Era il 1963 quando Vittorio Gassman (galvanizzato dal grande successo come attore popolare di cinema e deciso a svecchiare la sua figura di grande attore accademico) chiese a Pier Paolo Pasolini di tradurre il Miles Gloriosus di Plauto in romanesco.
Un progetto innovativo, dal grande fascino potenziale, che purtroppo non vide mai la luce.
Non si tratta certo della pagina più importante della vastissima produzione pasoliniana, eppure lo sforzo, squisitamente letterario, del genio friulano non fu indifferente: tradurre in settenari in rima baciata dal latino al romanesco una commedia del III sec. A.C., non è proprio un esercizio da Settimana Enigmistica.
Soprattutto, l'operazione rientrava brillantemente nella reinterpretazione poetica e politica di Roma del recente autore di Accattone e Mamma Roma.
Lo spettacolo è tornato in scena al Teatro India di Roma, con un doppio omaggio che ha reso imperdibile l'edizione agli occhi degli studiosi pasoliniani.
Innanzitutto, il luogo della rappresentazione, il teatro di fronte alla cui entrata campeggia un enorme ritratto del poeta ucciso, situato esattamente di fronte al Gazometro, simbolo architettonico della Roma periferica e fatiscente, scenario (assieme al Pigneto e il Madrione) non solo dei romanzi, ma anche della vita di Pasolini.
Poche centinaia di metri, affacciato sullo stessa riva del fiume, si trova il ristorante Al Biondo Tevere, dove poco più di quarant'anni fa il genio tormentato cenò per l'ultima volta, prima di recarsi ad Ostia verso la morte, tuttora vergognosamente misteriosa.
E, poi, la scelta di affidare la parte del vero protagonista (non il beffato soldato fanfarone, ma il servo astuto e buono Palestrione, sorta di prototipo latino di Figaro e Sganarello) a Ninetto Davoli, il ragazzo di vita per antonomasia.
Una scelta che arricchisce la rappresentazione di diversi sottotesti: l'eterna "disperata vitalità" dei servi/sottoproletari in grado di capovolgere le ingiustizie del Potere tramite la forza spontanea della gioia d'amore (il tema della Trilogia della Vita, poi tragicamente abiurata); la maschera allegra e sensuale del giovane Ninetto dagli occhi ridenti che diviene la saggezza comicamente eversiva del riso plautino.
Dal punto di vista linguistico, è interessante (e inquietante) come il romanesco pasoliniano di appena cinquanta anni fa sia senza dubbio comprensibile, ma trapuntato di termini ormai divenuti desueti. Termini gergali, nati dalla viva fantasia popolare nel divenire quotidiano dell'immaginazione espressiva, che ora suonano come trovate letterarie, anacronismi che necessitano di note a margine.
Una nota per noi curiosa, ma che in realtà, ad un'attenta riflessione, testimonia la profezia pasoliniana sulla "omologazione culturale" e l'importanza dei dialetti come espressione di resistenza cultuale alla dominante dittatura neocapitalista.
Lo spettacolo è gradevole, fedele, mostrando l'attualità evidente dei personaggi fissi plautini, in cui si possono ritrovare, in una luce stereotipica, le eterne dinamiche relazionali delle vicende umane (QUI il trailer).
Verso la fine, il progressivo immalinconirsi dell'atmosfera, apparentemente fuori luogo considerato il fiabesco lieto fine, è giustificato dall'improvvisa apparizione di Pasolini stesso (nei suoi panni Gabriele Geri, per il resto della commedia convincente interprete del giovane amante Pleusicle).
L'autore appare fugacemente, muto e sdegnato testimone del fallimento dell'ego, di cui Il Vantone (il tronfio e prepotente Pirgopolinice) è grottesca incarnazione.
Un'occasione per rendere omaggio a una delle più importanti figure del Novecento, in una delle tante declinazioni della sua incandescente creatività, quella che detta forse la più alta empatia, poiché come egli scrisse:
"Nel teatro la parola vive di una doppia gloria,
mai essa è così glorificata.
E perché? Perché essa è, insieme, scritta e pronunciata.
È scritta, come la parola di Omero,
ma insieme è pronunciata
come le parole che si scambiano tra loro due uomini al lavoro,
o una masnada di ragazzi, o le ragazze al lavatoio,
o le donne al mercato -
come le povere parole insomma
che si dicono ogni giorno,
e volano via con la vita.".
Un progetto innovativo, dal grande fascino potenziale, che purtroppo non vide mai la luce.
Non si tratta certo della pagina più importante della vastissima produzione pasoliniana, eppure lo sforzo, squisitamente letterario, del genio friulano non fu indifferente: tradurre in settenari in rima baciata dal latino al romanesco una commedia del III sec. A.C., non è proprio un esercizio da Settimana Enigmistica.
Soprattutto, l'operazione rientrava brillantemente nella reinterpretazione poetica e politica di Roma del recente autore di Accattone e Mamma Roma.
Lo spettacolo è tornato in scena al Teatro India di Roma, con un doppio omaggio che ha reso imperdibile l'edizione agli occhi degli studiosi pasoliniani.
Innanzitutto, il luogo della rappresentazione, il teatro di fronte alla cui entrata campeggia un enorme ritratto del poeta ucciso, situato esattamente di fronte al Gazometro, simbolo architettonico della Roma periferica e fatiscente, scenario (assieme al Pigneto e il Madrione) non solo dei romanzi, ma anche della vita di Pasolini.
