetto e a trascurare altri.
Parlando di un autore dalla produzione sterminata, e tutta fondamentale, ogni scelta, direbbe Kierkegaard, porta angoscia.
Chi scrive ha tributato subito il suo dazio di lacrime al primo verso de La sera del dì di festa, "Dolce e chiara è la notte e senza vento...", sfogando emotivamente la profonda empatia con uno dei suoi prediletti auctores, potendo così poi osservare con maggiore distacco critico l'opera.
Incomprensibile, come da molti segnalato, l'utilizzo di una colonna sonora moderna (del dj berlinese Sacha Ring, pur premiato a Venezia) per sottolineare i versi sublimi ed eterni de L'Infinito. Stridente, in particolare, nella scena in cui il poeta scopre il rifiuto ipocrita della Tozzetti, fugge in lacrime, inciampa e singhiozza disperato. Scena straziante, resa magistralmente da Germano, amplificata da un intelligente movimento di camera. Grande intuizione, il poeta dilaniato dalle sofferenze, accanto alla Natura indifferente, il silenzio l'avrebbe resa indimenticabile. Perché aggiungervi un moderno lamento soul? Perché non Chopin o, ripeto, i "sovrumani silenzi" cantati dal poeta? Straniamento brechtiano? Forse, i limiti dell'impostazione "civile" di Martone, che gli conferiscono il grande dono del rigore, in questi casi affiorano nel loro tentativo di cercare il "contatto" col pubblico.
A questo riguardo, è encomiabile invece come il regista si sia svincolato dai gangli della critica marxista, per darci una visione filosoficamente più complessa del poeta. Se parte della visione eroica e protestataria del giovane Leopardi è certo figlia del famoso saggio di Cesare Luporini (Leopardi progressivo), Martone non lesina il sarcasmo dell'autore verso i progressisti liberali, sbeffeggiati nel testamento poetico dai versi stentorei ispirati dal panorama desertico del Vesuvio: "Dipinte in queste rive/ Son dell'umana gente/ Le magnifiche sorti e progressive".
Due volte Martone fa ribadire a Leopardi la sua comunanza con la visione degli orientali, distintamente gli indiani. Impossibile non pensare alla clamorosa coincidenza di date e idee con Schopenhauer (a cui abbiamo dedicato QUI alcune considerazioni), ma ancor più difficile appare negare il valore de L'Infinito come specchio perfetto di una meditazione sul non-dualismo.
Comprensibile, invece, la scelta, comunque coraggiosa, di affrontare subito il totem della "siepe", di far recitare, nell'ispirazione a voce alta, le tre poesie forse più celebri, o di menzionare le più note tra le lettere e le Operette Morali. Certo, vedere il Canto notturno di un pastore errante nell'Asia (forse la vetta poetica della letteratura italiana moderna) ridotto ad esser citato in un dialogo su un ponte fiorentino con Giordani ci ha stretto il cuore. Ma comprendiamo la necessità di scegliere un itinerario narrativo, necessariamente manchevole e arbitrario in un'opera non seriale.
Veniamo, dunque, alle scene più controverse e coraggiose del film.
In primo luogo, sontuosa è la citazione del Dialogo della Natura e di un Islandese: per quanto ci discostiamo dalla facile lettura freudiana che identifica la madre del poeta con la Madre Natura, la resa è maestosa. Non solo, la scelta restituisce piena giustizia alla posizione filosofica di Leopardi che (come ha spiegato in un saggio fondamentale, Dio in Leopardi il grande intellettuale contemporaneo Giovanni Casoli) non si limita al freddo ateismo dei philosophes illuministi, ma diventa una titanica rivolta antiteistica, come il grandioso, e poco conosciuto, Inno ad Arimane testimonia.
Molto si è discusso, invece, sulla veridicità dell'episodio, umiliante e beffardo, con l'ermafrodito nei bassi napoletani: Martone si esalta nella rappresentazione della sua Napoli, vitale, carnascialesca, ribollente Suburra di vizio e umanità. Lo sguardo, che qui si fa quasi pasoliniano, redime ogni volgarità: è vero che gli scugnizzi bersagliavano di crudeli lazzi il povero poeta, è comunque di grande pudore, nel grottesco, l'approccio tragico del poeta al peccato misterioso della lussuria.
Alto compendio della vicenda esistenziale leopardiana è il finale, affidato ai versi sublimi de La Ginestra. Mentre il poeta enuncia le sue terribili eterne verità, lo sguardo di Martone esplora le desolazioni desertiche del Vesuvio, la pietrificata morte di Pompei, fino a condurci nel mistero annichilente del silenzio cosmico.
Una scena a livello di un finale di Tarkovskij.
Elio Germano si fa maschera tragica, visione stentorea dello sguardo poetico sull'abisso.
Ricorda il volto indimenticabile e quasi intollerabile dell'ultimo Nietzsche.
Una vetta attoriale che, crediamo, non sarebbe stata sgradita a Carmelo Bene (non a caso unica voce dei Canti nella nostra nota).
Dunque: la sfida impossibile è inevitabilmente persa. Ma, proprio come insegnano i versi leopardiani, già il tentativo, disperato, eroico, necessariamente fallimentare, merita ben più degli onori veneziani, il Leone d'Oro a Martone e il Premio Pasinetti a Elio Germano.
Merita rispetto e gratitudine.
Il tributo degno dei veri artisti.