lunedì 6 febbraio 2017

Da Omero a Shakespeare: ha ancora senso il massacro dei classici?



Tutto il Novecento ha applicato ossessivamente la rivisitazione dei testi classici, una corsa inizialmente avventurosa, un'impervia scalata alle vette da dissacrare, divenuta presto rassicurante promenade borghese nella prassi abusata e fintamente originale della cultura di massa.


La triste parabola del postmoderno: dall'oltraggio delle avanguardie, passando per i grandi visionari diversamente apocalittici (Artaud, Bene, Pasolini, in misura diversa Beck e Barba), fino all'impoverimento contemporaneo.
Il brivido blasfemo di un  Buñuel  mantiene, nel rovesciamento programmatico, il senso della sacralità degli archetipi: La Voie lactée è un comodo prontuario gnostico.
Ciò che non si può dire per nessuno dei Romeo e Giulietta in jeans e maglietta che ci sono stati inflitti negli ultimi trent'anni.

"Massacro dei classici", questa la potente definizione di Bartolucci, applicata al primo Bene, quello che inscenava la Salomé di Wilde con Franco Citti nei panni di Giovanni Battista, rendendo le cantine trasteverine templi del Grande Teatro, per la delizia di Flaiano e Arbasino, il fastidio di Visconti, il fascino e il rispetto di Pasolini ed Elsa Morante.

"Ero un ragazzo, allora", risponderà CB al grande Bruno Zevi, che evocava tale definizione: certo uno sguardo efficace ma non comprensivo della sua opera di rivoluzione teatrale.

Ma, al giorno d'oggi, nel quale è praticamente impossibile assistere ad una rappresentazione lirica, teatrale o cinematografica che non ceda alle lusinghe di una attualizzazione "contemporanea" o conformisticamente dissacrante, invece di aderire filologicamente alla forma classica, tutto ciò ha ancora senso?
Di Bene, di Pasolini, di Buñuel, ne nascono pochi.
Scimmiottarli è un pessimo servizio, in primo luogo alla loro memoria, prima che ai classici banalmente "rivoluzionati".

Queste riflessioni nascono dalla visione di Odissea A/R al Teatro Argentina, per la regia di Emma Dante.
La Dante è regista abile, intelligente, fautrice di una ricerca senza dubbio interessante.
Stavolta, però, il massacro del classico appare forse involontario.


 Lo spettacolo può vantare tutti i pregi e le caratteristiche della ricerca "dantesca": interessante utilizzo dei corpi in scena, complesso gioco coreografico di sincronie e giochi visuali creati dalla coralità fisica dei soggetti, uso creativo e brillante del vernacolo siciliano, una certa seducente freschezza espressiva.
Molte le risate (facili) e gli applausi (generosi) strappati a scena aperta.
C'è però un problema: stiamo parlando dell'Odissea di Omero.
Per un caso beffardo, abbiamo visto lo spettacolo il giorno dell'anniversario di James Joyce, un autore che sulla rivisitazione dissacrante del poema omerico ha costruito un monumento all'(anti)letteratura.

Nel pieno rispetto della carriera della regista, ci sentiamo di affermare senza timore: non si può affrontare un classico fondativo della cultura occidentale ignorando (se non disprezzando) il valore sacro degli archetipi.
Comprendiamo la volontà di rendere attuale, viva, pulsante, contemporanea la perenne urgenza della vicenda mitica: ma ciò può avvenire solo nella luce eterna, e per ciò perennemente attuale, del simbolo intatto.
Vedere Atena come una Sora Cecioni sicula, Hermes come un frivolo gay da caricatura o Zeus come un palestrato vanesio può farci sorridere in una versione del Trio Marchesini-Solenghi-Lopez.
Da una regista della cultura di Emma Dante ci aspettiamo di più.
L'unica scena che ci ha convinto è stata quella del canto Rapimi la porta di Bruno Di Chiara, davanti a Penelope seppellita dal suo telo (divenuto sudario attraverso un'intuizione brillante ma tirata forse un po' troppo per le lunghe), in cui la poesia del vernacolo siciliano evoca il contrasto tra crudeltà e innocenza del canto del pappone napoletano prima della violenza sulla prostituta traditrice in Accattone.

