Luigi Pirandello è stato l'autore che probabilmente ha rappresentato con maggiore profondità di sfumature psicologiche i temi eminentemente novecenteschi della frammentazione dell'io, dell'illusorietà ingannevole di ciò che appelliamo reale, del contrasto tragico e straniante tra le proprie proiezioni mentali e la percezione discordante dei fenomeni attorno a noi.
Temi sviluppati con abissale sguardo da una corrente sotterranea di filosofi e sapienti occidentali, tra i quali Schopenhauer s'impone certo come colui che più esplicitamente e (anti)sistematicamente ne ha raccolto l'immensa eredità.
Eredità di cui Nietzsche sarà in seguito l'interprete più furioso e carismatico, proprio nel momento in cui tenterà, impossibilmente, di liberarsene.
Eppure, ben prima di Goethe ed Holderlin, ben prima dei Neoplatonici, ben prima delle riflessioni supreme di Meister Eckhart e Silesius (tensioni sublimi che sfondano i limiti del pensiero in largo anticipo sulle elucubrazioni cartesiane), ben prima delle riconosciute radici greche di tali riscoperte moderne (i Misteri Eleusini, la tradizione orfico-pitagorica, Eraclito), tali intuizioni erano patrimonio comune, quasi scontato, della tradizione orientale.
Come per noi lo sono ora le categorie kantiane, così per la sapienza cinese, indiana e persiana, i temi su cui s'incaglieranno le menti elaboratissime di Joyce, Kafka e (con più arroganza) Sartre, fino ed oltre Heidegger, erano l'inizio di ogni discorso metafisico.
Le vette del pensiero filosofico moderno occidentale sfiorano le fondamenta di quello orientale.
Ciò che per "noi" è il vertice, per "loro" è la base.
Una base che rende le indicazioni "noi" e "loro" del tutto sciocche nella loro clamorosa erroneità.
Del resto, è tutto logico: l'albero della riflessione occidentale è tutto rivolto verso l'esterno, quello orientale verso l'interno. Inevitabile che, per la legge della polarità, i due percorsi contrapposti si siano mossi in senso inverso, fino a recentemente sfiorarsi, dopo un millenario percorso di avvicinamento, in una congiunzione fatidica.
Le ultime scoperte della fisica post-quantistica sono innegabilmente conciliabili con i presupposti della saggezza vedica.
Ne abbiamo parlato (QUI) con una delle figure eminenti del CERN.
Queste riflessioni sono sorte dopo la lettura di una riduzione a fumetti del capolavoro di Pirandello, l'Enrico IV, opera in cui il genio siciliano mette in scena con maestosa nitidezza espositiva i temi già affrontati magnificamente in Così è (se vi pare) e già elaborati nella lunga gestazione di Uno, nessuno e centomila (che uscirà nel 1926, quattro anni dopo il debutto dell'opera in oggetto al Teatro Manzoni di Milano).
Pirandello spezza l'oscillazione del pendolo schopenhaueriano tra dolore e noia, esponendo la storia di una follia volontaria, in cui il protagonista si avvolge del velo di Maya fino a squarciarlo, trovando un'impossibile noluntas nell'adesione folle e totale alla Rappresentazione: il modo più tragicamente esplicito per denudare la vanità illusoria del nostro io.
L'autore della riduzione fumettistica, il giovane Lorenzo Bianchi, certo non può essere accusato di mancanza d'ambizione: questo tentativo segue quello già proibitivo de L'Uomo delle Stelle, racconto a fumetto della vita di David Bowie.
Bianchi si affida ai disegni di Angelica Regni, come nel caso di Bowie a quelli di Veronica Veci Carratello.
Nella trasposizione si nota un affine sguardo registico, un'ambientazione simile, più che altro come atmosfera interiore: il protagonista smarrito nel labirinto mentale del proprio genio o della propria follia, la cui alienazione regale è trasposta fisicamente in un castello immaginario, proiezione irreale delle proprie edificazioni mentali. Entrambi personaggi che incarnano la crisi della propria personalità: una scissa nella finzione folle di un impossibile ruolo storico, l'altra sublimata in un serie di maschere, di innumerevoli alter-ego, di vite parallele ben più reali (e divenute immortali nella trasfigurazione estetica) di quella convenzionalmente intesa come vera.
Due sfide mastodontiche, necessariamente invincibili, ma che denotano una già delineata personalità autoriale.
Sappiamo come Bianchi stia da tempo riflettendo su un progetto altrettanto ambizioso e impegnativo, una sorta di monumento fumettistico alla decadenza.
Di più non possiamo dire.
Noi, che apprezziamo l'incoscienza di gettarsi in progetti che spaventerebbero i più, non possiamo che incoraggiarlo a trasferire il suo intento dal vago e sicuro regno del potenziale al pericoloso e limitato mondo dell'atto.
In un mondo di accidiosi criticoni, ben venga chi si espone incurante a critiche, potenzialmente anche feroci, in nome dell'espressione della propria creatività.