Per il secondo anno consecutivo sono andato a vedere "The Musical Box", la celebre cover band dei Genesis, nella loro intatta esecuzione di "The Lamb lies down on Broadway", memorabile concept album del '74, ultimo burrascoso capitolo dell'aurea "era Gabriel" del gruppo.
Solitamente, non amo le cover band. Per quanto possano essere meritorie e filologicamente accurate nelle loro ricostruzioni (alcune impressionanti, ad esempio gli Apple Pies col primo periodo dei Beatles), scontano sempre un artificio intrinseco, soprattutto nel caso di repliche d'artisti ancora in vita. Non si va oltre l'ammirazione, eventuale, per la capacità mimetica dimostrata, ma siamo sempre di fronte a un freddo clone di un originale irraggiungibile. Un surrogato, per quanto gradevole, che non fa che rimembrarci in maniera straziante l'evidenza d'essere nati 20 anni in ritardo rispetto al Grande Rinascimento (come dice Alessandro Caroni) delle arti popolari del ventennio '60-'70.
Queste legittime resistenze svaniscono d'incanto di fronte all'unica eccezione dei "The Musical Box", in particolare in questo caso.
Non solo perché il gruppo in questione è probabilmente la "migliore"cover band in assoluto, cioè quella che più riesce a ricreare in maniera magicamente identica i suoni, le movenze, i costumi, l'atmosfera del gruppo d'ispirazione (e, con tutto il rispetto, rifare dal vivo in maniera impeccabile "The Cinema Show" non è la stessa cosa che fare "In My Life").
Non solo perché gli stessi ex-membri dei Genesis li hanno a turno sostenuti ed elogiati in maniera pubblica e commovente: Tony Banks ha aperto loro l'archivio originale dei master tape per consentirgli di studiare i brani traccia per traccia; Phil Collins ha detto che eseguono i brani in questione meglio dei Genesis del'74 (confrontate voi: la cover band QUI e l'originale dal vivo QUI) e ha suonato la batteria sul brano che dà il nome al gruppo; in precedenza anche Steve Hackett aveva suonato nei bis in un concerto alla Royal Albert Hall: Peter Gabriel ha portato i suoi figli a vederli e avrebbe risposto più volte che è inutile chiedergli della riunione dei Genesis (resa ahimé ormai impossibile dai problemi di sensibilità alla mano sinistra di Phil Collins), visto che tanto ci sono "The Musical Box".
Non solo perché Gabriel e i Genesis hanno concesso loro, caso unico, i diritti integrali per portare in tournéé lo spettacolo originale di "The Lamb lies down on Broadway" (QUI la fonte delle varie collaborazioni).
Non solo per questo, che già sarebbe abbastanza. Ma perché dello spettacolo originale in questione non esiste alcuna registrazione. Com'è noto, Gabriel aveva annunciato l'abbandono del gruppo prima di andare in tour, e quindi il gruppo non ritenne opportuno immortalare delle performance cariche di tristezza e tensione, che sarebbero poi state ulteriormente tormentate da continui problemi tecnici. "The Musical Box" hanno impiegato sette anni per ricostruire, con scrupolo e pazienza da talmudisti, lo spettacolo originale attraverso la collaborazione dei loro idoli e dei tecnici dell'epoca, arrivando a recuperare addirittura lo slide-show che accompagnava la narrazione sullo sfondo, aiutandosi con immagini di repertorio e super-8 (ovviamente senza sonoro) dei fan dell'epoca. E sono riusciti a far resuscitare, con commovente fedeltà, uno dei momenti più alti e significativi del teatro-rock.
Per cui non si tratta di uno sterile tributo, ma di un evento davvero imperdibile per gli amanti dei Genesis. Snobbarlo come un'insignificante copia, equivarrebbe concettualmente a considerare inutile la visione dell'"Aida" all'Opera o del "Macbeth" a teatro (riguardo ciò, un giorno ci divertiremo).
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Questo concerto è per me l'occasione di scrivere qualcosa sui Genesis, una delle più importanti e, per il sottoscritto, sottovalutate band della Storia del Rock.
Ovviamente, mi sto riferendo ai veri Genesis, quelli di Peter Gabriel, di cui "The Lamb lies down on Broadway" è il tumultuoso e geniale testamento. Non m'interesso della pop-band che ne ha usurpato il nome successivamente, seppellendo il tesoro inestimabile dell'abbagliante quinquennio 71-75, sotto una frana rovinosa di scioccherelle canzoncine anni '80 (salvo solo, com'è pacifico per tutti gli schieramenti sul tema, l'immediatamente seguente"A Trick of the Tail", generato però da materiale precedente).
Strano destino, quello di una band straordinaria, troppo spesso confinata nell'etichetta scolastica di "più grande gruppo progressive". Per le contorte dinamiche del mainstream, la folgorante bellezza delle loro opere è rimasta schiacciata tra la venerazione universale tributata ai Pink Floyd, l'esclusiva dei nostalgici fricchettoni accaparrata dai primi King Crimson, e la devozione della nobile ma sparuta genìa degli "esperti" di progressive-rock, condivisa con i Gentle Giant e gli ingiustamente trascurati Van der Graaf Generator.
Eppure, semplicemente osservando la storica line-up, i Genesis appaiono, a posteriori, come una impensabile super-band, un dream-team di eccellenze complementari, una "cooperativa di musicisti", come amavano definirsi, unita da una felicissima e irripetibile coincidenza astrale. Scorriamo brevemente le figure immortalate nella formazione classica, in ordine di personale ammirazione: Phil Collins, che prima di condannarsi al ruolo di Amedeo Minghi del Mondo, era una batterista magistrale, non solo tecnicamente notevole ma in grado di creare nuovi ritmi, soluzioni modernissime, variazioni volanti poi divenute preda di saccheggio metodico negli anni successivi; Mike Rutheford, compositore e musicista di grande versatilità, in grado di passare dalla iconica dodici corde alla chitarra ritmica fino a reinventarsi, dopo l'abbandono di Hackett nel'77, convincente chitarra solista; Tony Banks, abile polistrumentista e tastierista d'eccezione, severo genio compositivo dotato nelle dita dell'equilibrio melodico proprio dei classici (si pensi alla memorabile introduzione di "Firth of Fifth", agli intermezzi strumentali di "Supper's Ready", alla solennità straniante dell'intro di "Watcher of the Skies", o alla perturbante commozione delle atmosfere di "The Lamia"); Steve Hackett, uno dei chitarristi più importanti, a livello di impatto innovativo, della Storia del Rock (chiedete a Brian May), da molti indicato come l'inventore del tapping (o quantomeno colui che lo portò alla massima gloria, prima di Eddie Van Halen), consegnato all'epica popolare dagli assoli di "Dancing with moonlit Knight" e "Firth of Fifth"; e poi, ovviamente, lui, l'Arcangelo: Peter Gabriel, folletto filiforme e cangiante, paroliere visionario e barocco, frontman dal carisma teatrale ipnotico e beffardo, ma soprattutto instancabile ricercatore musicale e spirituale.
Con tutto il rispetto per la sua importante carriera solista, per il suo nobile impegno umanitario, per l'inestimabile lavoro di talent-scout di musica etnica (dobbiamo a lui la diffusione nel mondo di una delle più belle voci del Novecento, il sublime "usignolo di Allah", Nusrat Fateh Ali Khan, e conseguentemente del Qawwali, giacimento di pura bellezza della tradizione sufi)...per noi le vette della sua arte rimangono le performance da fool shakesperiano, i testi commisti di dirompente erotismo e tensione mistica, e le melodie dolenti e rinascimentaleggianti della sua militanza genesisiana.
