Generalmente, sono considerato (per quanto abbia senso tale espressione) una persona colta, intellettualmente vivace, spesso informata su aspetti poco noti di argomenti di comune interesse. Molte persone mi apprezzano come un brillante conversatore, una fonte di aneddoti curiosi e illuminanti su personaggi storici, grandi scrittori, luoghi universalmente conosciuti.
Un mio amico scherzosamente mi chiama "Adripedia".
Ringrazio tutte le persone che negli anni mi hanno generosamente accordato la loro stima, e riconosciuto in me tali amabili qualità, anche, recentemente, attraverso la lettura di questo blog.
Ma è tempo di gettare la maschera.
Per quanto il mio ego superi i confini conosciuti dell'umana comprensione, e la mia autostima sia senz'altro superiore a quella di Cesare, Rodolfo Valentino e Ibrahimovic messi insieme, devo qui fare atto di pubblica umiltà.
C'è una persona di fronte alla cui cultura e conoscenza io appaio un goffo analfabeta balbuziente, e alla quale mi inchino coram populo.
Sto parlando di Daniele Capuano, una mente eccelsa e un animo nobile, che da anni mi ha concesso il privilegio di un'amicizia fraterna.
Gran parte della mia apparente cultura viene da interminabili conversazioni della nostra adolescenza, in cui Daniele mi ha letteralmente schiuso universi di riflessione, sentieri di ricerca, giacimenti di bellezza.
Se ho conosciuto e amato alla follia Mozart, Tarkovskij, T.S. Eliot, Florenskij, Rilke, Captain Beefheart, i Santarita Sakkascia e Guido Ceronetti, lo devo a lui.
Se io passo per un erudito perché magari conosco il nome di un poeta francese minore di fine Ottocento, lui di quell'autore ha letto tutto. Oltre a quelli maggiori. E ai classici. E ai testi sacri. Di tutte le religioni. Studiati in lingua originale. Non so se ho reso l'idea.
Ma sa anche tutto sui Velvet Underground, sul pugilato, sulla cucina umbra, sulla tradizione rituale ebraica, sul diritto islamico, sulle faide interne al PCUS...l'elenco potrebbe continuare in migliaia di imprevedibili variazioni.
Probabilmente, è la reincarnazione di Pico della Mirandola.
In un mondo giusto sarebbe Ministro della Cultura dell'Universo.
Mi è parso dunque giusto nei confronti dei miei lettori condividere questo privilegio, iniziando a pubblicare un ciclo di conversazioni, su temi di varia ispirazione e interesse, con il mio ammirato amico e mentore.
Abbiamo deciso di iniziare evocando il più classico degli inizi: "C'era una volta..."
"Alice attraverso lo specchio", illustrazione originale di John Tenniel |
CZ:
Qual è secondo te il fascino, l’importanza del concetto di fiaba? E, come essa,
secondo te, affonda le sue radici nella sapienza popolare, e quindi in una
forma di narrazione archetipica, e come si riflette sulle attuali forme di
comunicazioni di massa (per cui il cinema, la narrativa etc..)? Qual è il
rapporto fra eterno e contemporaneo, che nel concetto di fiaba è implicito?
La Porta Magica di Piazza Vittorio |
DC:
Ci siamo incontrati davanti alla Porta Magica di Piazza Vittorio. Credo fosse
significativa l’idea, per quanto non del tutto deliberata, perché, come quasi
tutti sanno, la Porta Magica è il vestigio di pietra di una iniziazione
ermetica. Una delle poche dimore filosofali italiane, anzi più che una dimora
probabilmente era la porta di un laboratorio, e in ogni caso è un betilo*, una pietra sacra che in qualche
modo testimonia che è avvenuta una iniziazione. La fiaba a me pare qualcosa di
simile, sebbene meno velata nel caos mercuriale di Piazza Vittorio, come la
Porta del Marchese Massimiliano Palombara, e sebbene meno esplicitamente
esoterica, almeno nel senso più immediato del termine.
La
fiaba a me pare l’ultimo vestigio abitabile di quella che era l’antica grande
idea di iniziazione, presso noi moderni. Ovviamente, non è un accostamento
semplice, di questo magari parleremo dopo. Però, in che senso dico questo?