Una scena che Pasolini definì "idillio" rispetto al successivo massacro del Circeo, segnando nettamente la "mutazione antropologica" drammaticamente avvenuta.
Ma Pasolini (colui che fece interpretare Tiresia da Julian Beck, Creonte da Carmelo Bene, coraggiosamente Giasone dall'atleta olimpico Giuseppe Gentile e meno scandalosamente Medea da Maria Callas) era il primo ad essere "scandalizzato dalla mancanza di senso del sacro" dei suoi contemporanei.
Concludo sullo spettacolo di Emma Dante, sottoscrivendo le parole puntuali di Chiara Babuin:
"Lo spettacolo non ha il senso del Sacro (e, se peschi a piene mani da uno dei poemi mitologici per eccellenza, è grave); gli dèi, le rare volte che appaiono, sono trattati in maniera macchiettistica (che poi, il bello della mitologia è che le divinità sono sempre personaggi con determinate caratteristiche, ma non sono mai stereotipi); la natura, espressione della volontà e dei capricci divini, non è mai veramente agente, declassata a mero accenno nei discorsi dei personaggi.
La sensazione è che la Dante abbia ridotto la mitologia a dramma borghese (...) soprattutto, a questo spettacolo manca il pathos; e le musiche contemporanee che ogni tanto imbellettano (inutilmente) la scena non fanno altro che smorzare ancora di più qualche accenno di emozione.
Un vero peccato, perché gli attori hanno dimostrato di avere una preparazione al canto, alla danza, alla respirazione e alla recitazione davvero notevole: Emma Dante è infatti famosa per creare poetica attraverso i corpi, eludendo il linguaggio verbale - epifanico in ciò, il suo MPALERMU del 2001.
Ma questa volta no, non ci è riuscita. ODISSEA A/R sembra una forzosa e forzata lettura contemporanea del poema omerico, che però lascia nella sua epoca antica il dissidio esistenziale dell'uomo, come anche la sua bellezza".


A questo punto, confessiamo d'aver apprezzato di più la rappresentazione, meno ambiziosa, ma più fedele, del Winter's Tale di William Shakespeare al Teatro Genesio di Roma.
Spettacolo rigorosamente in lingua, realizzato dalla già apprezzata compagnia The Rome Savoyards/Plays in Rome, per la regia di Sandra Provost.


Anche qui la vicenda è calata nella contemporaneità, forse più per facilità nella realizzazione che per vezzo interpretativo.
La fedeltà all'opera è però impeccabile.
Un testo non facile, tra i più intricati della produzione shakespeariana: cinque atti, di cui tre di cupa ingiustizia, di tortura psicologica, di trionfo del sospetto e dell'ignoranza, con morti innocenti, oracoli profanati e atroci sensi di colpa, una fosca tragedia sulla stupidità umana che poi negli ultimi due si scioglie nel più clamoroso dei lieto fine.
La compagnia, ben collaudata nella commedia brillante, cerca un equilibrio non facile in una recitazione didascalica e misurata, eppure, nel finale miracoloso, è in grado di emozionarci.
Il motivo è semplice: perché, pur nella semplicità di una messa in scena non certo faraonica, gli archetipi vengono rispettati.
E ciò (T.S.Eliot docet) è il segreto della vera, sapiente modernità: la scena finale, in cui i protagonisti sono disposti, nei loro diversi caratteri (il re affranto dalla colpa, i giovani innamorati, il ladro nato sotto gli auspici di Mercurio, il consigliere fedele e onesto, le coraggiose serve della regina), assistono alla meraviglia del Mistero, alla Resurrezione rituale dell'Amor perduto, della Giustizia offesa, sembra una risposta felice con 304 anni d'anticipo all'abisso del dubbio di Cosi è, se vi pare.


Shakespeare, come tutti i grandi geni, dialoga al di là del tempo con i suoi eredi: come Dante ispira Eliot e Pound, così il Bardo dispone le carte sul tavolo di Pirandello.
Un plauso alla commovente resa della regina/statua di Fabiana De Rose.

Ancora una volta, less is more.

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