I Genesis hanno, nel lampo accecante di pochi dischi, riassunto in nuce e portato alla massima elaborazione tutto il meglio che la musica popolare aveva fino a quel punto, e avrebbe in seguito, espresso: l'attenzione sociale e il valore poetico dei cantautori (nei testi di Gabriel, ad esempio in "The Knife" e in "Supper's Ready"); le ambizioni sinfoniche dei grandi gruppi anni '70 come i Pink Floyd e, in maniera diversa, i Queen (in tutti i brani celebri, e non solo, del gruppo,); la mimesi, la teatralità rivelatrice che verranno portate all'epitome da Bowie, ma arricchite da Gabriel di una più profonda consapevolezza simbolica; il possesso e la realizzazione della formula definitiva della canzone pop ("I Know What I Like (In your Wardrobe)"); il virtuosismo tecnico, che giustificherà di per sé l'esistenza di numerosi gruppi successivi, soprattutto negli ambiti ulteriori all'hard-rock, in questo caso assolutamente non fine a se stesso, ma messo al servizio di una ricchezza compositiva corale, in alcuni casi senza raffronti; l'anticipazione, anche qui dosata in misure e tempi magistrali, dei più entusiasmanti momenti del rock successivo, fino al metal (il famoso rullìo militare della seconda parte "One" dei Metallica è già presente in maniera molto più brillante nella stessa posizione di "The Knife"; guarda caso argomento simile, ma con abissale differenza di profondità); il recupero, poetico e musicale, delle tradizioni popolari e della mitologia, nella loro fiabesca ricchezza primordiale di racconto archetipico (linea rossa che lega tutti gli album da "Trespass" a "Selling England by the Pound");
In brani come "Supper's Ready", i Genesis hanno forse spinto le possibilità della musica rock alle massime potenzialità espressive, con un ampiezza di respiro compositivo e una universalità di messaggio che non ha, per chi scrive, davvero nulla da invidiare a celebratissimi dischi-feticcio come il "White Album" dei Beatles o "The Dark Side of the Moon" dei Pink Floyd.
Una ricchezza di stimoli culturali e intuizioni compositive, spesso perfettamente compiute, che fatico a riscontrare altrove.
Solo il leggendario disco mai realizzato insieme da Bob Dylan e Frank Zappa (quest'ultimo, genio indiscusso, pretendeva di voler scrivere lui i testi di fronte al futuro Premio Pulitzer, in seguito più volte candidato al Premio Nobel della Letteratura), considerando le potenzialità titaniche messe in campo, avrebbe potuto superarli per creatività e genio.
Mi ripropongo anche in questo caso di scriverci un libro: è una delle mie tante battaglie culturali, accanto a quella per l'eliminazione dei testi di Fabio Volo dal settore narrativa delle librerie e l'adozione di un test d'intelligenza e di cultura generale per avere accesso al diritto di voto.
Nel prossimo articolo, ci occuperemo più nel dettaglio di "The Lamb lies down on Broadway", e delle sue complesse e illuminanti possibilità d'interpretazione.
Per quanto la vulgata nichilista contemporanea, nel suo tragico avvitarsi su se stessa, dia come assunto ormai scontato che l’esistenza sia priva di senso (un mero patetico sbattersi d’ impulsi freudiani fino all’ineluttabile epilogo dell’estinzione, unica certezza), io celebro ancora a testa alta lo stupore del mistico e del fanciullo di fronte al gioco misterioso in cui tutti, dalla nascita, ci ritroviamo attori e testimoni. E’ chiaro, ad un analisi razionale, fredda e oggettiva, l’esistenza appare esattamente come magnificamente descritta da anime sublimi e menti superiori, in vette nerissime di sapienza pessimista: “un pendolo che oscilla incessantemente fra noia e dolore” (Schopenhauer), “ un racconto narrato da un idiota, pieno di strepito e furia e senza significato alcuno (Shakespeare)”, “Amaro e noia... altro mai nulla; e fango è il mondo” (Leopardi). Insomma, la nostra mente, non fa che ripeterci il mantra dell’Ecclesiaste “vanitas vanitatum”, eternato ancora da Leopardi, in una mirabile variazione: “l’infinita vanità del tutto”. Questo tragico annuncio appare spietatamente confermato dalla mera constatazione della condizione umana: sofferenza ovunque, ingiustizia trionfante, il dolore come unico sentimento universale. La stragrande maggioranza dell’umanità vive in condizioni di indigenza, o è vittima d’ingiustizie, abusi, torture. La cronaca quotidiana è un intollerabile viaggio nell’orrore per chiunque abbia un residuo seppur minimo di sensibilità ed empatia umana. In più della metà del mondo la nascita equivale ad un violento approdo in un inferno di schiavitù, inedia, abusi di ogni tipo. Le ristrette oasi del mondo cosiddetto civile, evoluto, “ felice” sono prigioni per masse forzosamente costrette ad un bivio: o costrette a un affanno continuo per sopravvivere , strozzate in ritmi assurdamente frenetici e innaturali; o, peggio, materialmente soddisfatte, ma schiave di illusori desideri imposti dall’alto. Miliardi di zombie posseduti da dogmi materialisti, ipnotizzati come grottesche marionette. Come faceva dire Pasolini a Gagarin ne il finale de “La Rabbia”, dall’alto di una contemplazione cosmica l’umanità apparirebbe come: “miliardi di miseri abbarbicati alla terra come disperati insetti” I pochi ricercatori della verità, i soli per cui questo mondo è ancora in vita, albatri baudelariani derisi dalla ciurma degli schiavi sociali, soffrono indicibilmente la leopardiana distanza siderale tra l’infinito intuito nel loro cuore e la crudele finitezza del reale. Benvenuti nel Kali-Yuga: l’era della confusione, dell’errore. Sembra proprio aver ragione il Dylan ultra pessimista degli ultimi anni: “Every moment of existence seems like some dirty trick/ Happiness can come suddenly and leave just as quick/ Any minute of the day the bubble could burst” (“Sugar Baby”), “The suffering is unending/. Every nook and cranny has its tear” (“Ain’t talkin’”) Il dolore quindi apparirebbe come l’unica forma di conoscenza, la religione un ridicolo trucco, la scienza una continua conferma della nostra precarietà, le ideologie delle trappole di massa. A livello razionale, è esattamente cosi. Innegabile. Ma è solo da trecento anni che l’uomo pensa che la mente abbia il primato tra le sua facoltà In una splendida frase (la cui bellezza rimane intatta nonostante sia divenuta uno slogan mocciano) Antoine de Saint Exupéry ammoniva: “non si vede bene che col cuore. L'essenziale è invisibile agli occhi”. Lungi dall’essere una frase da Bacio Perugina, è sintesi poetica di una sapienza millenaria: il cuore è sede, per i mistici di tutte le tradizioni, dello Spirito. L’Oceano di Verità, Consapevolezza e Beatitudine. Con occhi aperti alla visione interiore la vita ci appare come un’avventura. Come diceva Chesterton: “La vita è la più bella delle avventure ma solo l'avventuriero lo scopre. “ Una Sinfonia di coincidenze rivelatrici, una mappa segreta di percorsi interiori, un codice divino di segnali e prodigi nascosto nell’apparente grigiore della quotidianità. E, una volta giunti alla visione, ci dissolviamo nella stupore infantile, al cospetto di quella che Testori cantò come “La maestà della vita”. Ma questo prodigio, lo splendore intimo dell’esistenza, solo si rivela a chi ha custodito il sacro stupore, in ridenti occhi bambini (l’innocenza è la forma più alta di saggezza) capaci ancora di meraviglia, non incrostati dal velo dell’abitudine Questo articolo non sarà dunque una recensione, ma la testimonianza di un’illuminante sincronicità.
Non c’è nulla di più nobile che l’accordo di due visioni contrapposte su un principio
universale.
Non c’è nulla di più rivelatore che l’incontro di due forme mentis affini applicate a
temi opposti, il riconoscimento di una verità raggiunta da percorsi apparentemente
paralleli e inconciliabili.
Per questo ci commuove l’episodio di Achille e Priamo: il superamento del muro
del proprio ego, inchinato di fronte ad una verità più grande. Una manifestazione
esemplare di una legge inconscia, una pausa nel massacro senza posa, un’epifania di
bellezza nella monotonia del male.
Una luce archetipica che si rinnova ritualmente, nella stretta di mano tra capitani
rivali prima di una partita, o negli omaggi reciproci tra capi di stato in conflitto.
Anche se l’abitudine svuota il rito di significato, la luce simbolica continua a
risplendere. Come dice Dylan in modalità Blake: “The fire's gone out but the light is
never dying” (“Ain’t talkin’”).