Poche centinaia di metri, affacciato sullo stessa riva del fiume, si trova il ristorante Al Biondo Tevere, dove poco più di quarant'anni fa il genio tormentato cenò per l'ultima volta, prima di recarsi ad Ostia verso la morte, tuttora vergognosamente misteriosa.
La pietà pasoliniana di Ernest Pignon, presente anche Al Biondo Tevere. |
Una scelta che arricchisce la rappresentazione di diversi sottotesti: l'eterna "disperata vitalità" dei servi/sottoproletari in grado di capovolgere le ingiustizie del Potere tramite la forza spontanea della gioia d'amore (il tema della Trilogia della Vita, poi tragicamente abiurata); la maschera allegra e sensuale del giovane Ninetto dagli occhi ridenti che diviene la saggezza comicamente eversiva del riso plautino.
Dal punto di vista linguistico, è interessante (e inquietante) come il romanesco pasoliniano di appena cinquanta anni fa sia senza dubbio comprensibile, ma trapuntato di termini ormai divenuti desueti. Termini gergali, nati dalla viva fantasia popolare nel divenire quotidiano dell'immaginazione espressiva, che ora suonano come trovate letterarie, anacronismi che necessitano di note a margine.
Una nota per noi curiosa, ma che in realtà, ad un'attenta riflessione, testimonia la profezia pasoliniana sulla "omologazione culturale" e l'importanza dei dialetti come espressione di resistenza cultuale alla dominante dittatura neocapitalista.
Lo spettacolo è gradevole, fedele, mostrando l'attualità evidente dei personaggi fissi plautini, in cui si possono ritrovare, in una luce stereotipica, le eterne dinamiche relazionali delle vicende umane (QUI il trailer).
Verso la fine, il progressivo immalinconirsi dell'atmosfera, apparentemente fuori luogo considerato il fiabesco lieto fine, è giustificato dall'improvvisa apparizione di Pasolini stesso (nei suoi panni Gabriele Geri, per il resto della commedia convincente interprete del giovane amante Pleusicle).
L'autore appare fugacemente, muto e sdegnato testimone del fallimento dell'ego, di cui Il Vantone (il tronfio e prepotente Pirgopolinice) è grottesca incarnazione.
Un'occasione per rendere omaggio a una delle più importanti figure del Novecento, in una delle tante declinazioni della sua incandescente creatività, quella che detta forse la più alta empatia, poiché come egli scrisse:
"Nel teatro la parola vive di una doppia gloria,
mai essa è così glorificata.
E perché? Perché essa è, insieme, scritta e pronunciata.
È scritta, come la parola di Omero,
ma insieme è pronunciata
come le parole che si scambiano tra loro due uomini al lavoro,
o una masnada di ragazzi, o le ragazze al lavatoio,
o le donne al mercato -
come le povere parole insomma
che si dicono ogni giorno,
e volano via con la vita.".
Grazie per questa ottima segnalazione e per l’articolo su La macchinazione (http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/04/02/la-macchinazione-perche-pasolini-fa-ancora-paura/2602576/), che invoglia a vedere un film di cui, leggendo invece altre recensioni, apparentemente non si sentiva l’esigenza. Mi permetto qualche osservazione banale e alla buona. Non è impossibile, ma mi sembra improbabile, che PPP sia stato ucciso perché stava scrivendo Petrolio o, più seriamente, perché aveva conoscenze pericolose di alcuni arcana imperii dell’Italia post-Yalta a sovranità ridottissima. Non saprei addurre molte argomentazioni, e mi rendo conto che (purtroppo, ma necessariamente) l’onus probandi è tutto sulle spalle di chi propone la lettura di David Grieco: pur non essendo dalla parte di chi deride le ipotesi sulla strategia della tensione applicando loro l’etichettona giornalistica di ‘complottismo’, in cui può rientrare quasi ogni revisione storica un po’ allarmante, ho la desolante impressione che già nei violenti e tenebrosi Settanta, e persino in una periferia ottusa e brutale come l’Italia, il Principe di Questo Mondo avesse approntato la ben nota ed efficace retorica del neocapitalismo, che assorbe qualunque critica svuotandola intimamente – fosse pure un eroe come Pasolini o un bodhisattva o un messia ad avanzarla. D’altro canto, non credo nemmeno che la morte di PPP sia stata un incidente alla Winckelmann (c’è ancora chi lo sostiene, perfino un grande come Ceronetti): la solita vicenda dell’omosessuale borghese del vecchio mondo che si scontra con la rabbia versuta del marchettaro plebeo. A me pare, perdonate la povertà espressiva, che Pasolini sia stato ucciso perché era Pasolini. Senz’altro “se l’era andata a cercare”, ma come Giordano Bruno: grande provocatore (su un solido fondamento di verità) quando la provocazione era ancora moneta d’oro accecante e non banconota inflazionata; in un’epoca in cui, come sempre del resto, si poteva fare e dire più o meno tutto, avendo però l’accortezza di intrupparsi in eserciti culturali o sottoculturali, di potere o di sottopotere. Chi non lo faceva, chi non lo fa, per una violenta urgenza interiore in cui non è compito umano discernere voluttà di martirio e santo desiderio di libertà, si ritrovava e si ritrova crocifisso. E la mano che crocifigge è sempre la stessa, si possa o non si possa coglierla mentre è alzata e all’opera.
RispondiEliminaGrazie ancora.