Cerco di spiegarmi: a me dà molto il sapore dell’iniziazione il finale di una
poesia che si chiama Il Convertito [The Convert], di Chesterton, uno dei più
grandi, a mio giudizio, esploratori del mondo fiabesco, fra la fine del XIX e l’inizio
del XX secolo. Alla fine di questa poesia, che è un sonetto in cui in qualche
modo cerca di esprimere il proprio rapporto con il mondo dopo la conversione
(una sorta di prodromo all’iniziazione, o che può essere accostata all’iniziazione
in ambito abramico e non sapienziale classico), dopo aver parlato delle
“foreste di lingue” dell’umanità, dopo aver parlato della saggezza con cui gli
uomini provano a tracciare le mappe del mondo, dice: “...Ma tutte queste cose
per me sono meno della polvere/ perché il mio nome è Lazzaro e sono vivo”.
Questa
è solo una suggestione. Però, a costo di essere digressivo, comincio a parlare
dei particolari: penso alle fiabe letterarie che più ci sono vicine, ad esempio
quelle del Seicento francese. Qualcuno le ha accusate, scrive Cristina Campo,
di adornare con troppe piume di struzzo e troppi paraphernalia del secolo d’oro l’antica e perpetua saggezza che
invece sfolgora in maniera archetipicamente più trasparente nelle grandi fiabe
della tradizione popolare, che comunque sono sempre state raccolte da
letterati, perché altrimenti non ne potremmo più parlare (le raccolte dei
Grimm, di Andrew Lang etc..). È vero che nei cosiddetti Racconti delle fate, quelli di Madame d’Aulnoy, di Madame Leprince de Beaumont, La Bella e la Bestia ad esempio, le
grandi fiabe di Perrault, è vero che c’è molto del mondo dell’epoca. Questo è l’approccio
semplicistico che si può avere leggendo all’inizio quelle fiabe, sembrano un
po’ un manuale, narrativamente molto accattivante, non di iniziazione ma di
educazione sociale del perfetto gentiluomo dell’epoca. Alle ragazze si insegna
continuamente, anche da parte delle fate, a parlare in un certo modo, a stare
bene a tavola, a ragazzi si insegna ad essere coraggiosi e buoni conversatori,
come voleva lo spirito dell’epoca, e in effetti questa è una parte dell’insegnamento
di quelle fiabe.
Un’altra
fiaba letteraria, forse la più grande italiana, è ovviamente Pinocchio di Collodi. Molti sono cascati
in questo trabocchetto (un po’ di meno rispetto ad altre fiabe, perché Pinocchio contiene molti anticorpi in
evidenza), nella trappola di vedere in questa fiaba un’esortazione al bambino
ad essere un bravo studente che non marina la scuola, a dire sempre la verità
alla mamma e al papà, e così via…
Effettivamente,
credo che questo faccia parte dell’essenza della fiaba, esattamente come la
buccia fa parte delle pere di cui Pinocchio viene consigliato di nutrirsi dal ‘padre’
dopo la famosa notte di paura e di fame con cui inizia il romanzo, o il
racconto che dir si voglia. Ad ogni modo, è vero che s’insegna ai ragazzi ad
essere bravi ragazzi del loro tempo, sia nel Seicento francese che nell’Ottocento
umbertino, però con lo sguardo dell’iniziato.
Illustrazione da "Le Avventure di Pinocchio" |
CZ:
Ci sono molti simboli che potremmo definire massonici ed occulti nel Pinocchio.
DC:
Assolutamente. Questo è un livello ulteriore di lettura. La cosa che a me salta
agli occhi è che questo livello più superficiale, che potremmo definire
di “etichetta” più che di morale...
CZ:
Il “bon ton” dell’epoca...
DC:
Esatto, ma anche la morale stessa delle favole… è parte di questo cammino
iniziatico. È come se le fiabe suggerissero una sorta di operazione
squisitamente iniziatica, che potremmo definire una sorta di karma-yoga o, evangelicamente, “sii nel
mondo, senza essere del mondo”.