Conosco Massimo Palma da anni, pur non frequentandolo, e lo avevo sempre stimato
come brillante mente filosofica (potete verificare QUI), ma soprattutto come persona
dalla rara gentilezza d’animo (cosa per me ben più importante).
Quando ho saputo che aveva scritto un libro su Berlino, il mio cuore è stato teatro
d’un boato d’esultanza paragonabile solo a quella d’una curva sotto alla quale è stato
appena segnato un goal al 95° contro i rivali di sempre (ogni riferimento a persone e fatti è puramente voluto). Erano due giorni che senza alcun motivo ammorbavo
il prossimo, amici, parenti, anche passanti sull’autobus e vigili nei gabbiotti, con
un interrogativo che mi lasciava senza requie: “Bowie e Iggy Pop sono risorti a Berlino... il disco più bello degli U2 è stato inciso a Berlino...per non parlare di tutta
la Storia pregressa, le grandi anime, i filosofi, i poeti… Ma possibile che nessuno
ha scritto una guida, un libro su Berlino come città culturale, sullo spirito della città,
sull'atmosfera che ha ispirato capolavori in tutte le arti?!!!"
Una telefonata di un amico, una notizia en passant, un incontro casuale.
Chiariamo subito, chè il mondo è pieno di stolti e maliziosi: non scrivo che Massimo
è una mente elevata e un ottimo scrittore perché è mio amico. E’ il contrario: siccome
è una mente elevata e ha scritto un libro eccellente, io mi onoro di essere suo amico.
Anche perché…ma vogliamo parlare dei titoli che escono ora in libreria?
Negli ultimi 15 anni, di fronte allo spettacolo dei libri di Susanna Tamaro messi negli
scaffali di spiritualità, accanto a Simone Weil e Teresa d’Avila, mi sono ritrovato
più volte a sussurrare agonizzando come Mistah Kurtz: “l’orrore…l’orrore”.
E, per rimanere in tema, ogni volta che entro in una libreria e trovo all’entrata pile e pile
di libri di Fabio Volo, il Gran Nemico, con allucinato distacco chiudo gli occhi e
sogno l’odore del napalm di prima mattina (ben venga, se fosse l’odore della vittoria
dell’intelligenza sulla mediocrità).
Ma quando s’incontra un libro come “Berlino Zoo Station” ben altri automatismi
s’impongono: ci si leva il cappello come forma di rispetto, e poi lo si lancia in aria in
segno di tripudio.
Ora se, come diceva il già citato Chesterton, “la dignità dell'artista sta nel suo
dovere di tener vivo il senso di meraviglia nel mondo”, Massimo è uno scrittore
dignitosissimo.
Non è facile riconoscere il valore di un autore quando affronta temi che non
conosciamo, o che non ci hanno mai profondamente interessato. E’ difficile
apprezzarlo quando ci parla, con competenza ed entusiasmo, di cose che abbiamo
sempre osteggiato con ardore. Ma il cimento più arduo è accettare che qualcun altro
possa dire cose definitive su argomenti che si credeva di conoscere benissimo, e sui
quali ci si illudeva d’avere un punto di vista originalissimo e inedito; e più che mai
(con onesta ammirazione, tempra dei nobili, e mai con invidia, brodo esistenziale
dei mediocri) vedere come un altro possa esaurire brillantemente l’argomento , anzi,
aggiungendo pure ulteriori collegamenti ai quali non avevamo pensato.
(ad esempio sulla trilogia berlinese di Bowie qui magnificamente ritratta daTuono Pettinato per il nostro blog)
Il libro di Massimo, avrete intuito, vince con nonchalance tutte e tre le sfide.
Coerente con quanto affermato, mi sono comprato apposta un cappello per levarmelo
di fronte a lui qualora dovessi incontrarlo (di quelli che costano poco ovviamente,
ma comunque di valore simbolico inalterato). Confesso senza imbarazzo che il mio
sogno un giorno è arrivare a scrivere un libro di questo livello sulle cose che amo e
studio alla follia (editori in ascolto mi propongo: Dylan e la Kabbalah? Carmelo Bene
e la mistica orientale? Bowie e David Lynch? Tarkovskij e l’iconostasi? Cèline e Di Canio? Favorite, il menu è ampio!).
Ma, insomma, di cosa parla questo libro? “Berlino Zoo Station” è la più bella guida pensabile su una delle città più affascinanti
e ricche di cultura d’Europa. La metafora dello zoo è la grande linea guida, che lega
secoli di storia e una selva di personalità leggendarie e contrastanti , in una narrazione
frastagliatissima eppure coerente. Massimo è b r a v i s s i m o nel disegnare la mappa delle interconnessioni culturali,
esplorata nel dettaglio dei più riposti anfratti semantici, nella brulicante realtà
dei vicoli più oscuri, scoprendo sorprendenti possibilità di dialogo, vertiginosi
accostamenti, stimoli continui all’approfondimento.
Il libro a livello di piacere intellettuale è l’equivalente del sogno proibito di un
adolescente, come perfettamente esplicitato dalla vignetta di Maicol qui riprodotta
ma è anche una sorgente di emozioni purissime. La mediazione dialettica è la
versione mentale, rovesciata, dell’armonia taoista. Un punto cruciale: ci torneremo tra
poco, armati fino ai denti.
Come un cicerone angelico, Massimo ci mostra dall’alto il grande disegno d’insieme
(dominando la storia e la topografia berlinese come gli angeli rilkiani di Wenders
fanno contemplare la città dall’alto in una celebre scena), per poi calarci nella più
cupa delle catabasi, aggrappati alle ali della sua conoscenza, nell’inferno animale dei
tossici, e nel cieco odio delle camicie brune, per poi riportarci sani e salvi sulle vette
del pensiero, avendo attraversato la commedia divina e diabolica degli infiniti volti
della città.
Affrontiamo ora i due grandi protagonisti, gli eroi morali, i punti cardinali, gli Alfa
e Omega del testo: un celeberrimo gruppo rock irlandese, un celeberrimo filosofo
tedesco.
Ora, francamente non posso definirmi un fan degli U2.
Ho amato (ero praticamente bambino) l’ingenuità guascona di Bono che sventolava
la bandiera bianca e si arrampicava sulle transenne, nel surreale incanto della cornice di Red Rocks, in “Under a red blood sky” .
Ai tempi di “The Joshua Tree” (facevo ancora le elementari, anche se per poco)
mi rispecchiavo anima e cuore nei loro ideali impastati di cristianesimo popolare e
genuina rabbia sociale, cosi generici da diventare, tramite la semplificazione pop,
manifesti universali. Ho mandato a memoria in pochi giorni “Achtung Baby” (di
cui il libro in oggetto è il più grande monumento pensabile), e già stavo alle medie.
(“Acrobat” rimane ancora un inno disperato, l’urlo disilluso di chi non spera più di
trovare ciò che ancora non ha trovato). Soprattutto, grazie a loro, attraverso i loro
riferimenti onestamente dichiarati, ho avuto accesso al Sancta Sanctorum: Dylan, Bowie, I Beatles del “White Album”. E come in un antico apologo buddista, la barca
che ci fa attraversare il fiume per giungere all’ambita sponda, poi non ce la portiamo
appresso nel cammino. Dal confronto con i giganti del rock, pur mantenendo grande
affetto, immediati mi sono apparsi i loro evidentissimi difetti: la faciloneria di alcune
dichiarazioni, la boria di alcune pose (in seguito stemperate da una calcolata auto-
ironia), una gigioneria spesso fuori controllo.
Artisticamente tutto ciò è riassunto dai sospiri da attempato pornodivo in difficoltà
con cui Bono, soprattutto dal vivo, deturpa dei versi bellissimi, piegando la sua voce
potente a dei vezzi da pop idol (alcuni falsetti sono da fucilazione sommaria). Per
carità, lo ringrazierò per sempre per aver scritto l’inno internazionale dei ricercatori
(“I Still Haven’t Found What i’m Looking For”).
