Avevo cominciato a rispondere al commento di Spartaco Lombardo sul post precedente (lo trovate qui), ma siccome poneva temi molto interessanti, il discorso si è allargato e ha raggiunto le dimensioni di un post breve (almeno per i miei standard, chilometrici finora):
Caro Spartaco, grazie per la tua attenzione.
Grazie anche per darmi la possibilità di chiarire un punto cruciale (differenza e rapporto tra originalità, qualora possibile come plausibilmente tu interroghi, e "plagio" o influenza dominante). E' un tema che merita di essere sviluppato con cura, quindi ora mi limiterò a brevi cenni, mi, e ti, riprometto di affrontare presto con la dovuta attenzione la questione. Ora, in breve: nel momento in cui prendo Dylan a pietra di paragone, in realtà già dò per "scontato", o implicito, un discorso sull'impossibilità d'essere integralmente originali. Il Dylan saccheggiato da De Gregori, o che ha influenzato pesantemente De Andrè (e mille altri) potrebbe (ad una valutazione superficiale) essere lui messo sul banco degli accusati, con imputazioni pesantissime (infatti in America lo è stato da sempre, più che mai negli ultimi tempi): è stato da giovane il primo ad essere una sorta di "scimmietta" dei bluesmen alla Leadbelly, inventandosi la storia finta del suo viaggio da hobo, come un bambino fanfarone (azzeccata in questo senso la scelta di "I'm not there"); ha vissuto per anni nella cieca pedissequa imitazione/adorazione di Woody Guthrie; ha attinto spudoratamente all'oceano della tradizione popolare americana (e non solo, irlandese, addirittura pugliese come nel caso di "Seven Curses"), tante sue melodie popolarissime come "Don't think twice, it's alright" o "Girl from the north country", o "Wedding Song" o "Sara", derivano da brani precedenti, tradizionali o meno, per non parlare dell'incipit di "Hard Rain", etc..; ha palesemente dichiaratamente continuamente rubato musica (T.S. Eliot docet: "I poeti immaturi imitano. I poeti maturi rubano"): dai dischi che rubava agli amici, alla versione di "House of the rising sun" di Dave Van Ronk, dai dialoghi di "Confessioni di uno yakuza" alla famosa querelle dei versi di Henry Timrod (analizzata benissimo da Alessandro Carrera qui)...
il punto è che (proprio come T.S.Eliot, che però citava le fonti) dalla gigantesca conoscenza della poesia/musica precedente, dal caos primordiale di una ispirazione molteplice e ribollente, Dylan è riuscito a trovare una forma nuova, è riuscito a divenire (benedizione nell'arte, maledizione nella vita) la voce, l'icona, il simbolo di una nuova arte, di una nuova generazione etc...
La sua risposta nell'ultima grande, bellissima intervista di quest'estate a "Rolling Stone", è profondamente significativa.
Verso il termine d'una intervista piena di saggezza spirituale, all'ennesimo riproporsi della questione, ha improvvisamente fatto esplodere la frustrazione di 50 anni di fraintendimenti e etichette appiccicategli addosso (per questo poteva capire cosi bene Lenny Bruce, "They stamped him and they labeled him/ like they do with pants and shirts/ He fought a war on a battlefield where every victory hurts"): "Sono sfigati senza palle quelli che si lamentano di queste cose. E’ una cosa vecchia che fa parte della tradizione; risale a molto tempo fa. Queste persone son le stesse che mi hanno affibbiato il nome di Giuda. Giuda a me, Giuda; il nome piu’ odiato nella storia dell’uomo!
Se pensi di essere stato insultato, prova a pensare che ti venga detto quello che han detto a me. E poi, per cosa?
Per aver suonato una chitarra elettrica? Come se farlo fosse paragonabile a tradire nostro Signore e consegnarlo perche’ fosse crocifisso. Tutti quei maledetti figli di puttana devono marcire all’inferno."
Mutatis mutandi (cambiandosi, cioè, le mutande ;))), questa emancipazione dai modelli, pur ottenuta attraverso la frequentazione di essi, ancora di più vale per Guccini: cantautore dottissimo, che ha sempre citato, omaggiato addirittura provato ad imitare Dylan (oltre le citazioni in "Eskimo" e "Farewell", disse che "Noi non ci saremo" nacque dal fraintendimento di un testo dylaniano), ma che ha una sua indipendenza autoriale fortissima, una personalità creativa, un marchio compositivo che magari può risultare monotono e scostante per i non appassionati, ma immediatamente riconoscibile e soprattutto AUTENTICO, genuino, spontaneo (per quanto raffinatisimo e colto).
Sintetizzando: Dylan ha attinto a tutto, ma poi ha scritto "Like a rolling stone", qualcosa di mai sentito prima. Guccini ha attinto a molti, ma poi ha scritto "Dio è morto", canzone che, per quanto il titolo e l' incipit siano entrambi citazioni da frasi famosissime (l'annuncio dello Zarathustra nietzschiano e i primi versi di "Howl" di Ginsberg), almeno in Italia, non aveva precedenti. De Gregori, invece, s'ispira, diciamo eufemisticamente, a Dylan, e poi la cosa più originale che scrive è....aiutami tu:
"La leva calcistica del'68"?! "La donna cannone"?!
Entrambe bellissime canzoni, a cui siamo tutti affezionati, ma denotano come De Gregori per essere diverso dal suo modello dominante debba rifugiarsi in un clichè ancora più convenzionale e locale, quello della canzone melodica italiana.
Ottima l'idea di scrivere su Gaber, che nel suo teatro-canzone fa un utilizzo interessante della rielaborazione di precedenti modelli. Per esempio nei confronti di Brel, di cui prende a spunto diverse canzoni, cambiandone però il senso in maniera nuova (anche se secondo me fa un passo indietro, "Les Bourgeois" di Brel è più sottile de "I borghesi" di Gaber). Rapporto diverso con le fonti, più disinvolto di quello di De Andrè, che quando traduce Brassens o Cohen è molto bravo e fedele, mentre su Dylan è costretto a inventare per ricreare l'effetto visionario, a volte prendendo cantonate micidiali (il cambio di senso che ho criticato di "Desolation Row", tradotta con De Gregori, non è come in Gaber da Brel un consapevole utilizzo di un'opera precedente per dire cose proprie, ma è un tentativo fallito di creare lo stesso effetto dell'originale tentando soluzioni nuove).
Ho parecchie cose in cantiere, molte già richieste dai miei "venticinque lettori"
(ho citato così spesso Leopardi che per par condicio devo menzionare Don Lisander, il fraintesissimo grandissimo scrittore Alessandro Manzoni, sul quale davvero vorrei scrivere qualcosa per spazzare via i superficialissimi luoghi comuni a riguardo), e la cosa mi fa enormemente piacere, ma sicuramente Gaber è un autore che merita, per la sua splendida anomalia, di essere studiato e approfondito.
P.S:
Lo scopo dei miei scritti (come credo di molti autori) è quello proprio di creare discussioni, approfondimenti, nuove interpretazioni etc...
trattando di autori così grandi e fecondi, per evitare di scrivere 100 pagine a post a volte devo sintetizzare o limitarmi a enunciare concetti che meriterebbero maggiore elaborazione.
Per cui benvenuti gli interventi come quello di Spartaco, che torno a ringraziare, i quali consentono di esplorare maggiormente affermazioni risultate meno esplicite e argomentate nella trattazione, e che danno senso e vita a questo blog.
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