CZ:
Che poi è una sorta di sintesi di molta sapienza orientale, una sorta di
aforisma che quasi sintetizza e porta nel Cristianesimo il messaggio della Bhagavad Gita...
DC:
Certo. Quello che non dobbiamo dimenticarci (a proposito di Gita, da te appena citata) è che il
ragazzo che esce dal racconto di Madame d’Aulnoy è un ragazzo che diventa un
gentiluomo, ma è anche un ragazzo che ha imparato a vedere le fate e a
conversare con loro. Pinocchio è diventato un bambino come tutti gli altri, ma
lo è diventato grazie alla sua capacità di vedere la fata in sogno, che è il
finale del racconto, non dimentichiamo.
CZ:
...reso magnificamente da Carmelo Bene...
DC:
Infatti. La lettura di Carmelo Bene è una delle più sensibili proprio perché
non cade in nessuno dei trabocchetti ideologici...
CZ
:Anzi, li capovolge proprio, lui dice che Pinocchio in realtà è il bambino che
vorrebbe abortire il passaggio all’età adulta per mantenere questo sguardo di
irresponsabile innocenza…
DC:
Sì, anche se, al di là della resa magnifica della sua interpretazione, a me
sembra una lettura, forse in maniera civettuola, limitata. Secondo me, quello
che caratterizza Pinocchio, come quasi tutti gli eroi delle fiabe, è la loro
fame, veramente straordinaria, di normalità, insieme al loro desiderio di
vivere le avventure più stabilianti....
CZ:
E qui torniamo a Chesterton, lo stupore iniziatico che ti porta paradossalmente
all’accettazione entusiastica del quotidiano, come fosse la più magica delle
avventure... la famosa frase di Chesterton, in cui dichiarava di commuoversi
davanti all’orario dei treni (“No, tenetevi i vostri libri di pura poesia e
prosa, lasciatemi leggere un orario ferroviario con gli occhi bagnati di
lacrime d’orgoglio!”).
Il grande Chesterton ritratto come Bacco |
DC:
Sì, infatti questo stupore è la sostanza di cui sono fatte tutte le grandi
fiabe, anche le più umili e nascoste. In un certo senso la fiaba inizia a
quello che potremmo chiamare il mondo dell’immaginazione, però stando attenti
alla portata direi ontologica di questa espressione. Mi rifaccio qui a un
grande orientalista, iranista, Henry Corbin, che studiando i sufi iranici ha
portato alla luce un’idea mistico-filosofica...
CZ:
Il mondo immaginale...
DC:
Esatto. Il mondo immaginale è un mondo terzo, che sta fra il mondo materiale
che noi cogliamo con i sensi grossolani nella realtà della veglia, e il mondo,
che potremmo definire intellettuale o spirituale, delle “idee platoniche”, che
non cade sotto i sensi. Il mondo immaginale è invece un mondo che cade sotto
sensi rinnovati. È il mondo del corpo sottile, per utilizzare un’espressione
familiare a quasi tutte le grandi tradizioni spirituali e sapienziali. Questo è
il mondo dove accadono, Corbin diceva pesando le parole dove hanno luogo, dove hanno veramente il
loro luogo di accadimento, le fiabe, le visioni dei mistici, le grandi
narrazioni apparentemente incongrue alla realtà di veglia. E che di fatto sono
delle intersezioni tra il mondo di veglia (che è anche un mondo storicamente
determinato, quello del Seicento francese, quello della Toscana dell’Ottocento
di Collodi) e...
Uno schema moderno del Corpo Sottile elaborato sull'Uomo Vitruviano di Leonardo Da Vinci |
CZ:
Un ponte d’accesso a quello che Jung avrebbe chiamato Inconscio Collettivo, un
momento di contatto, vorrei dire di connessione, di ispirazione, vicino
forse allo stato di Turiya, però non volto al dissolvimento nello Spirito,
bensì ad uno sguardo rinnovato sulla realtà fenomenica, che consente di
interpretarla come specchio di una realtà superiore... correggimi se sbaglio!