A malincuore, devo ammettere che dobbiamo a lui la resurrezione dell’Eroe: la pubblicazione di “Oh, Mercy”. Fu Bono a recarsi in omaggio al Dylan in crisi di fine anni’80 e a fargli tirare fuori, grazie alla devozione del fan e ad alcune casse di birra, gli appunti che il Maestro depresso
aveva abbandonato nei cassetti.
Tenendo conto di questo, dei suoi indubbi meriti pregressi, nella mia mente ho
commutato la certa pena di morte in 77 nerbate sulle terga, ma date con convinzione,
per l’incomprensibile deflorazione animalesca di “I’ve got you under my skin”.
Credo Sinatra sia morto alcuni anni dopo per il dolore e la vergogna.
Accostandoli ai maestri eterni, gli U2 comunque non sfigurano del tutto (non
come ad esempio quei patetici pagliacci degli Oasis). Hanno saputo distillare il
dettato dylaniano, negli appassionati paradossi, nei giochi di parole continui, nelle
antifrasi continue e ricercate (da “Where the streets have no name” a i brani più
alti di “Achtung Baby”, fino alla confezione manierista del brano pop perfetto in "Stay").
Se, come disse Ginsberg, Dylan ha portato la poesia
nei jukebox, gli U2 l’ hanno portato negli stadi. Hanno rei-incarnato in maniera
magniloquente il cortocircuito bowieano della rockstar suicida, dell’idolo da bruciare,
nella grandiosa cattedrale postmoderna del tour “Zooropa”, dal cui pulpito infernale
scaturiva il bombardamento di significanti, ossessivi, contraddittori, ripetuti fino allo
svuotamento d’ogni significato possibile. Una sceneggiatura furba ma molto efficace,
la messinscena diabolica dello smarrimento di senso collettivo.
Ma se per i loro fan il gruppo rappresenta certamente, l’update definitivo, la sintesi
suprema dei grandi del rock, confluiti in un linguaggio semplice ed universale, per
me il loro rock-pop, potente, gradevole è una diluizione popolare, un abbassamento
di livello (pur con dei picchi di grande valore) rispetto alle sperimentazioni
rivoluzionarie di 30 anni prima.
Eh, lo so, sono un irritante misoneista, un incontentabile sapientone. Ma ho ragione.
Detto ciò, non credo abbia senso ora discettare ulteriormente su un band che da
più di 25 anni è considerata “la più grande rock ‘n roll band del mondo”. Vi rinvio
alle riflessioni di Massimo, che sul gruppo irlandese è una riconosciuta e meritata
autorità. L’esegesi dei testi di “Achtung Baby” tocca profondità che gli U2, credo,
si sarebbero sognati d’aver ispirato. Bono Vox dovrebbe tenere questo libro sul
comodino, e mandare cesti stracolmi di leccornie e prelibatezze a Natale e a Pasqua a
casa dell’autore.
Ma ben altra pirotecnica prolusione ora v’attende. Vi consiglio di andare a prendere
un bicchiere d’acqua.
Come dice Mangoniin un indimenticato classico (3.11-3.14):
FINE DELLA PRIMA PARTE, INIZIO DELLA SECONDA PARTE.
Accanto agli U2 il vero, grande protagonista, l’ispiratore, l’eroe del libro è un idolo
pop che non vi aspettate: Georg Wilhelm Friedrich Heg…scusate, devo ricompormi.
Non credevo di dover mai scrivere questo nome sul mio blog. Vabbè, avete capito
si, quello di tesi-antitesi e sintesi, dello Spirito Assoluto, il summus philosophus
dell’Accademia Danese…
Diciamo che non è esattamente il mio filosofo prediletto.
(Chi volesse approfondire il mio punto di vista può estasiarsi qui 35.53)
Provo a sviluppare il concetto.
Potrei dire che l’affermazione “La filosofia è necessariamente sistema.” ha sempre
destato in me la medesima reazione che un altro celebre tedesco aveva alla parola
“cultura”: portare istintivamente la mano alla pistola. Ma è un esempio spesso usato,
non rende giustizia alla peculiare intensità del mio sentimento.
Ecco, potrei dire che una delle poche volte che sono in disaccordo col mio amato Schopenhauer è stato quando definisce Hegel “assassino della Verità”.
(in queste note a margine invece lo ritrae come un asino)
Stavolta, diletto Arturo, oppongo un vibrante dissenso: una definizione troppo generosa
per il filosofo tedesco (per uccidere qualcosa bisogna saperla identificare, quindi
conoscerla), e ingenerosa per la vasta e variegata categoria degli assassini (che tra le
loro fila possono vantare eterni simboli di coraggio e giustizia, da Arjuna, passando
per Giuditta, fino a Ken Shiro).
Ma sento di non aver esplicitato ancora bene il mio punto di vista.
Diciamo che avrei volentieri festeggiato il mio diciottesimo compleanno, come
credo molti di voi, nelle seguenti comunissime modalità: di fronte alla Porta di Branderburgo, in guisa di Eliogabalo, al cospetto di una folla oceanica di anti-
storicisti, protetto come Luke Skywalker alla fine di Episode VI, dai Lari benevoli
di Schopenhauer,Kierkegaard e Nietzsche, offrendo alla furia purificatrice del dio Fuoco le pagine della “Fenomenologia dello Spirito”. Ca va sans dir, il tutto
circondato da Baccanti discinte che in preda ad un furore estatico avessero urlato “ciò
che è reale NON è razionale”.
Si, mi rendo conto, è un’idea banale, tutti ci abbiamo pensato almeno una volta.
Per carità, poi, si sa, Hegel è un gigante della filosofia, un mastodonte del pensiero,
colui che dopo Platone e accanto a Kant ha elevato la riflessione ad altezze…ma
basta col politicamente corretto, lo odio!!!!
Eppure, vi giuro con la mano, non dico sulla “Bhagavad Gita” (mai giurare su ciò
che è veramente sacro), ma su ciò che più mi è umanamente caro (il vinile di “Freak Out!” o la maglia di Mihajlovic del 2000, scegliete voi)….ho provato seriamente un
paio d’anni fa a leggerlo.
Mi sono detto: “Adriano, non essere sciocco, non fare il bambino, hai letto milioni di
libri, non puoi non leggere un filosofo così importante…se tante persone intelligenti
lo amano avrà una sua grandezza, no?!”
E vi prometto in ginocchio, o Corte Suprema dei miei lettori, un paio d’anni fa mi ci
sono messo, onestamente, ho voluto fare tabula rasa dei miei pregiudizi, ho svuotato
la coppa del mio ego…e con animo sereno e mente aperte ho dischiuso le pagine
sulla dialettica servo-padrone.
Un grande classico del pensiero, una delle vette della filosofia moderna. Certo.
Una volta raggiunto il quarto paragrafo… non ricordo più nulla…solo di essermi
svegliato, dopo, altrove, su un lettino, con un forte senso di oppressione, le braccia
forzatamente incrociate, e di aver distinto tra la nebbia dei narcolettici solo un foglio
con alcuni numeri: il conto dei danni per la biblioteca messa a fuoco.
Eppure, eppure, eppure, cari fratelli della Loggia“Estrema Irratio”, tale è la passione,
l’intelligenza, la profondità con cui Massimo ci parla di Hegel che me lo ha fatto
diventare perfino simpa…vabbè, non esageriamo…interessante!
E’ un esercizio di straordinaria apertura mentale (più che mai pertinente considerando
il titolo di questo blog) vedere colui che abbiamo sempre visto come l’incarnazione
del tronfio atteggiamento occidentale di forzatura razionale del reale, come
l’emblema della sapienza accademica sterile , della nozione mentale contrapposta
alla vera sapienza, dell’inganno menzognero della nostra mente eretto a sistema
opprimente…ebbene, lo dico: vederlo sotto tutta altra luce. Hegel nelle pagine di Massimo, non solo è una rockstar (e fin qui, visto il successo
ottenuto in vita che faceva imbestialire Schopenhauer, ci poteva stare…come lo
stesso autore ricorda Bowie disse la stessa cosa, e per molti versi purtroppo a ragione,
di Hitler!), ma è proprio l’opposto di come lo abbiamo sempre percepito: uno
studente goliarda e disperato, un filosofo anticonvenzionale, stufo dei triti luoghi
comuni, mosso dal desiderio di rendere la filosofia qualcosa di reale, vivo, concreto,
posseduto e ossessionato dal purissimo desiderio di trovare la verità e diffonderla, di
liberare l’umanità dall’inganno e dall’ignoranza.
