Eugène Ionesco non è solo La Cantatrice Calva, un testo di straordinaria intelligenza introspettiva a cui l'abusata etichetta di Teatro dell'Assurdo appare insopportabilmente stretta: come sentenziò genialmente Giovanni Casoli, ben lungi da una parodia satirica della vita borghese, in essa riconosciamo "la più grande tragedia del Novecento".
In anticipo su Antonioni (il dramma dell'incomunicabilità), su Lynch (l'inquietudine del grottesco nel quotidiano), su tutta la rivolta antiborghese degli anni '60 e '70 (pensiamo ai brani più provocatori di Zappa o agli sketch più arditi dei Monty Python), Ionesco ha messo in scena il Nulla dell'esistenza contemporanea, ritmata da falsi rituali svuotati di senso (come nella prima pagina dell'Ulisse di Joyce), convenzioni formali assassine del vero (in questo vicino a Camus), l'insignificanza del labirinto linguistico (ben prima degli strutturalisti).
L'apparente ghigno di Ionesco è, per noi, superiore alla desolazione infinita (e a tratti compiaciuta) di Beckett.
In lui, c'è la memoria di una luce spirituale, di una conoscenza smarrita, un profondo senso di Caduta, più gnostico che esistenzialista.
Ne è conferma l'interessantissimo diario degli anni della maturità La Ricerca Intermittente, in cui fin dal titolo Ionesco si dichiara autore lontano dalle certezze nichilistiche di Beckett, in grado di mettere costantemente in discussione il proprio percorso: accanto al Pater Noster figurano nel libro aforismi degni del Cioran più nero.
Ecco, Ionesco appare, a volte, l'aureo equilibrio (in bilico tra scetticismo della ragione e intuizione spirituale) fra gli altri due geniali romeni padroni della lingua francese, il custode sapiente della Tradizione Mircea Eliade e il cupo negatore d'ogni senso Emil Cioran.
Tutto ciò si ritrova ne Il rinoceronte, per Ionesco, come per il grande contemporaneo Camus fu La Peste, esso è l'irruzione dell'assurdo nell'esistenza.
Se nel capolavoro di Camus l'attenzione è volta alla pietà umana, al dialogo (im)possibile tra Fede e Ragione, superato leopardianamente nella comune resistenza al Male, Ionesco gioca ancora la carta del grottesco, dell'iperbole comicamente tragica, in cui l'apparente incrinatura della normalità sociale assume progressivamente i caratteri apocalittici di una inesorabile distruzione.
In tempi in cui l'attualità politica contrappone uno stantìo gattopardismo di regime al crescere rabbioso di forme di populismo difficilmente controllabili, crediamo che la visione "assurda" di Ionesco sia più puntuale e illuminante per interpretare il reale rispetto alle analisi spocchiose e sterili degli opinionisti di professione.
Una vetta del Teatro del Novecento su cui promettiamo di tornare con maggiore profondità.
Per ora, ci limitiamo a segnalare che stasera 13 Dicembre al Teatro India di Roma sarà possibile seguire il progetto Domino, ideato e realizzato dai giovani registi Irene Di Lelio e Manuel Capraro.
Le produzioni sono due e indipendenti: Fabrizio, scritto e diretto da Manuel Capraro, con Antonello Azzarone, ed appunto Il rinoceronte, per la traduzione di Giorgio Buridan e la regia Irene Di Lelio, con Gabriele Abis, Antonello Azzarone, Giulia Carpaneto, Luca Mazzamurro, Lorenzo Tolusso.
Buona Visione.
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