DC:
Sono perfettamente d’accordo. Del resto, sappiamo tutti che le grande fiabe
classiche sono un itinerario in cui di solito si diventa re, si diventa ricchi,
in cui si vive felici e contenti con la propria sposa e si fanno tanti
bambini... sono finali sottilmente sorridenti, che alludono ad una presa di
contatto, come dicevi tu, con la totalità dell’Essere...
CZ:
La realizzazione, nel senso di felicitas...
Come poi Dante dice nella famosa lettera, chissà se attribuibile o meno, a
Cangrande della Scala: l’obiettivo dell’opera, e dunque della vita, è avvicinare,
condurre i viventi allo stato di felicità, appunto nel senso etimologico
di Realizzazione.
DC:
... la felicitas sul piano umano, la beatitudo sul piano spirituale
CZ:
Esatto. Questo mi riporta molto alla cultura indiana, dove ad esempio c’è Shri
Lakshmi, che è anche, non solo, la Dea della Fortuna, della Ricchezza, del
benessere materiale, della pura soddisfazione, dell’abbondanza... che poi
diventa, nella sua forma evoluta, Shri Mahalakshmi, colei che concede la
Moksha, la Liberazione, la Realizzazione, e che quindi diventa una delle
manifestazioni più potenti dell’archetipo della Grande Madre. Di cui, nella
nostra cultura occidentale, la manifestazione è senza dubbio la Vergine Maria,
della quale però è stato sempre enfatizzato l’aspetto compassionevole e
benevolente. La Dea in India ha anche un aspetto guerriero e feroce, contro i
demoni ad esempio.
DC:
Non è un caso che l’immagine di felicitas
nella nostra cultura occidentale sia il Paradiso Terrestre, dove non esisteva
scissione tra il carnale e lo spirituale, tra il significato e il significante.
E non dimentichiamoci che la fiaba è narrata da un vecchio ad un bambino. Il
bambino è una creatura che ancora non sperimenta, se non come minaccia distante
da sé, la scissione caratteristica dell’età adulta fra il piacere fisico e il
rispetto dei limiti imposti dai genitori.
CZ:
Shri Mataji, ad esempio, dice proprio che i bambini sono nello stato di Yoga,
prima della formazione dell’ego, e quindi della percezione della separazione,
della divisione “io-tu, noi-voi” etc...
Shri Mataji Nirmala Devi |
DC:
Questo ci porta, tra l’altro, a quello che per noi oggi è un dilemma. È
difficile leggere una fiaba ad un bambino moderno, a un bambino perlomeno che
sia già stato toccato dall’atmosfera culturale di massa, e si tratta di un
contatto piuttosto precoce purtroppo. Anche se, per chi si è accostato in
qualche modo ad un esperienza spirituale o religiosa, è naturale pensare che l’ascesa
alla montagna della Conoscenza comporti poi, nella ridiscesa al popolo, un racconto
che non può non articolarsi con queste immagini: l’immagine della ricerca della
regalità, della ricerca di ricchezza, della ricerca ad esempio di un gioiello
perduto, o di qualcosa di smarrito, tutte le immagini che sostanziano le fiabe
eterne.
CZ:
Schematizzando, tutte metafore del tesoro interiore, della verità da trovare,
appunto, della Realizzazione...
DC:
Sì, un tesoro interiore che comporta una presa maggiore, e non minore, sul
mondo che cade sotto i nostri sensi, come dicevi tu prima. È un dono totale, integrale,
di cui il bambino e l’uomo antico non si vergognano, ma che noi invece
spesso percepiamo come qualcosa di delusivo. Il finale della fiaba viene spesso
deriso nella letteratura “alta”…
CZ:
Infatti, con molta sapienza e umorismo, anche il finale de I Promessi Sposi, con consapevole ironia, lo evoca. Per me, il
fatto che I Promessi Sposi vengano
considerati un romanzo noioso e pedante è una delle grandi maledizioni della
Chiesa Cattolica. Uno dei motivi per cui io sono fiero di essere italiano
sono I Promessi Sposi...
DC:
E Pinocchio... i due più grandi
racconti in prosa dell’Italia dell’Ottocento. È un accostamento che mi
piace e che, tra l’altro, sento molto, anche se si tratta di due prove
letterarie completamente diverse...