Un animo equilibrato tra l’intuizione poetica del suo amico Holderlin (che per noi
nell’ approdo pre-nietzscheano alla follìa si avvicinò molto di più dell’amico filosofo
al vero; diremmo di lui come egli stesso scrisse in uno dei suoi ultimi appunti di Edipo, “accecato, ha forse un occhio in più”, aperto alla visione interiore) e gli slanci
trascendentali dell’altro amico Schelling (che, stiamo schematizzando, non poteva
accettare la sua pretesa di spiegare e razionalizzare tutto).
Una mente aperta e vivacissima, dal respiro geniale, in grado di capovolgere l’onda
del conformismo culturale con la forza della sua indipendenza intellettuale.
Uno di noi, insomma. Un ricercatore che ce l’ha fatta. Un’intelligenza straordinaria
che ha speso la sua intera esistenza per dare senso alla vita di tutti. Più alto di Kant,
più risolutore di Marx, più felice di Nietzsche, più definitivo di Spinoza.
Nel libro Massimo ripete, più che come un mantra come un leit-motiv (è proprio lui
a dire che il filosofo puntava a realizzare “l’opera d’arte totale” della filosofia), che Hegel aveva capito tutto. Da sempre io dico che è vero, con una piccola correzione:
ha capito tutto (le sue intuizioni sul ritmo ternario dell’esistenza e sul manifestarsi
progressivo dello Spirito sono luminosamente vicine alle verità della rivelazione
mistica orientale), ma al contrario (pretendo di aggredire il reale attraverso i limiti
della razionalità, di trovare la sintesi nella dialettica, e non cercando il ritorno
all’Uno attraverso la via interiore, dantesca, gnostica dei mistici e degli artisti)!
Per me l’idealismo hegeliano è un Advaita Vedanta scomposto e ricomposto
artificiosamente, una risalita al di fuori dell’inferno del dubbio, in cui però il
filosofi che escono “a riveder le stelle” non si rendono conto che stanno ammirando
un fondale di cartapesta. Parafrasando il sublime Rumi, noi non siamo gocce
nell’oceano, ma “l’oceano in una goccia”. Il dissolvimento nell’unità primordiale
avviene al superamento di ogni dialettica, nell’estinzione dell’illusorietà, dunque
anche dell’attività mentale, nel superamento del superamento stesso della
sintesi….vabbè, Massimo poi ne parliamo davanti a un caffè…
Comunque, sei riuscito a farmi parlare di Hegel senza conati e tafferugli, manda il
curriculum all’Onu: puoi risolvere il conflitto in Palestina.
Ma nel libro, non si parla solo degli U2 e di Hegel. Massimo riesce a parlare, in maniera puntuale, esauriente ed originale, di tutte le
figure che hanno attraversato Berlino negli ultimi due secoli.
Aspettate. Rileggete questa frase che ho scritto. Pensateci un attimo. Realizzate
quanto è difficile.
Ora possiamo andare avanti.
Potrei scrivere un altro libro come guida-commento al testo (come per l'"Ulisse" di Joyce) per la mole di spunti, stimoli e collegamenti che m’ispira. Ogni riga è un
precipitato di riflessione, che s’intuisce su certi temi almeno ventennale, impreziosita
da un accostamento inedito, da un gioco di parole rivelatore, da uno squarcio di
pensiero illuminante. Non c’è una considerazione superflua, non c’è un’apparizione
che non ritorni, in un intreccio complesso e raffinato come quello di una cravatta da
dandy, nel compimento del suo ruolo all’interno della babelica mappa berlinese.
La qualità forse più notevole del libro è che in questo immenso gioco di
riferimenti, citazioni, salti continui di tempo e di spazio, di tono e argomento, tutto,
narrativamente si tiene. Come complessità e felicità di riuscita stiamo ai livelli della
sceneggiatura di “Lost”, almeno fino alla quinta serie (poi un giorno scatenerò il
putiferio parlando del finale, che a me tutto sommato è piaciuto, massa di miscredenti
che non siete altro!). Come uno sfrontatissimo acrobata Massimo cento volte rischia
l’accostamento eccessivo, la battuta fuori luogo, il paragone sacrilego, ma con
l’eleganza di Nureyev sfugge, con precisi riferimenti e ferree argomentazioni, ai
tentacoli voraci e ovunque presenti del banale.
Non resisto, devo fare una rapida carrellata delle personalità principali(a parte
quelle già lungamente introdotte) che vengono presentate nel libro, tanto per darvi
una vaga idea della ricchezza del testo (prendetelo come il trailer sbrigativo di un
film da vedere e rivedere): stupenda è l’apparizione di Rilke, i cui angeli tremendi
sono l’altissimo modello letterario di quelli divenuti ormai icona cinematografica
grazie a Wim Wenders; Lou Reed e i Velvet Underground sono comparse oscure e sfuggenti,
ma rese in una luce indimenticabile, proprio come lo sono stati nella storia del
Rock; definitive per me le pagine sul rapporto tra Bowie e Berlino, un argomento
per me così interessante da tornarci nella breve vita di questo blog già tre volte;
profondissime e di dolente sapienza sono le riflessioni su Christiane F., la cui
vicenda è giustamente studiata ed approfondita nel suo violento impatto di simbolo
generazionale, con grande sensibilità umana; Walter Benjamin (su cui Massimo ha
scritto cose pregevoli, ad esempio QUI) ha il posto che gli spetta, tra le grandissime, profetiche
intelligenze del secolo scorso; Christopher Isherwood vede finalmente riconosciuto il
valore più profondo del suo “Cabaret”, e il suo ruolo di svolta cruciale nella carriera
del Duca Bianco; Carl Schmitt si guadagna la fama di “uomo più cattivo del mondo”;
vengono svelati i trucchi, vecchissimi, delle tesi-shock di Fukuyama sulla fine della
Storia; si omaggia in tempi non sospetti l’inquieto fantasma di Delmore Schwartz;
persino Patti Smith è omaggiata di un meritato cameo nel finale, dominato però
da un crescendo commovente che non vi svelo….in tutto questo si esplorano non
solo metodicamente tutti i quartieri e le strade principali di Berlino (che Massimo
credo conosca molto meglio di quanto, che ne so, un nome a caso? Alemanno, per
esempio, conosca Roma), ma anche gli impulsi sotterranei che hanno mosso con
violenza e fragore la storia europea degli ultimi duecento anni.
Una parola sullo stile: chi mi legge sa bene, con dolorosa pazienza, quanto il
sottoscritto ami i voli pindarici, l’ellissi barocche, i collegamenti volanti, gli ossimori
improvvisi.
E’ molto interessante notare come Massimo non giochi con gli sbalzi di tono, non
contrapponga sacro e profano, ma al contrario li assuma subito come pari, li assorba
in uno stile equilibrato, in cui la contrapposizione è già mediata, dialetticamente
sciolta, hegelianamente risolta.
Il rigore accademico con cui si accosta alle pagine più complesse dell’idealismo
tedesco è il medesimo con cui decripta le influenze dei Joy Division sui gruppi
successivi, mescolandole con spregiudicata disinvoltura, ed eguale serietà. Passaggi
come “la variante hegeliana di Achtung Baby, la Fenomenologia dello spirito”
sono da T.S.O., ma solo per organizzare una festa a sorpresa con bacio accademico
sull’ambulanza.
E quindi, come ultimo, supremo omaggio non posso che proclamare il mio
“sì”dionisiaco, e nell’accettazione totale accettare anche l’Aufhebung (concetto
hegeliano traducibile con “sublimazione”, superamento della contraddizione, una
tensione dialettica, ad esempio riscontabile nel rapporto servo-padrone, in cui
si “superano conservando” i due termini della contrapposizione nel divenire del
progresso dialettico). E, quindi, spezzando le manette anche della mia di mente, tale
è la mia ammirazione per questo testo che arrivo a l’impensabile. Chioserò il mio
omaggio dedicando a Massimo le parole, perfette in questo caso, del mio antico
nemico Hegel: ”Il sì della conciliazione, in cui i due Io dismettono la loro
opposta esistenza, è l’esistenza dell’Io esteso fino al due, l’Io che resta qui uguale a
sé e che nella sua completa alienazione e nel suo contrario ha la certezza di se stesso;
– è il dio che appare in mezzo a loro”.