CZ:
Anche se in entrambe c’è questo senso dell’ itinerarium
da “pilgrim’s progress”...I Promessi
Sposi sono una sorta di Candide a
rovescio...invece di esserci il ghigno beffardo della razionalità di Voltaire,
c’è il più consapevole umorismo di Manzoni. E per me, per quanto stemperata dall’iniziale giansenismo e con una forma certo più castigata, non è
tanto distante dalla risata, a volte anche un po’ ebbra, di Chesterton.
DC:
È vero. Dobbiamo precisare anche che non c’è esperienza religiosa che non abbia
qualcosa di questa sobria ebbrezza.
CZ:
Se è autentica, sì.
DC:
Siccome sappiamo che Manzoni ha avuto un’autentica esperienza religiosa,
nonostante i limiti del suo primo approccio al Cristianesimo... e forse anche
del secondo, perché in effetti il Cattolicesimo ottocentesco, pur da lui difeso
brillantemente...
CZ:
...nelle Osservazioni sulla morale
cattolica... libro che ho sempre accostato a Ortodossia di Chesterton (che ha uno svolgimento più paradossale e
quasi romanzesco nell’argomentazione)... dico sempre che per me sono due libri
pericolosissimi, perché sono scritti talmente bene che uno rischia di... convertirsi
al Cattolicesimo!!
Mi
viene in mente quella riflessione sublime del Manzoni che scrive: “il mistero
concilia le contraddizioni”, che è una delle più belle risposte che possa dare
un credente a un ateo.
DC:
Assolutamente, è un libro eccezionale. C’è un’appendice meravigliosa in cui
confuta l’utilitarismo di Bentham, che andrebbe letta secondo me come
introduzione allo studio della filosofia nelle scuole superiori.
CZ:
L’epitaffio del nascente capitalismo.
DC:
Epitaffio e monito all’epoca, perché in Italia all’epoca potevano vedere
ben poco di quello che sarebbe accaduto. Sì, l’insistenza su Chesterton e
Manzoni mi trova, come sai, molto d’accordo, anche per quello che vorrei dire,
che mi sta molto a cuore, sul dono veramente integrale, totale che fa la fiaba.
Potrebbero sembrare due doni quelli di cui sto parlando adesso, in realtà ai
miei occhi sono un solo dono.
E proprio come nelle fiabe che ascoltavamo da piccoli...
FINE DELLA PRIMA PARTE
* DC: nota alla parola betilo: non per spiegarla, ma per indicare come mi sia stata suggerita da una grassa turista australiana, in visita a Piazza Vittorio col marito (circa cinque mesi fa). Mi chiese informazioni sulla Porta, presso la quale ero seduto, e io gli dissi quello che potevo. Lei, buona protestante e quindi frequentatrice abituale del Libro, commentò: "So maybe it's kind of a bethel", riferendosi all'episodio di Giacobbe. Io le risposi: sì, qualcosa di simile, con la differenza che la Porta è stata fatta dalla mano di Dio e di un uomo insieme.
Come già fatto in passato, dei molti commenti che questi articoli ricevono sui social network o in altre sedi credo sia interessante riportare nel blog quelli che possono aprire approfondimenti del dibattito. Stavolta, è il caso del caro Andrea D'Amico che ci chiede: " "In un certo senso la fiaba inizia a quello che potremmo chiamare il mondo dell’immaginazione". Parlo da lettore di fiabe alle mie bambine e porgo questa domanda: è incredibile come mia figlia grande (6 anni) parta da una fiaba per arrivare al concreto e a porre domande sull'esistenza. Leggendo ad esempio di Re Artù e Merlino, tempo fa mi fece un'entusiasmante domanda sul cammino interiore. Credo quindi che la fiaba inizia all'immaginazione, al divertimento nel senso letterale del termine, ma ad orecchio attento risulta essere la chiave di lettura della quotidianità. Attendo una tua risposta;)".
RispondiEliminaHo girato il quesito a Daniele che ha prontamente risposto: "Non c'è dubbio: la fiaba è sapienziale, è sal sapientiae che apre i sensi e l'intelletto e dunque dona metis, saggezza ai suoi fruitori, come le avventure iniziatiche ai loro eroi. Lo dicevamo nella nostra conversazione: le fiabe insegnano a non fidarsi di se stessi, degli uomini e del potere, sono spietate e quindi davvero misericordiose, perché un amore non fondato sulla verità è fumo negli occhi e non nutre il cuore. D'altronde l'immaginazione di cui parlano i sufi riscoperti da Corbin, in arabo khayal, è l'immaginazione creatrice, non la fantasticheria masturbatoria con cui ci difendiamo, malissimo, dall'incontro mortale e vivificante con Sofia. Anzi, l'immaginazione è la Sofia stessa, è la facoltà con cui il mondo viene creato istante dopo istante. Nel mondo postmedievale questa idea in Occidente si è smarrita: il modo migliore per riaccostarla, qui da noi, mi sembra quello di meditare le pagine di Chesterton sulla contingenza. La rosa non ha un perché, è perché è, il suo rosso sfolgora, nell'istante eterno dello stupore infantile (quello di Bala Krshna, quello di Dioniso davanti ai giocattoli e allo specchio, il thaumazein che Platone collega a thauma, 'marionetta' - scoprire di essere marionette, come Pinocchio, è l'inizio della filosofia, dicevano i vecchi greci...), come sangue versato, come l'aurora... Questi accostamenti, fonte di ogni metafora, non sono fantastici nel senso di arbitrari: Corbin infatti non traduce alam al-mithal con mondo immaginario ma con mondo immaginale, per sottolineare che l'immaginazione è conoscenza in atto, conoscenza che plasma l'universo di istante in istante. (Per restare all'Islam: la regina di Saba, Bilqis, scoprì questa verità quando Salomone la fece entrare in una sala del suo palazzo pavimentata di cristallo. La donna si alzò la gonna, temendo fosse acqua, per non bagnarsi. Scoprì l'inganno, e fu illuminata. Non c'è qualcosa di simile, nella famosa similitudine vedantica del pezzo di corda e del serpente? Immaginazione, maya... Maya divina, misericordia e legame). Scusa la prolissità."
RispondiEliminaNon essendo Daniele su Facebook, continuo a riportare il proseguimento del dialogo a distanza.
RispondiEliminaAndrea D'Amico: "Alla fine il concetto è che il bambino è neurobiologicamente portato a concretizzare. La concretizzazione è parte del processo che insegna ad immaginare."
Daniele Capuano: "Sì, è verissimo. D'altronde l'immaginazione corporifica, dà corpo alla realtà. Chesterton osserva con finezza la differenza tra bambini e adolescenti. I bambini, quando giocano, ritualizzano la finzione, tracciano un temenos dicendo: "Facciamo finta di essere"; gli adolescenti diventano snob, perché fanno finta di essere e basta, senza lo sguardo doppio, dionisiaco (solenne e lieve insieme), del bambino. Mio figlio me l'ha insegnato a soli diciannove mesi: abbiamo plasmato insieme delle verdure di creta, poi io ho simulato di rosicchiarle con grande piacere, esagerando la mia mimica con la condiscendenza purtroppo peculiare agli adulti. Lui mi ha fatto osservare, alzando l'indice destro: "Papà, la creta non si mangia!". Così pure un antropologo è stato felicemente umiliato dal vivo contatto con i bambini di un popolo nigeriano tradizionale, gli hausa, noto per il loro 'yoga del sogno', per così dire (lavorano sulle immagini dei sogni fino a suscitare a volontà lucid dreams ricchi come cosmogonie orfiche): pieno di pregiudizi tardo-vittoriani, alla Frazer, era persuaso che i 'selvaggi', e tanto più i loro ragazzini (due volte selvaggi), fossero più o meno dei borderline e confondessero fantasia e realtà. Dopo esser stato interrogato sulle sue articolate visioni oniriche (nemmeno lontanamente paragonabili a quelle di un suo coetaneo europeo o nordamericano), un monello ha sorriso al dotto studioso occidentale, tagliando corto con il commento: "Ma alla fin fine, questi sono solo sogni!".