Per dirla con un verso di un autore a me molto più caro (i poeti, si sa, intuiscono e
sintetizzano ciò che i filosofi rendono complicato): “we always did feel the same/ we
just saw it from a different point of view” (Bob Dylan, “Tangled up in blue”).
La più lieta agnizione avviene però alla chiusura del volume.
L’intuizione sopravviene come una battuta geniale capita in ritardo, e ancora più
deflagrante nella sua detonazione comica.
In realtà, il complesso intarsio di connessioni interculturali, la grandiosa visione
d’insieme che l’autore ha disegnato come un raffinato esercizio enigmistico, era già
li, presente, viva, offerta a tutti nel suo miracoloso splendore. Un mosaico già pronto.
Bastava solo osservare. Massimo ne ha solo scoperto l’evidenza, e sollevato il velo con la curiosa semplicità
di un bambino che gioca, ricalcando i contorni della mappa, e consegnandocela come
un dono, fatto in primo luogo a se stesso, un premio meritatissimo alla fine di una
ricerca entusiasmante.
Ma questo prodigio, lo splendore intimo dell’esistenza, solo si rivela a chi ha custodito il sacro stupore, in ridenti occhi bambini (l’innocenza è la forma più alta di saggezza) capaci ancora di meraviglia, non incrostati dal velo dell’abitudine.
Uno dei rischi, quando si apre un blog, è quello di riempirlo di tutte le cose che ci piacciono e che sentiamo di conoscere abbastanza da poter dire qualcosa di sensato a riguardo. Questo, naturalmente, porta in dote entusiasmo, passione e magari una discreta competenza, rendendo le nostre considerazioni interessanti o quantomeno non del tutto irritanti a chi condivide i nostri stessi interessi. Ma, a lungo andare, ciò che inizialmente appare come una ricchezza peculiare potrebbe tramutarsi in un limite soffocante. Per cui ho deciso di vivacizzare un pò i contenuti di questo mio diario virtuale, andando ad esplorare qualcosa che conosco pochissimo (in questo caso, una forma di teatro-danza popolare sudamericana) unita a qualcos'altro che non mi seduce per nulla (l'arte contemporanea).
L'occasione me
l'ha data Laura Cionci, artista
davvero poliedrica, reduce da una lunga e felice permanenza artistica in
Argentina ed Uruguay, ma in primo luogo romana fino al midollo: un'esplosione
mercuriale di idee, progetti, intuizioni.
Un ponte
vivente tra culture apparentemente distanti.
Laura è tra le
massime esperte e praticanti in Italia di Murga,
una sorta di coloratissimo e vivace teatro di strada, dalle origini spagnole e
dall'ispirazione potentemente satirica.
La mia prima,
pregiudiziale reazione di fronte a simili manifestazioni artistiche è molto
simile a quella dei vecchietti milanesi del video di "Parco Sempione" di Elio e le storie tese (per chi non avesse avuto il piacere li
trova QUI a 2.26). Ma visto che questo blog invita a spezzare i
limiti imposti della nostra mente, sarebbe ben sciocco e ipocrita esercizio da
parte dell'autore assecondare i propri pregiudizi.
E cosi ho
scoperto un mondo non solo traboccante di ritmo, cromatismi e brillanti arguzie, ma
anche di illuminanti riferimenti culturali.
Infatti, le
origini della Murga sono
particolarmente interessanti e sorprendentemente italiane, specificamente
romane. Le radici, come vedremo, affondano nel significato più profondo del Carnevale, che altro non è che la versione
cattolica (ormai depauperata di qualsiasi valore simbolico) delle antiche Dionisie: momento di capovolgimento delle
gerarchie sociali, propizio iniziaticamente al ritorno dell'armonia.
Se gli
intellettuali dovessero storcere il naso di fronte a certe manifestazioni di
creatività popolare, gli ricorderei come il momento di svolta della visione
filosofica di Antonin Artaud
avvenne nel 1931, quand'egli potette assistere ad un'esibizione di teatro balinese, nel quale trovò
l'applicazione primordiale delle sue intuizioni sul teatro, " il senso
di un nuovo linguaggio fisico basato su segni e non più su parole".
Facciamoci
dunque guidare da Laura Cionci
(trovate le
sue opere QUI) alla scoperta di
questa forma d'arte, da noi ancora poco conosciuta:
CONTE ZARGANENKO - Assistendo ad ad una performance di Murga il primo impatto è quello di essere
investiti da tantissima energia, storditi da una confusione gioiosa. Ma in
realtà dietro questo caos funambolico, apparentemente improvvisato, c’è una
grande disciplina.
LAURA CIONCI - C’è un complesso
intreccio di storia e cultura. Un aspetto interessante è che la Murga qui non è molto conosciuta, perché
parte di una cultura sudamericana, però ha radici anche mediterraneee,
italiane, in particolare romane.
CZ -Chiariamo dunque: il concetto
di Murga non è limitato solo alla
danza, ma è una una sorta di filosofia della vita o visione del mondo.
LC - Esatto. E’ quello, è l’essenza
della Murga ciò che mi interessa,
al di là delle nozioni che uno può acquisire, ciò che mi interessa al di là
dell’iter storico-cronologico, come è nata, come si è sviluppata, le varie
influenze...
CZ- D'accordo, però
ricostruiamo una traccia storica...
LC - La Murga si sviluppa in
vari paesi. La più celebre è quella uruguayana.
Si è sviluppata anche in Argentina, ma sono stati due
modi diversi di svilupparsi. E la Murga,
in realtà nasce in Spagna...
CZ - Letteralmente cosa vuol dire Murga?
LC - Nel dizionario Murga indica
un gruppo di gente che si unisce per fare confusione: il caos! E' presente infatti anche nel vernacolo come
espressione popolare (Murgòn= casino, "Que murgòn estàs haciendo?!").
Le origini sono indefinite. Storicamente possiamo riassumere cosi: dalla Spagna
arriva in Uruguay un gruppo di teatranti di strada che non potendo tornare in
Spagna, perché non avevano soldi, creano questa forma di espressione. Le radici
sono ricchissime e intrecciate da varie influenze. Gli stessi strumenti vengono
da regioni diverse del Mediterraneo, ad il piattino del bombo (uno strumento
che è solo della Murga porteña,
quella di Buenos Aires) si dice che provenga dalla Turchia. L'impronta spagnola
si è stabilizzata nella Murga
uruguayana: una banda che canta, con dei musicisti fissi. Lo scopo è diretto:
comunicare attraverso il canto informazioni importantissime a livello sociale,
politico e culturale.
CZ - Quindi tematiche vive ardenti,
puntuali..
LC - Legate alle difficoltà quotidiane delle persone senza casa o senza
lavoro...quelle che, per farlo intendere qui in Europa, si cercano di riunire
nei centri sociali. Ma in Sudamerica è fondamentale l'unione tra le persone dal
vivo, per strada...
LC - Esattamente. A prescindere
dal messaggio che si vuole comunicare, il mio desiderio è informare che esiste
una nuovo modo di comunicazione, che si intreccia alle altre culture.
Fondamentalmente
è lo spirito originario del Carnevale, ma qui se uno dice Carnevale pensa a
Venezia, alle maschere,
CZ - ...A Rondò Veneziano...o ai tanga ipnotici di Rio de Janeiro...
LC- Liberandoci però dagli stereotipi è questo il senso originario...
CZ -... un momento di rovesciamento delle convenzione.,
LC - Esatto, l’elemento popolare che ha la meglio sul Potere.
CZ- Prima hai accennato che la Murga è un mezzo di comunicazione artistica
per esprimere problematiche sociali. In quale modo esattamente, attraverso i
testi dei canti si quali si danza, o attraverso i significati del gesto?
LC - Entrambi gli aspetti. Per
chiarire possiamo dividere schematicamente in due forme principali di Murga: la Murga
uruguayana e la Murga porteña.
Hanno molte cose in comune, ma storicamente sono ben distinte.
La Murga uruguayana
ha una struttura complessa: 15 persone che cantano, divise per sezioni, con un
direttore del coro, 3 musicisti, elaborati arrangiamenti musicali. Tecnicamente
ecco come si struttura: prendono una canzone molto conosciuta, per cui il pubblico
già conosce la melodia, e ne riscrivono il testo con un forte connotato
satirico. Si tratta sempre di qualcosa contro il Potere, un commento satirico
dell’attualità, di ciò che è accaduto anche a livello internazionale.
In Argentina, la derivazione uruguagia ha cambiato
forma, mescolandosi al carnevale italiano. Addirittura il musicologo Coco Romero, uno dei più grandi studiosi di
Murga, ha ritrovato radici in
alcuni elementi del carnevale romano (ad esempio come vedremo, l'utilizzo della parola "Corso", ma date le origini degli argentini sono molte le influenze italiane).
CZ - Come le contrade del Palio di Siena…
LC - In un certo senso...Ogni
quartiere invita i quartieri amici nel loro quartiere a fare il
carnevale…dunque in 500 metri c’è una sfilata di una Murga diversa, per tutta la notte…Questa tipologia di festa è
chiamata Corso è deriva proprio da
Via del Corso a Roma, dove facevano la sfilata di carnevale…
CZ - Che poi il nome nasce perché
in quell’occasione lì si tenevano le corse dei cavalli…
LC - Da lì prendono il corso le le
murghe che sfilano in ogni settore (quartiere) specifico. E qui si instaurano
gli scambi dialettici ispirati alle rivalità fra murghe scambi dialettici,
CZ- ...divertente questa
dimensione, una mentalità da "Guerrieri
della Notte" in versione artistica. Quanto è importante lo
scambio dialettico, lo sberleffo?
LC -...se non ci fosse questo aspetto non ci sarebbero le murghe.
CZ- In Italia come viene vissuto lo
spirito della Murga?
LC - In italia ha uno stampo
sociale politico connotato. Le Murghe appoggiano manifestazioni, nascono spesso
in centri sociali. La seconda Murga, la Malamurga (che quest'anno compie 10 anni),
è nata durante il periodo della guerra in Iraq, dall'esigenza di manifestare in modo
diverso, superando i vecchi schemi che non davano alcun risultato. Io sono nata nella Malamurga, e poi 4 anni fa ho fondato con alcuni murgheri della murga "Los Adquines de Spartaco", Murga del Quadraro, quartiere della Resistenza.
CZ- Quanto è diffusa la Murga nei paesi che hai visitato?
LC - Già nel 2004 a Buenos Aires, c'era
più di una Murga per ogni quartiere. Ogni quartiere
dovrebbe avere un movimento del genere, poichè ogni quartiere ha la sua storia,
la sua identità. Ogni quartiere ha una sua Murga storica che raccoglie le persone del quartiere: anche le
mamme bambini, i nonni, tutti fanno qualcosa, hanno un ruolo, seppur
minimo...cento, duecento persone che si riuniscono...
CZ - Una sorta di antenato nobile
del flash-mob...
LC - Molto interessante come
definizione..in Argentina c'è un forte riconoscimento culturale, il governo
finanzia concorsi, ma c'è sempre in agguato una volgarizzazione folcloristica
che svuota il tutto di significato.
CZ- Se nella Murga uruguayana il messaggio è affidato al
canto, attraverso le parodie satiriche di canzoni popolari, in quella porteña
come si esprime il messaggio?
LC - Innanzitutto, anche nella
Murga porteña sono presenti canzone di protesta. Ma poi lo spettacolo è
introdotto da una "glosa", una introduzione che spiega i contenuti e
i contenuti della Murga...
CZ - Una sorta di prologo da fool
shakesperiano...le coreografie come vengono elaborate, ci sono delle forme
stabili classiche, o vengono elaborate volta per volta?
LC - Non parlerei di coreografie.
C'è una base di movimenti standard, ma fondamentalmente si tratta di un ballo
di strada. Ha origine da danze africane, ma all'interno si ritrovano numerose
forme di ballo sudamericane: dalla salsa alla cumbìa acrobatica, passando per
il tango. Su questa già fertile base, volta per volta ballerini e musicisti
importanti hanno lasciato il segno della loro personalità, contribuendo a
plasmare la Murga come la conosciamo oggi. CZ- Quando è esploso il fenomeno
della Murga in Sudamerica?
LC - In Argentina negli ultimi 10/15 anni. Negli anni della dittatura è stata quasi completamente repressa. In Uruguay, la tradizione è più antica e definita. Si è creata
proprio una dimensione accademica. Anche perchè, non è molto rinomato, ma in
Uruguay c'è il carnevale più lungo del mondo. In quei giorni è l'attrazione
principale: ci sono concorsi, selezioni, preselezioni. Ci sono canali
televisivi con la moviola di ogni spettacolo, come da noi per i Mondiali di
calcio. Dovunque, per la città ci sono i "tablados", teatri dove si
può assistere spettacoli "in progress". Al Teatro del Verano c'è l'apoteosi della Murga. Dal teatro
partono vere e proprie parate, con un tempo specifico 45 minuti, che culminano
nell'abolizione della distanza tra palco e platea: gli artisti scendono dal
palco e camminano cantando fin dentro gli spalti. La Murga
uruguayana non balla, è un vero spettacolo, una sorta di musical, con veri e
propri sketch al suo interno. Il ruolo fondamentale lo ha il canto, ma la
struttura è molto complessa: rapidi cambi di vestiti e trucco, un'altissima
professionalità viene messa in campo. C'è una giuria per le voci, una per il
trucco, una per i costumi...
CZ - Come ai Grammy Awards...invece
nella Murga porteña come si giunge
a creare una nuova, per intenderci, coreografia?
LC- C'è una struttura di passi-base
e di momenti-base, su cui poi ogni Murga
innesta il proprio stile. Ad esempio cruciale è il momento della
"matanza": i ballerini si pongono in cerchio e, se c'è connessione,
inizia un'improvvisazione basata sulla semplice intesa di sguardi.
CZ - Puoi parlarci brevemente delle
tre fasi della "matanza"?
LC- Ci sono fondamentalmente tre
tempi: la rumba, i tre salti e la linea.
La rumba rappresenta lo schiavo in catene, è un ballo
stretto, chiuso, per l'appunto "legato". i "tre salti"
rappresentano la liberazione dalle catene, e la linea è il ballo della
liberazione.
CZ - Beh, è palesemente un simbolo
iniziatico.
LC - Si, il significato della
"matanza" sta nella figura della vittima sacrificale che viene posta
al centro e poi risorge, come ha sottolineato Coco
Romero. Il ballo della liberazione è il momento in cui il ballerino
esprime tutte le sue potenzialità, le mosse più acrobatiche, deve rappresentare
la più completa libertà fisica.
CZ - Mi viene in mente uno dei miei
riferimenti prediletti, il duende di Garcìa
Lorca: "Il duende
può comparire in tutte le arti, ma dove lo si trova con maggiore facilità,
com’è naturale, è nella musica, nella danza e nella poesia recitata, giacché
queste necessitano di un corpo vivo che le interpreti, poiché sono forme che
nascono e muoiono di continuo ed elevano i propri contorni su di un preciso
presente. " (come già ricordato da Moira Chiavarini QUI)
LC- Si, anche se quello è un discorso più individuale, questa è una
dimensione collettiva.
Il culmine di tutto il ballo è la sfilata, il canto
della liberazione.
CZ- I costumi hanno colori
sgargianti e vivaci. Hanno una valenza simbolica?
LC - Le maschere corrispondono a delle maschere allegoriche. I colori molto
forti nascono originariamente dall'esigenza di farsi vedere da lontano, dal
pubblico. Da qui anche l'esasperazione nel trucco della bocca e degli occhi,
per amplificare le espressioni. Ognuno ovviamente poi aggiunge il proprio
modello, il proprio stile, la propria energia.
La cosa
difficile è estrarre il concetto, la forza, il senso universale della murga,
senza scadere nel didascalico. Scrissi un articolo per una rivista di
psicanalisi sulla "maschera che smaschera".
CZ - il famoso gioco su ri-velare
come velare due volte..
LC - Esatto. Non ti copri ma scopri
di più se ti dipingi il volto.
LC- Infatti, il trucco è qualcosa che utilizzi perchè vuoi comunicare di più.
Ora, in Uruguay è stata professionalizzata la figura del truccatore, prima i
murgheri si truccavano da soli. Il momento in cui io mi trucco, poi qualcuno ti
trucca e tu trucchi qualcuno a tua volta, è un percorso diverso...
CZ - "Il trucco è meditazione" diceva Carmelo Bene, ne "Il Principe cestinato", citando in realtà un altro attore...
LC - Ad esempio, questa mia opera, "Carnevalma" può essere intesa
nel suo messaggio sociale, ma ha un suo aspetto spirituale più interiore. CZ – Ci sono differenze di stile e
approccio tra le varie Murghe? LC - Nel momento in cui ti comunicano una cosa come gruppo, ogni Murga ha un proprio stile. Alcune hanno una
ispirazione più sentimentale, introspettiva. Temi di intima poesia come gli
anziani, il bambino della fine del mondo etc… ad esempio la mia Murga preferita, “Agarrate Catalina” (espressione popolare che potremmo
tradurre con il nostro “Porca Miseria!”, trovate un loro spettacolo QUI) hanno invece
attaccato satiricamente una legge in Uruguay che concedeva la maggiore età a 16
anni. Inizialmente, può sembrare una concessione democratica, un’apertura di
diritti, ma in realtà era solo un escamotage per mettere più facilmente in
galera i ragazzi di sedici anni.
Tutte le
Murghe hanno affrontato il tema in maniera riflessiva, loro attraverso
l’ironia. Nello spettacolo partono solenni, ma poi esplode il ringraziamento al politico
che ha creato la legge, perché in questo modo diventa legale fare tante cose
che prima non si potevano fare, come il sesso ad esempio…quindi c’è il
rovesciamento parodistico e il paradossale ringraziamento.
CZ- Passiamo ora a parlare delle tue opere, come porti nell'arte
contemporanea lo spirito della Murga?
LC- Tornando a Montevideo, dalla
Colombia, ho lavorato al progetto “ABRACADABRA” , che parte da una
linea murghera. Nasce da un proseguimento del progetto "Carnevalma". M’interessava il rapporto tra parola e realtà,
tra parola e volontà. In una società che si fonda sull’impossibilità di
soddisfare i desideri, “ABRACADABRA” è una parola con la quale tu puoi avere tutto ciò che
vuoi nel momento esatto in cui la proferisci.
CZ - Tu vuoi mostrare la gioia
della soddisfazione o l’illusorietà del desiderio che svanisce?
LC - M’interessava cogliere il
momento in cui sta per avverarsi il tuo desiderio, si sta realizzando ciò che
vuoi di più…lo stupore che ti invade mentre aspetti che si manifesti ciò che
desideri…non sai che cosa c’è dopo…il momento della felicità…e dopo un secondo
non si è più contenti…ovviamente utilizzando i brillantini d’oro del trucco,
l’interpretazione vira più sulla seconda opzione che hai indicato, la vanità
dell’illusione…
CZ- Un tema felliniano…al di là del
trucco che rimanda ovviamente al circo, ma tutta “La dolce vita” è una riflessione sulla vanità dei desideri…
LC – Non a caso, per tutto il
viaggio avevo compagno un libro “Fare un film di Fellini”…mi ha scoperchiato il cervello! Collegato a Fellini c’è un mio video “InVita”, che è stato selezionato in un Festival
internazionale a Buenos Aires su 500 video. E’ stato presentato anche a
Montevideo, ma è ancora inedito in italiana.Un video sull’occupazione di
Cinecittà del luglio 2012, per protestare contro l’annunciata distruzione dei
padiglioni di Fellini per
costruire una Spa per americani con 6 mila parcheggi!!!
CZ- Sarebbe come fare una sala Bingo nel Pantheon
..parliamo ora di questa tua mostra a Sala1 a Roma.
LC- Si, fino al 13 Aprile, dalle 16.30 alle 19.30. Nata dall’intuizione della
curatrice, Emanuela Termine, “Exodus” è una mostra che unisce 5 artiste, per
caso tutte donne, che oltre a me hanno lavorato per lungo tempo in paesi
stranieri (Sara
Basta, Elena
Bellantoni, Mariana Ferratto e Dunia Mauro). In questa mostra di esiliate, io ero l’unica in esilio anche il giorno
dell’inaugurazione. C’era infatti l’inaugurazione di “ABRACADABRA” a Montevideo nello stesso giorno. Per cui
accanto alla mia installazione c’era una postazione Internet, io ero
costantemente connessa, chiunque poteva venire e chiedermi qualsiasi cosa, io
rispondevo con immagini istantanee della città di Montevideo. L’aspetto
interessante è che io avevo scattato queste foto, ad ognuna delle quali avevo
dato un titolo, in precedenza, e ad ogni domanda rispondevo col titolo perfetto
di ciascuna opera...
CZ –
Da cosa nasce il titolo: “Non è tutto loro quel che luccica”?
LC – Al di là del discorso sull’illusione che abbiamo già affrontato prima,
stando all’estero mi sono reso conto della visione deformata che hanno
dell’Italia, dello stereotipo del Bel Paese, dei monumenti, della cultura…è un
tema che già avevo affrontato in una grande mostra chiamata “Colorem habet substantia vera alteram” (“Ha un’apparenza, la sostanza reale è un’altra”). Una
mostra all’interno della Facoltà di Giurisprudenza di Buenos Aires, con
colonne immense, statue colossali che rappresentano il Professore e lo
Studente, uno spazio chilometrico impossibile da riempire e che quindi ti
costringeva ad un’opera iper-concettuale. Quindi ho
realizzato queste opere ispirate ai luoghi storici romani, con una tecnica
interessante: girando il foglio dopo il disegno, creando quindi un effetto
incisione. Di giorno dunque apparivano tutti fogli bianchi, di sera con
l’illuminazione radente affiorava l’opera. Era per mostrare che al di là della
sostanza paesaggistica, non è rimasto più nulla…
CZ – Il simulacro, l’ombra di una gloria che è svanita...
LC – E davanti alla Bocca della Verità ho messo centinaia di
mani giunte in cera sottile, simbolo quindi d’una speranza assolutamente
precaria. Le ho ottenute tramite una lavorazione particolare: immergendo le
mani nella cera liquida bollente (un dolore inverecondo!), non potendo muoverle
altrimenti le spezzerei nel loro formarsi, poi aspettando che si raffreddi e si
stacchi lo stampo. Uno strato sottilissimo, che si rompe facilmente.
CZ- Poi il gesto delle mani giunte
è antichissimo, il famoso“Namastè”, un gesto universale di raccoglimento,
preghiera, speranza…
LC – Infatti, volevo proprio
comunicare la potenza del gesto in contrasto all’effimerità del materiale.
Inoltre, le mani di cera erano dappertutto, per cui la gente ci camminava
sopra…l’effetto sonoro era davvero simile a quello delle ossa rotte, perché
creano all’interno cassa di risonanza…e il gesto di schiacciare una mano giunta
in speranza è devastante.
CZ - Quali stimoli, quale
ricchezza, ma anche quali difficoltà hai incontrato nel portare qualcosa di
vivo, energico e popolare come la Murga
in un contesto mentale e paludato come l’arte contemporanea?
LC - Coniugare arte contemporanea e
impegno sociale è praticamente impossibile. Personalmente, non amo
sovrastrutture, costrizioni,forzature. Le persone non hanno compreso lo spirito
delle mie opere finché non hanno assistito dal vivo alla Murga. Essa è un fenomeno che contiene in
sé altre discipline, ma che non sono in realtà direttamente arte contemporanea.
Ma se però l’arte contemporanea è un mezzo di comunicazione, che può essere
anche sublime a livello intellettuale, la Murga
mi permette di comunicare anche in quel modo, a livello universale, qualsiasi
cosa io voglia comunicare.